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13.1.12 - Atilio Borón (El Ciudadano) www.visionesalternativas.com da www.resistenze.org
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La creazione della CELAC è senza dubbio uno dei principali avvenimenti realizzati in tanti anni a livello continentale. Già solo l’idea di un'organizzazione che riunisca i paesi latinoamericani e caraibici senza l'asfissiante presenza di Stati Uniti e Canada, è un’ottima notizia e alimenta le speranze che la tradizionale prepotenza con cui la Casa Bianca gestiva le questioni dell'area, d’ora in avanti incapperà in crescenti ostacoli.
Indubbiamente la "presunzione egemonica" dell'impero non svanirà a causa della creazione di quest’organizzazione, ma i suoi mandati non avranno più l'automatico assenso del passato, come quando un editto di Washington nel 1962 provocò l’allontanamento di Cuba dal sistema interamericano.
Ad ogni modo, converrebbe lasciar da parte eccessivi entusiasmi, perché mettere effettivamente in moto la CELAC, cioè farla diventare protagonista meritevole delle grandi speranze in essa riposte, non sarà compito facile. La sua creazione è un risultato importantissimo, ma per ora è soltanto un progetto che, per essere efficace, dovrà potersi trasformare in organizzazione, ovvero in soggetto dotato di sufficienti capacità d’intervento nell'ambito della Nostra America. Ma, come vedremo più avanti, non è questo il progetto che propongono i governi della destra latinoamericana con la benedizione della Casa Bianca.
L'inusitata gravità della crisi capitalistica in corso, ha fatto sì che persino i governi più conservatori della regione acconsentissero ad unirsi alla CELAC. È un gesto importantissimo e sarebbe assai sbagliato minimizzarne la portata ed il boccone amaro che questo ha significato per Washington, così come esagerare l'impatto immediato che avrà la CELAC. Non è un mistero per nessuno che l'estrema eterogeneità sociopolitica del continente (dalla Rivoluzione Cubana fino al regime fantoccio di Porfirio Lobo in Honduras - insediato dalla Casa Bianca abbattendo Mel Zelaya - passando per Santos, Calderon, Martinelli, Chinchilla, Cristina, Dilma, "Pepe" Mujica, Humala fino ad arrivare a Chávez, Evo e Correa) costituirà un ostacolo molto serio al momento di passare dall'inconseguente piano dei discorsi alle azioni concrete riguardo agli scottanti temi regionali.
Facciamo un paio di esempi. Uno: è risaputo che Washington dispone di grandi partite di fondi, così come di "consiglieri" e di altre risorse per "aiutare" attori locali, che nei diversi paesi logorano o cercano di destabilizzare (quando non abbattere) governi che non sono di suo gradimento. Bolivia, Ecuador e Venezuela, oltre a Cuba, sono bersagli favoriti di queste politiche. Se in molti casi quest’ingerenza imperiale avviene mediante organizzazioni di copertura, in altri il coinvolgimento nella politica dei paesi latinoamericani si realizza in modo aperto, diretto ed immediato da parte di agenzie od organismi federali come la DEA, la CIA e l'USAID, tra i più importanti.
Sarà possibile che la CELAC condanni le pratiche interventiste dell'impero e prenda le decisioni adeguate a neutralizzarle, visto che violano la legalità internazionale e sono di natura profondamente antidemocratica? Sembra assai poco probabile, sebbene in certe circostanze estreme potrebbero forse esservi eccezioni. Ci sarà unanimità nel sostenere una politica di questo tipo o un’altra - e questo è il secondo e più cruciale esempio - che volesse metter fine allo status coloniale di Porto Ricco? Non sembra; forse per questo motivo vari governi - tra cui Cile, Colombia e Messico - hanno insistito sul fatto che tutte le decisioni della CELAC dovessero venire adottate all'unanimità, temendo che i governi più radicali della regione potessero arrivare a costituire una circostanziale maggioranza, invisa gli occupanti della Casa Bianca e d’intralcio alle "amichevoli relazioni" che vari paesi latinoamericani e caraibici mantengono con Washington. Ci sarà un motivo, se i governi che vogliono che la CELAC sia concretamente un organismo e non un periodico torneo di discorsi, stanno cercando il modo di fissare una normativa che richieda una maggioranza qualificata (in quale proporzione resta da stabilire) per adottare le decisioni dell'istituzione.
Su questo tema il Cancelliere cileno Alfredo Moreno espresse con assoluta chiarezza la posizione dell'imperialismo, quando affermò che "la CELAC sarà un foro e non un’organizzazione, non avrà sede, segretariato, burocrazia né niente di tutto questo". Per Moreno, rappresentativo della destra latinoamericana, si tratta di sterilizzare un progetto, di castrarlo fin dalla nascita, per ridurlo ad un’immanente successione di "vertici presidenziali" (2012 in Cile, 2013 a Cuba, 2014 probabilmente in Costarica). Per questo motivo, alla fine, chi presiederà la CELAC durante l'anno venturo non sarà altri che Sebastián Piñera. Non è necessario aguzzare troppo la vista per percepire che un progetto di questo tipo, "decaffeinato", è quello che appoggerà la destra latinoamericana, la cui carta d’identità sono il servilismo e la genuflessione dinanzi ai dettami dell'impero.
Ma c'è un altro progetto per la CELAC: in linea col programma bolivariano del Parlamento Anfizionico del 1826 e con le aspirazioni di Artigas, San Martin, Sucre, Martí, Morazán, Sandino e tanti altri patrioti latinoamericani e caraibici. Un progetto che mezzo secolo fa fu brillantemente sintetizzato nella Seconda Dichiarazione di L'Avana, sostenuta da Fidel, Raúl e dal Che. Insomma, la disputa tra i due progetti sarà inevitabile e le circostanze storiche (aggravamento della crisi generale del capitalismo, interventismo nordamericano nella regione, maturazione della coscienza politica dei nostri popoli, ecc.) muoveranno l’ago della bilancia, speriamo in senso positivo. Va ricordato che i baluardi dell'influenza nordamericana nella regione: Piñera, Santos e Calderon, sono seduti su una polveriera che può esplodere in qualsiasi momento.
Fin’ora l'atteggiamento di Washington è stato attendere il corso degli eventi. Il lancio della CELAC è stata una pessima notizia per l'impero, che sa però di avere ancora diverse carte in mano. Sa, ad esempio, che ha diversi "Cavalli di Troia" all’interno della nascente organizzazione e che, non appena lo consideri opportuno, si metteranno docilmente al suo servizio per attivare gli ordini emanati dalla Casa Bianca. Sa anche che il suo instancabile lavoro di destabilizzazione dei governi più radicali può debilitarli, creando loro difficoltà che ne colpiscano il protagonismo nell’ambito della CELAC. Sa, infine, che i suoi canti di sirena verso i governi del cosiddetto "centro-sinistra" (Argentina, Brasile, Uruguay, Perù?) possono tentare qualche governante a disertare il progetto emancipatore insito nelle radici storiche della CELAC, attualizzate da Fidel, Raúl, Chávez, Evo e Correa, per non nominare che le figure principali. I gesti riconciliatori di Obama verso il governo di Cristina Fernández ed il costante lavoro di seduzione che la Casa Bianca esercita su Brasilia, s’inquadrano inequivocabilmente come pezzi di questa strategia. Separare l'Argentina ed il Brasile dal progetto radicale della CELAC, isolare Chávez, Evo e Correa e, già che ci siamo, stringere ancor più il capestro del blocco contro la Rivoluzione Cubana.
L'impero non lascerà niente al caso. Il premio è notevole: 20 milioni di chilometri quadrati, un mercato di 600 milioni d’abitanti, sette dei dieci principali produttori di minerali strategici del mondo, la metà dell'acqua dolce e della biodiversità del pianeta terra, oltre a petrolio, gas, risorse energetiche d’ogni tipo ed alimenti sufficienti a saziare la fame di oltre un miliardo di persone. E, come ricordava il Che, "l'America Latina è la retroguardia strategica degli Stati Uniti", e con le attuali condizioni di crisi economica internazionale ed accelerata decomposizione del precario "ordine mondiale" creato da Washington dal dopoguerra, tale retroguardia acquisisce un valore supremo. Per questo motivo dobbiamo sostenere la battaglia per la CELAC, affinché il progetto emancipatore che gli ha dato i natali finalmente prevalga ed apra quegli ampi viali di cui parlava Salvador Allende nel suo ultimo discorso, che i nostri popoli percorreranno nella loro lunga marcia verso la giustizia, la libertà, l'autodeterminazione nazionale e la democrazia.
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