I
Il governo degli Stati Uniti commise una flagrante violazione della
Costituzione e delle leggi per assicurare le ingiuste condanne dei
Cinque patrioti cubani che presto compieranno 14 anni di carcere, arbitrario ed illegale.
Non fu un evento isolato ma un impegno sistematico che durò per tutto il
tempo del processo contro i Cinque ed in cui investì molti milioni di
denaro pubblico.
Riguardo
la sua durata, le persone coinvolte, il volume di risorse
utilizzate e altri aspetti importanti di questa operazione solo si ha
un'informazione molto parziale.
In qualunque modo tale condotta obbligherebbe le autorità - sia i
tribunali che l'Esecutivo - a disporre l'immediata liberazione dei
nostri compagni; Washington ha anche cospirato per nascondere quello
che ha fatto, incorrendo in un reato aggiuntivo, quello di occultamento.
Questa è l'essenza dell'Afidavit
(dichiarazione giurata) che
Martin Garbus,
avvocato di Gerardo Hernandez Nordelo, ha appena presentato a Joan Lenard, giudice
del Distretto Sud della Florida.
E' un testo che supporta la sua precedente domanda che chiedeva
l'annullamento della condanna di Gerardo o, in alternativa, che la giudice
ordini lo scoprimento di tutte le prove che il governo nasconde e
gli conceda un'udienza orale.
Anche se ci sono molte altre violazioni riferite nel processo di appello -
ora nella sua ultima, straordinaria, tappa - questo documento si
concentra sulla congiura del governo con i media locali di
Miami per punire anticipatamente gli imputati e per rendere impossibile un processo
equo.
La sostanza di questa cospirazione consistette nell'usare questi media per
scatenare una campagna propagandistica di odio e ostilità senza
precedenti.
Usarono per fare ciò un folto gruppo di
"giornalisti"
- in realtà agenti
sotto copertura del governo - che pubblicarono articoli e commenti, ripetuti
giorno e notte, sino a produrre una vera e propria tempesta disinformativa.
Tra il 27 novembre 2000 - il giorno in cui ebbe inizio il processo - e l'8
giugno 2001 - quando furono dichiarati colpevoli - solo nel The Miami Herald e
El Nuevo Herald apparvero 1111 articoli, una media di più di 5 al giorno.
Qualcosa di simile avvenne con il Diario de Las Americas
saturando completamente la stampa.
I "giornalisti" erano pagati da Radio e TV Martí, vale a dire, dal bilancio
federale degli Stati Uniti.
Questi individui facevano lavori addizionali in questi due media e li
disseminavano nell'area di Miami,
dove entrambi i segnali anticubani avevano allora e ancor oggi diretta
diffusione, e sono inoltre riprodotti attraverso i media locali (questa è un'altra
violazione della
legge USA che vieta la propaganda ufficiale nel territorio degli Stati Uniti).
Non si tratta solo di Radio e TV Martí e dei giornali stampati.
I cosiddetti "giornalisti" agirono anche in emittenti radio e televisive locali, in
spagnolo ed in inglese, ed utilizzarono altre pubblicazioni, alcune
gratuite, che circolano lì.
Era impossibile sfuggire a questa incessante propaganda in ogni angolo del
sud della Florida.
Ma l'azione delittuosa dei "giornalisti" - e del governo
che li pagava - andava al di là
della propaganda.
Durante il processo la difesa più volte denunciò che cercavano di
influenzare i giurati divulgando anche materiali che la stessa giudice
aveva proibito presentare e che, ovviamente, potevano solo essere stati consegnati dall'accusa.
A peggiorare le cose i "giornalisti" si dedicarono, anche, a
molestare testimoni e giurati.
Questi ultimi si lamentarono con la giudice dicendo che temevano, che
erano
perseguitati con telecamere e microfoni, cosa ripetutamente riconosciuta
dalla signora Lenard, che chiese al governo, evidentemente senza
successo, di aiutarla a evitare situazioni che macchiavano l'immagine
del
sistema
giudiziario USA
(Ad esempio, trascrizione ufficiale del processo, pagine 22, 23, 111,
112, 625, 14644-14646).
Nell'agosto 2005
i tre giudici della Corte d'Appello decisero
all'unanimità di dichiarare nullo il processo di Miami
perché si era svolto sotto ciò che loro descrissero come "una tempesta perfetta di
pregiudizi e ostilità", creata proprio dai media locali.
Quando emisero la storica sentenza i tre giudici non
sapevano, non potevano saperlo né loro né nessun altro, che il responsabile di questa "tempesta
perfetta" era la Procura che apertamente trasgredì, violando le sue
obbligazioni costituzionali, di preservare la legalità e garantire un giusto
processo.
La prima notizia della congiura tra il governo e i suoi "giornalisti"
pagati emersero un anno dopo, nel settembre 2006. Da allora il
governo ha resistito agli sforzi di organizzazioni della società civile
USA perché mostri,
in base al Freedom of Information Act (FOIA),
la portata di tali pagamenti e i contratti.
La Procura si è anche opposta alla richiesta contenuta nel ricorso
straordinario dei nostri compatrioti e ha minacciato di ricorrere ai "privilegi
esecutivi" e a ragioni di sicurezza nazionale per perpetuare
l'occultamento.
Il caso dei Cinque cubani ha uno strano rapporto con la stampa e la
professione giornalistica.
A Miami i media furono uno strumento fondamentale per condannarli.
Al di fuori
di Miami li puniscono con il silenzio.
L'inconfutabile denuncia di Martin Garbus rappresenta una sfida ai
professionisti del giornalismo. Un'altra volta
la nasconderanno facendosi così complici di coloro che deturparono la
loro
nobile professione?
Oppure tenteranno di salvare l'onore della loro professione richiedendo
che gli impostori siano smascherati e che la verità e la giustizia prevalgano?
II
La grande ironia del caso dei Cinque sembra essere il suo rapporto con i media.
A Miami il caso ebbe una copertura sproporzionata e "giornalisti"
e i media locali furono strumenti fondamentali per creare un ambiente
di odio irrazionale che avrebbe determinato un esito predeterminato dal
Governo.
I presunti giornalisti distorsero i fatti, mentirono e fabbricarono un'immagine
che mostrava gli accusati come minacce imminenti per la comunità. Nella
loro condizione di salariati
segreti del governo tali "giornalisti" fecero ciò che gli fu
richiesto da chi li pagava.
Coordinarono la loro attività con la pubblica accusa e i gruppi
terroristici dalla fase di selezione della giuria e lo fecero
particolarmente per introdurre, più di sette mesi dopo l'arresto, una nuova e
totalmente
inventata accusa
di "cospirazione per commettere assassinio".
Intorno a questa infame calunnia ruotò la maggior parte del
processo e dell'attenzione dei media.
La giuria si vide costantemente assediata da interviste e conferenze stampa
di colleghi e parenti delle vittime, realizzate davanti a loro,
all'entrata e all'uscita del tribunale.
Dopo li rincontravano nelle loro case alla radio e televisione. Nelle loro
abitazioni potevano inoltre vedersi perseguitati da telecamere e
microfoni mentre lasciavano la sede della Corte.
Al di là di Miami il processo dei Cinque non attirò l'interesse delle grandi
corporazioni dell'informazione.
Del caso non
si parlò nei dispacci delle agenzie di stampa, non
apparve nelle pubblicazioni a stampa, né alla radio e televisione al di
fuori della Florida.
Non trovò una sola volta spazio neppure nei canali televisivi dedicati esclusivamente ai
tribunali che trasmettono, negli USA, 24 ore su 24.
Come spiegare questo
disinteresse? Era, allora, il processo
più lungo della storia degli Stati Uniti; in esso comparvero, come testimoni, generali, colonnelli e alti ufficiali ed
esperti militari, un ammiraglio e un consigliere del Presidente della
Repubblica; sfilarono di fronte alla Corte noti terroristi, che si
identificarono come tali, alcuni ostentando capi di abbigliamento
militare era una causa che coinvolgeva le relazioni internazionali e le
questioni connesse, reali o presunte, con la sicurezza nazionale e il
terrorismo, argomenti preferiti dai grandi media.
Ma nessuno disse nulla al di là della stampa locale; per il resto della
gente il
processo semplicemente non esistette.
Ignorarono il tema fuori da Miami, benché i loro corrispondenti e l'emittenti
lì affiliate
lo riferirono tutti i giorni e parteciparono
con entusiasmo alla frenesia mediatica che inondò la città.
La ferrea censura imposta a questo caso permise la sorprendente impunità
con cui le autorità protessero i terroristi e
punirono, ingiustamente e
crudelmente, i Cinque uomini che li combatterono eroicamente,
disarmati, senza violenza e senza far male a nessuno.
L'accusa non nascose mai quale fosse il suo scopo.
Lo disse a chiare lettere, tante volte, come riportato negli atti del
processo, senza preoccupazione alcuna perché aveva fiducia nel rigoroso silenzio
dei grandi media, perché sapeva che normalmente il pubblico non
legge le trascrizioni ufficiale nè assiste alle sessioni del tribunale
e viene a sapere ciò che lì accade dai resoconti dei media.
I giurati, da parte loro, vedevano ogni giorno, per più di
mezzo anno, come nell'aula del tribunale i pubblici ministeri chiacchieravano amichevolmente con
testimoni che si vantavano della loro militanza violenta e della loro carriera terrorista,
ascoltavano le arringhe infuocate dell'uno e i minacciosi
sproloqui degli altri.
Al ritorno a casa dalle loro famiglie e dai loro vicini, le
stesse immagini li molestavano.
Erano volti e voci
conosciute.
Poco prima apparvero con gli stessi mezzi, quando rapirono un bambino di
sei anni, Elián González, sfidarono il governo federale e i suoi
giudici, crearono il caos in città e minacciarono di bruciarla.
Ricordavano che nessuno fu punito o inviato in tribunale.
I giurati erano stati testimoni di questa insolita impunità e temevano
che si ripetesse ed ora si volgesse contro di loro se non avessero
consegnato il verdetto richiesto
dalla turba e lo avevano confessato molte volte quando furono
intervistati durante il processo di selezione della giuria.
Avevano paura.
E la paura aumentò, col passare di quei lunghi mesi e
cresceva, sempre più, mentre i "giornalisti" li
perseguitavano con le loro luci e microfoni.
Molte volte
si lamentarono e la giudice diede loro ragione.
Ma tutto seguiva di egual maniera.
I pubblici ministeri, da parte loro, gli ripetevano fino alla nausea che
loro, i giurati, avevano una grave responsabilità, da loro dipendeva, né più
e né meno, che la sopravvivenza degli Stati Uniti e della
comunità che li stava guardando.
Avevano
paura e si sentivano abbandonati.
Non una sola voce si levò nei media locali per difenderli e
invitare alla tranquillità e alla prudenza.
In particolare volevano terminare quel maledetto processo, tornare
a casa ed essere dimenticati.
Gli occorse poco
tempo per decidere.
Il processo più lungo della storia si concluse con il verdetto più
rapido. Ma questo
neppure fece notizia.
III
Le petizioni di
habeas corpus
a favore dei Cinque cubani ingiustamente
condannati negli Stati Uniti e in particolare la dichiarazione giurata
di Martin Garbus, avvocato di Gerardo, hanno come focus centrale il
ruolo svolto dai "giornalisti" che, pagati dal governo degli Stati
Uniti, crearono un
clima d'isteria e odio irrazionale che spaventò la giuria sino a
dichiararli colpevoli anche se l'accusa non presentò prova alcuna e,
peggio ancora, riconobbe che non poteva sostenere la sua principale
accusa.
Non è, tuttavia, uno scontro dei Cinque e dei loro difensori con il
giornalismo e i giornalisti.
E' tutto il contrario.
L'operazione montata a Miami dalla Procura, oltre a violare la
Costituzione e le regole del giusto processo, fu anche un insulto a una
professione che merita rispetto.
Fu un giornale di Miami - The Miami Herald - che per primo rivelò
l'esistenza di questa operazione segreta a cui parteciparono alcuni dei
suoi redattori che, tra l'altro, licenziò perché il suo editore la ritenne
una violazione della deontologia giornalistica.
L'autore della rivelazione, Oscar Corral, pagò a caro prezzo il suo
attaccamento alle norme della professione.
Invece di ricevere un premio per il suo lavoro investigativo fu oggetto,
secondo le sue stesse parole, di "una campagna orchestrata per
intimidire, molestare e porre sotto silenzio.
E fu un fuoco di artiglieria concentrato.
Alcune minacce furono molto specifiche e menzionavano la mia famiglia",
ciò che fece sì che i suoi editori lo trasferissero a vivere in un luogo
sicuro.
Il vero giornalismo fu anche vittima della prevaricazione governativa.
Ma chi erano i "giornalisti" pagati dal governo e perché furono
contrattati per fare quello che fecero?
Tutti, senza eccezione, erano membri o erano strettamente legati a
organizzazioni
che a Miami coltivano la violenza e il terrorismo e
alcuni sono, essi stessi, terroristi condannati e confessi; alcuni
avevano, in precedenza, esercitato funzioni giornalistiche ed erano in
grado di redigere, più o meno,
un paio di pagine, altri non avevano superato l'esame di ammissione a
nessuna scuola di giornalismo; tutti avevano una lunga esperienza come
provocatori e partecipavano regolarmente a programmi radiofonici e
televisivi caratterizzati dall'impudenza e stridore in cui si sostiene,
apertamente,
l'uso della forza contro Cuba.
Tutti avevano i requisiti per essere assunti da Washington per la
realizzazione di un lavoro clandestino.
In altre parole, si trattava di persone affidabili e per questo gli
commissionarono il lavoro e li pagarono generosamente, perché, dopo
tutto, non utilizzarono denaro delle proprie tasche, ma dei
contribuenti.
Tutto fu pagato a carico dei bilanci di Radio e TV Martí, che sono
aziende del Governo, finanziate dal bilancio federale che si nutre delle
imposte e altri contributi da parte del pubblico, ossia, i cittadini e i
residenti degli Stati Uniti.
Ma questi, coloro che inconsapevolmente la pagarono, non sapevano
nulla di questa operazione segreta.
Per questo la dichiarazione di
Garbus sottolinea che siamo dinnanzi ad un affare d'importanza
eccezionale.
Primi di tutto per i Cinque compatrioti che presto compieranno
quattordici anni privati della loro libertà.
Ma è anche importante, e molto, per coloro che non sono in carcere.
Lo é,
particolarmente, per i veri giornalisti, senza virgolette, coloro che
esercitano onestamente una professione che altri prostituirono e la
convertirono in strumento per sequestrare i Cinque innocenti.
Al termine della sua dichiarazione Garbus cita il Procuratore Generale,
"Il Procuratore Generale Eric Holder Jr. non fu responsabile di questo
caso, quando ebbe inizio. Ma
lo è ora."
I professionisti del giornalismo e mezzi di comunicazione, al di là di
Miami, non furono responsabili di questo crimine quando si verificò.
Ma ora che sanno quello che avvenne non possono sottrarsi alle loro
responsabilità.
Il
silenzio ora sarebbe complicità.
UN RETO AL
PERIODISMO
I
El Gobierno de Estados Unidos incurrió en
flagrante violación de la Constitución y las
leyes para asegurar las injustas condenas a los
Cinco patriotas cubanos que pronto cumplirán 14
años de castigo arbitrario e ilegal. No fue un
hecho aislado sino un empeño sistemático que
abarcó todo el tiempo del proceso contra los
Cinco y en el que invirtió muchos millones de
dinero público. Acerca de su duración, las
personas involucradas, el volumen de recursos
utilizados y otros aspectos importantes de esta
operación sólo se tiene una información muy
parcial.
Comoquiera que esa conducta obligaría a las
autoridades - tanto a los tribunales como al
Ejecutivo - a disponer la inmediata liberación
de nuestros compañeros, Washington ha conspirado
también para ocultar lo que hizo, incurriendo en
un delito adicional, el del encubrimiento.
Tal es la esencia del Afidávit (Declaración
Jurada) que Martin Garbus, abogado de Gerardo
Hernández Nordelo, acaba de presentar a Joan
Lenard, jueza del Distrito Sur de la Florida. Es
un texto que respalda su solicitud anterior en
la que demandó la anulación de la condena de
Gerardo o, como alternativa, que la jueza ordene
el descubrimiento de todas las pruebas que el
gobierno esconde y le conceda una audiencia oral.
Aunque hay muchas otras violaciones referidas en
el proceso de apelación – ahora en su última,
extraordinaria, etapa – este documento se
concentra en la conjura del Gobierno con los
medios locales de Miami para sancionar de
antemano a los acusados y hacer imposible un
juicio justo.
La sustancia de esa conspiración consistió en
usar esos medios para desatar una campaña
propagandística de odio y hostilidad sin
precedentes. Emplearon para ello a un numeroso
grupo de “periodistas”- en realidad agentes
encubiertos del Gobierno- que publicaron
artículos y comentarios repetidos día y noche
hasta producir un auténtico vendaval
desinformativo. Entre el 27 de noviembre de 2000
– día en que empezó el juicio – y el 8 de junio
de 2001 – cuando fueron declarados culpables –
sólo en The Miami Herald y El Nuevo Herald
aparecieron 1111 artículos, un promedio de más
de 5 por día. Algo semejante ocurrió con el
Diario de Las Américas saturando completamente
la prensa escrita.
Los “periodistas” cobraban de Radio y TV Martí,
o sea, del presupuesto federal norteamericano.
Dichos individuos hacían trabajos adicionales en
esos dos medios y los diseminaban en el área de
Miami donde ambas señales anticubanas tenían
entonces y tienen todavía hoy difusión directa,
por sí mismas, y son reproducidas además a
través de medios locales (esta es otra violación
de la ley norteamericana que prohíbe la
propaganda oficial dentro del territorio
estadounidense).
No se trata solamente de Radio y TV Martí y de
los diarios impresos. Los llamados “periodistas”
actuaron también en emisoras locales de radio y
televisión, en español y en inglés, y usaron
otras publicaciones, algunas gratuitas, que allá
circulan.
Era imposible escapar a esa incesante propaganda
en ningún rincón del sur de la Florida.
Pero la acción delictiva de los “periodistas”-y
del gobierno que les pagaba- fue más allá de la
propaganda. Durante el juicio la defensa
denunció varias veces que buscaban influir sobre
los miembros del jurado divulgando incluso
materiales que la propia jueza había prohibido
presentar, los cuales, obviamente, sólo pudo
entregarles la Fiscalía.
Como si fuera poco, los “periodistas” se
dedicaron, asimismo, a hostigar a los testigos y
a los jurados. Éstos últimos se quejaron a la
Jueza alegando que sentían temor, que eran
perseguidos con cámaras y micrófonos, algo
reconocido, varias veces, por la señora Lenard,
quien pidió al gobierno, evidentemente sin éxito,
la ayudase a evitar situaciones que manchaban la
imagen del sistema judicial norteamericano. (Por
ejemplo, Transcripción Oficial del juicio,
páginas 22, 23, 111, 112, 625, 14644-14646).
En agosto de 2005 los tres jueces de la Corte de
Apelaciones decidieron unánimemente declarar
nulo el juicio de Miami porque se había
realizado bajo lo que ellos describieron como
“una tormenta perfecta de prejuicios y
hostilidad” creada precisamente por los medios
locales. Cuando dictaron el histórico fallo los
tres jueces no sabían, no podían saberlo ellos
ni nadie, que el responsable de esa “tormenta
perfecta” era la Fiscalía que prevaricó
abiertamente incumpliendo su obligación
constitucional de preservar la legalidad y
garantizar un juicio justo.
La primera noticia de la conspiración del
Gobierno con sus “periodistas” pagados surgió un
año después, en septiembre de 2006.Desde
entonces el Gobierno ha resistido los esfuerzos
de organizaciones de la sociedad civil
norteamericana para que muestre el alcance de
esos pagos y sus contratos en conformidad con la
Ley de Libertad de Información (FOIA). La
Fiscalía también se ha opuesto a la demanda
incluida en las apelaciones extraordinarias de
nuestros compatriotas y ha amenazado con
recurrir a los “privilegios ejecutivos” y a
razones de seguridad nacional para perpetuar el
ocultamiento.
EL caso de los Cinco tiene una extraña relación
con la prensa y la profesión periodística. En
Miami los medios fueron un instrumento decisivo
para condenarlos. Fuera de Miami los castigan
con el silencio.
La irrefutable denuncia de Martin Garbus plantea
un reto a los profesionales del periodismo. ¿La
ocultarán otra vez haciéndose así cómplices de
quienes mancillaron su noble oficio? ¿O tratarán
de salvar la honra de su profesión reclamando
que los farsantes sean desenmascarados y que la
verdad y la justicia prevalezcan?
II
La gran ironía del caso de los Cinco parece ser
su relación con los medios de comunicación.
En Miami el caso tuvo una cobertura desmesurada
y los “periodistas” y medios locales fueron
instrumentos claves para crear un ambiente de
odio irracional que condicionaría un resultado
preestablecido por el Gobierno. Los supuestos
profesionales de la prensa distorsionaron los
hechos, mintieron y fabricaron una imagen que
mostraba a los acusados como amenazas inminentes
para la comunidad. En su condición de
asalariados encubiertos del Gobierno los tales
“periodistas” cumplieron con lo que orientó
quien les pagaba.
Coordinaron su actividad con la Fiscalía y con
los grupos terroristas desde la fase de
selección del jurado y lo hicieron especialmente
para introducir, más de siete meses después del
arresto, una nueva y totalmente inventada
acusación de “conspiración para cometer
asesinato”. Alrededor de esta infame calumnia
giró la mayor parte del juicio y de la atención
mediática. El jurado se vio asediado
constantemente por entrevistas y conferencias de
prensa de colegas y familiares de las víctimas,
realizadas ante ellos a la entrada y a la salida
del tribunal. Después volverían a encontrarlos
en sus casas por la radio y la televisión. En
sus propios hogares podían además verse a sí
mismos perseguidos por cámaras y micrófonos
cuando abandonaban la sede de la Corte.
Más allá de Miami el proceso de los Cinco no
atrajo el interés de las grandes corporaciones
de la información. Del caso no se habló en los
despachos de las agencias cablegráficas, no
apareció en las publicaciones impresas ni en la
radio y la televisión fuera de la Florida. No
encontró espacio una sola vez ni en los canales
de televisión dedicados exclusivamente a los
tribunales que transmiten veinticuatro horas
diarias en Estados Unidos.
¿Cómo explicar ese desinterés? Era, entonces, el
juicio más prolongado en la historia de Estados
Unidos; en él comparecieron, como testigos,
generales, coroneles y altos oficiales y
expertos militares, un almirante y un asesor del
Presidente de la República; desfilaron ante la
Corte connotados terroristas, que se
identificaron como tales, algunos ostentando
indumentaria guerrera¸ se trataba de un pleito
que implicaba las relaciones internacionales y
cuestiones vinculadas, real o supuestamente, con
la seguridad nacional y el terrorismo, tópicos
predilectos de los grandes medios. Pero nadie
dijo nada más allá de la prensa local, para el
resto de la gente el juicio sencillamente no
existió.
Ignoraron el tema fuera de Miami, aunque sus
corresponsales y emisoras filiales en ese lugar
lo reportaron todos los días y participaron con
entusiasmo en el frenesí mediático que inundó la
ciudad.
La férrea censura impuesta a este caso permitió
la asombrosa impunidad con la que las
autoridades protegieron a los terroristas y
castigaron injusta y cruelmente a cinco hombres
que los enfrentaron heroicamente, desarmados,
sin emplear la violencia, sin hacer daño a nadie.
La Fiscalía nunca escondió que ese era su
propósito. Lo dijo con todas las letras, muchas
veces, como consta en las actas del proceso, sin
preocupación alguna porque confiaba en el
riguroso silencio de los grandes medios, porque
sabía que el público normalmente no lee las
transcripciones oficiales ni asiste a las
sesiones del tribunal y se entera de lo que allí
ocurre por las versiones periodísticas.
Los jurados, por su parte, veían cada día,
durante más de medio año, cómo en la sala del
tribunal los fiscales charlaban amistosamente
con testigos que alardeaban de su militancia
violenta y su trayectoria terrorista, escuchaban
las encendidas arengas de unos y las amenazantes
peroratas de los otros.
Al regresar a casa con sus familias y sus
vecinos, las mismas imágenes los acosaban. Eran
rostros y voces conocidas.
Poco antes habían surgido por los mismos medios
cuando secuestraron a un niño de seis años,
Elián González, desafiaron al Gobierno federal y
a sus jueces, crearon el caos en la ciudad y
amenazaron con incendiarla. Recordaban que nadie
fue castigado ni enviado ante ningún tribunal.
Los jurados, habían sido testigos de aquella
insólita impunidad y temían que se repitiese y
se volviera ahora contra ellos si no entregaban
el veredicto exigido por la turba y así lo
habían confesado muchas veces cuando se les
entrevistó durante el proceso de selección del
jurado. Tenían miedo.
Y el miedo aumentó después, según pasaban
aquellos largos meses y crecía, cada vez más,
cuando los “periodistas” los perseguían con sus
luces y sus micrófonos. Muchas veces se quejaron
y la Jueza les dio la razón. Pero todo siguió
igual.
Los fiscales, por su parte, les repetían hasta
el cansancio que ellos, los jurados, tenían una
grave responsabilidad, de ellos dependía, nada
más y nada menos, que la supervivencia de los
Estados Unidos y de esa comunidad que los estaba
mirando.
Tenían miedo y se sentían abandonados. Ni una
sola voz se alzó en los medios locales para
defenderlos y llamar al sosiego y la prudencia.
Querían sobre todo terminar con aquel maldito
juicio, regresar a casa y ser olvidados.
Les tomó poco tiempo decidirse. El juicio más
largo de la Historia concluyó con el veredicto
más rápido. Pero eso, tampoco fue noticia.
III
Las peticiones de Habeas Corpus a favor de los
Cinco cubanos condenados injustamente en Estados
Unidos y especialmente la declaración jurada de
Martin Garbus, abogado de Gerardo, tienen como
foco central el papel desempeñado por
“periodistas” que, pagados por el Gobierno
norteamericano, crearon un ambiente de histeria
y odio irracional que atemorizó al jurado hasta
declararlos culpables pese a que la Fiscalía no
presentó prueba alguna y, peor aún, reconoció
que no podía sostener su principal acusación.
No se trata, sin embargo, de un enfrentamiento
de los Cinco y sus defensores con el periodismo
y los periodistas. Es más bien todo lo
contrario.
La operación montada en Miami por la Fiscalía,
además de violar la Constitución y las reglas
del debido proceso, fue también un insulto a un
oficio que merece respeto. Fue un diario de
Miami – The Miami Herald – quien primero reveló
la existencia de esa operación secreta en la que
participaron algunos de sus redactores a quienes,
por cierto, despidió por lo que su editor
consideró una violación de la ética periodística.
El autor de la revelación, Oscar Corral, pagó
caro su apego a las normas de la profesión. En
vez de recibir un premio por su labor
investigativa fue objeto, según sus propias
palabras, de “una campaña orquestada para
intimidar, hostigar y silenciar. Fue un fuego
artillero concentrado. Algunas amenazas fueron
muy específicas y mencionaban a mi familia” lo
cual hizo que sus editores los mudaran a vivir a
un lugar seguro.
El periodismo verdadero fue también víctima de
la prevaricación gubernamental.
Pero ¿quiénes eran los “periodistas” pagados por
el Gobierno y por qué fueron contratados para
hacer lo que hicieron?
Todos, sin excepción, eran miembros o estaban
estrechamente vinculados a organizaciones que en
Miami cultivan la violencia y el terrorismo y
algunos son, ellos mismos, terroristas convictos
y confesos; algunos habían ejercido funciones
periodísticas con anterioridad y son capaces de redactar, más o menos, un par de cuartillas,
otros no habrían pasado el examen de admisión a
ninguna escuela de periodismo; todos tienen
larga experiencia como provocadores y participan
asiduamente en programas radiales y televisivos
caracterizados por la procacidad y la
estridencia en los que se aboga, sin tapujos,
por el uso de la fuerza contra Cuba. Todos
reunían las cualidades para ser contratados por
Washington para el cumplimiento de una labor
clandestina. En otras palabras, eran gente de
confianza y por eso les encargaron el trabajo y
les pagaron generosamente, pues, después de todo,
no usaron el dinero de sus bolsillos sino el de
los contribuyentes.
Todo se pagó con cargo a los presupuestos de
radio y TV Martí, que son empresas del Gobierno,
financiadas por el presupuesto federal que se
nutre de los impuestos y otros aportes que hace
el público, o sea, los ciudadanos y los
residentes en Estados Unidos. Pero estos,
quienes, sin saberlo, la pagaban, nada supieron
de esta operación encubierta.
Por eso la declaración de Garbus destaca que
estamos ante un asunto de importancia
excepcional. Ante todo para los Cinco
compatriotas que pronto cumplirán catorce años
privados de su libertad. Pero es importante
también, y mucho, para quienes no están
encarcelados.
Lo es, especialmente, para los periodistas
verdaderos, sin comillas, los que ejercen
honestamente una profesión que otros
prostituyeron y la convirtieron en instrumento
para secuestrar a cinco inocentes.
Al final de su declaración Garbus menciona al
Fiscal General de Estados Unidos: “El Fiscal
General Eric Holder Jr. no fue responsable por
este caso cuando comenzó. Pero lo es ahora.”
Los profesionales del periodismo y los medios de
prensa más allá de Miami no fueron responsables
de este crimen cuando se produjo. Pero ahora que
ya saben lo que ocurrió no pueden evadir su
responsabilidad. El silencio ahora sería
complicidad.
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