Ancora sui droni

 

 

21.03.2013 - A. Riccio http://www.giannimina-latinoamerica.it/

 

 

Il 15 febbraio scorso il Tribunale Federale degli Stati Uniti ha deciso che l’amministrazione Obama non è giustificata a mantenere il segreto sugli attacchi degli aerei senza pilota e ha ingiunto di dare risposta alla domanda di Associazioni come quella per le Libertà Civili (Aclu) che da tempo sospetta che il Presidente sia reo di abuso di potere nella questione dei droni.

 

Adesso, alle associazioni, si è unita anche la destra repubblicana che, addirittura, in occasione della conferma della nomina del nuovo Direttore della Cia, Paul Brennan, ha spinto il senatore Rand Paul a parlare per tredici ore consecutive al fine di bloccarne la nomina se la Casa Bianca non si decideva a dare spiegazioni sull’uso dei droni. Messa alle strette, l’amministrazione ha chiarito che Obama non ha avuto né avrà potere per autorizzare l’uso di questi ordigni contro cittadini nordamericani e in territorio nordamericano, aggiungendo che fuori dal proprio territorio, quelle micidiali incursioni devono essere giustificate dal Dipartimento di Giustizia.


Ma la questione è ormai di grande attualità, visto che un rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che nel 2012 il numero di bombe lanciate dai droni in Afganistan è raddoppiato rispetto all’anno precedente. A questa informazione si aggiunge il fatto che, “grazie” all’uso degli aerei senza pilota, le vittime innocenti sono significativamente diminuite. Un argomento che, per l’etica politica nordamericana, gioca a favore dell’uso di questi freddi marchingegni, proprio come la ghigliottina sembrava –secondo i criteri della ragione- preferibile rispetto all’impiccagione.


Il Pentagono, dunque, usa senza scrupoli queste moderne armi da guerra che comunque vengono controllate e usate con un minimo di trasparenza. Ma quando ad impiegarle è la Cia, in Pakistan, in Arabia Saudita o nello Yemen, il discorso è diverso; secondo uno studio della New American Foundation, durante l’amministrazione Obama sono morti a causa degli attacchi di droni fra le 1.507 e le 2.438 persone, una parte delle quali erano civili. Ma al di là dei numeri, la ricostruzione dell’eliminazione del cittadino statunitense Al Aulaki, esemplifica bene fino a che punto questa pratica in espansione è pericolosa e come la responsabilità di farne uso comporta il forte sospetto di un abuso di potere.


Tre giornalisti, Mark Mazzetti, Charlie Savage e Scott Shane ne hanno fatto una ricostruzione su “El País” del 16 marzo scorso. Al Aulaki, cittadino statunitense, nel 1999 era già sotto la lente del Fbi, dopo l’11 settembre 2001 viene interrogato per i suoi vincoli con tre dei sequestratori ma all’epoca il predicatore è considerato ancora un mediatore moderato. Nel 2002 Aulaki lascia gli Stati Uniti per Londra per trasferirsi subito dopo in Yemen dove viene arrestato per 18 mesi su richiesta degli Stati Uniti. La rottura con il paese di cui è cittadino è ormai compiuta; il predicatore si rende conto del fatto che gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra all’Islam per cui va assumendo un ruolo sempre più battagliero nelle sue esortazioni che, grazie alla scioltezza del suo inglese, vengono ascoltata particolarmente in USA, in Canada e in Inghilterra. E’ stato considerato responsabile della sparatoria del maggiore Nidal Malik Asan a Fort Hood dove morirono 13 persone. Nel dicembre del 2009 Umar Faruk Abdulmutala, un nigeriano di 23 anni, fu bloccato a Detroit mentre abbordava un aereo con una bomba nascosta nelle mutande; in questo caso, il predicatore fu indicato come l’istigatore dell’attentato dallo stesso aspirante a martire. Da quel momento, Al Aulaki è diventato un bersaglio per la Cia che lo ha rintracciato, seguito, monitorato fino al giorno in cui, mentre saliva su un camion per un ennesimo spostamento allo scopo di depistare i segugi, un drone implacabile lo ha raggiunto e fatto fuori insieme a Samir Khan, anche lui cittadino statunitense.

 

Nonostante il silenzio con cui CIA e Pentagono hanno tentato di coprire quell’operazione, essa è venuta a luce anche a causa dell’impegno del padre di Al Aulaki , sostenuto da un gruppo di difesa delle libertà civili, per fare chiarezza sulla morte del figlio ma anche del nipote di sedici anni, anche lui vittima di un altro attacco di drone, il mese dopo, quando il ragazzo aveva lasciato la casa materna per andare alla ricerca del padre. Il tribunale a cui si era rivolto quel genitore si sentì dire dal Governo che la giustizia non era autorizzata a visionare le decisioni del potere esecutivo in operazioni di guerra, coperte dal segreto di stato.

 

Un patto fra la CIA, il Pentagono e il governo yemenita, consente qualsiasi operazione in quel territorio, purché l’amministrazione degli Stati Uniti mantenga quelle operazioni nel segreto. La morte di Al Aulaki -bersaglio perseguito dalla Cia - e quella di Khan, altro cittadino statunitense, eliminato come danno collaterale, e infine quella del giovane Abdulrahman Al Aulaki, anche lui nordamericano, insieme ad altre 13 persone per lo scoppio di un missile su una trattoria di Shabwa, ha fatto saltare la segretezza. Adesso, gli avvocati si arrampicano sugli specchi per dare una parvenza di legalità all’eliminazione mirata dei nemici degli Stati Uniti, preparata dalla Cia e autorizzata dal Presidente Obama.

 

Antiamericanismo viscerale?

Droni e terrorismo

16.03.2013 - A. Riccio http://www.giannimina-latinoamerica.it/

Mentre l’Italia intera continua a guardare il proprio ombelico dimenticando il mondo che le sta intorno, si cedono pezzi di sovranità e si chiudono gli occhi su questioni di grandissima rilevanza come la questione della legittimità dell’uso dei droni per assassinare terroristi o presunti tali in qualsiasi parte del mondo.


Il nostro ministro degli Esteri, Terzi –quello che ha svilito la nostra parola d’onore data all’India nella spinosa questione dei due marò- insieme ai colleghi della Giustizia, dell’Interno e della Difesa, ha fatto approvare una modifica al “regolamento relativo all’applicazione dell’art. VII della Convenzione fra gli Stati aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo status delle forze armate (Londra, 19.6.1951)” che di fatto sancisce la rinuncia alla giurisdizione penale italiana nei confronti di militari stranieri nell’ambito della NATO, in altre parole, sancisce l’extraterritorialità del personale militare delle Nazioni Unite in Italia. Insomma, non solo gli irresponsabili piloti del Cermis, ma neanche un qualsiasi soldato Nato ubriaco che si renda responsabile di un incidente automobilistico, potrà essere giudicato dalla nostra magistratura.


E intanto, intorno a noi il mondo gira e la superpotenza statunitense, “culla della democrazia”, “paese civile”, discute su una questione che, dal punto di vista etico, mi sembra enorme: la legittimità dell’uso dei droni per l’eliminazione mirata del nemico nel mondo e nel territorio nordamericano.


Il 7 marzo scorso, il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, rispondendo al senatore repubblicano Rand Paul, esponente del Tea Party, durante il dibattito per approvare la nomina del nuovo Direttore della Cia, John Bennan, ha dichiarato che gli Stati Uniti non impiegheranno i droni per assassinare un cittadino statunitense in territorio statunitense. C’è da non credere ai propri occhi leggendo notizie di questo genere!


Ma su questa questione è da gennaio che l’amministrazione Obama è sotto i riflettori degli avversari repubblicani, da quando, a gennaio, il Dipartimento di Giustizia ha dotato di base legale l’uso dei droni contro cittadini statunitensi all’estero, sostenendo che un individuo sospetto di terrorismo è di per sé una minaccia contro il paese; quando il solito senatore Paul ha chiesto se Obama ha l’autorità legale per ordinare un attacco contro un cittadino Usa all’interno del paese anche se la vittima non è legata al terrorismo, non ha ottenuto una risposta chiara e anzi vi è stato un rifiuto a respingere questa possibilità, tanto che il senatore ha commentato che “è un affronto al diritto di tutti i cittadini ad avere un processo giusto come indica la Costituzione”. I repubblicani hanno minacciato di bloccare la conferma di Bennan e a questo punto Carney ha dichiarato ufficialmente e senza offrire ulteriori dettagli, che “Il Presidente non ha impiegato né impiegherà attacchi con droni contro cittadini statunitensi in territorio statunitense”. Eppure, l’11 marzo l’Esercito degli Stati Uniti ha annunciato l’eliminazione dei dati relativi agli attacchi aerei per mezzo di droni in Afganistan dai loro bollettini informativi mensili, alla faccia della trasparenza auspicata da Obama che qualche settimana fa ha dichiarato “Io non sono una persona che crede che il presidente debba avere l’autorità per fare quello che vuole, quando vuole, con la sola giustificazione che fa parte della lotta contro il terrorismo”.


In un istruttivo reportage sugli aerei senza pilota, di El País Semanal del 15 marzo scorso, Jesús A. Núñez Villaverde intitola: “Letali, senza pilota, telediretti. I droni non sono il futuro. Sono già il presente nei conflitti bellici”. E ci informa che, secondo il senatore repubblicano Lindsey Graham, i droni statunitensi hanno già ammazzato 4.700 persone e che il Presidente Obama nella sua prima legislatura ne ha aumentato significativamente l’uso in Afganistan, in Pakistan, in Irak, nello Yemen e in Somalia. Secondo l’Association for Unmanned Vehicle Systems International, composta da industriali ed ex militari statunitensi sono più di 2.400 le imprese di quaranta paesi con gli Usa e Israele in testa, che stanno costruendo e sviluppando questi prodotti, anche per non meno inquietanti usi civili.


C’è sempre la grande scusa di un progresso inarrestabile e delle numerose applicazioni dei veicoli senza pilota (perfino elicotteri microscopici messi a punto in Gran Bretagna) per l’agricoltura, il controllo del territorio e quant’altro. Resta il fatto che l’uso militare di questi congegni è ormai entrato nella strategia della guerra e che la giustificazione –cinica e inammissibile- è bella e pronta: i droni consentono di risparmiare molte vite umane, riducono i danni collaterali e offrono un notevole risparmio rispetto agli aerei con equipaggio. Inoltre consentono ai militari di restarsene chiusi in una stanza piena di schermi, connessi via satellite, al riparo dal pericolo, con l’incarico di uccidere selettivamente persone ubicate in qualsiasi angolo del pianeta. Il giornalista racconta di come operatori formati in una base del Nuovo Messico istallati in una qualunque base delle Seychelles o dell’Arabia Saudita, forniti di qualche centinaio di droni e di missili, possono eseguire gli ordini della Forza Aerea, delle Operazioni Speciali e della Cia, liquidare un individuo e poi fare una pausa caffé o andare a pranzo. Il giornalista fa notare che “invece di cercare la cooperazione dello stato in cui è stato localizzato il presunto obbiettivo facendo appello agli organismi internazionali di polizia e con l’idea di arrestarlo per sottoporlo a giudizio, viene deciso di liquidarlo in maniera chirurgica senza per questo evitare la morte di civili innocenti. Viene scartata anche la noiosa necessità di dispiegare sul terreno un’unità di operazioni speciali che potrebbe mancare il bersaglio, cadere in un’imboscata o essere presa in trappola nel tentativo di mettersi in salvo dopo l’azione”.


Il paese che usa ormai da tempo, e senza scrupoli, l’eliminazione selettiva di nemici o presunti tali con l’uso dei droni, ha però sentenziato che Cuba (insieme alla Siria, al Sudan e all’Iran) è un paese terrorista fin dal 1982 per il suo appoggio alle guerriglie comuniste in Africa e in America Latina negli anni 60 e 70, cioè per fare quello che gli Stati Uniti hanno fatto e continuano a fare in giro per il mondo con gruppi di segno contrario, e anche per fornire asilo a persone ricercate dagli Stati Uniti, a membri dell’Eta e per prestare appoggio sanitario alle Farc colombiane.


Il senatore democratico del Massachusetts, James P. McGovern, che insieme ad altri ha incontrato Raúl Castro all’Avana il 20 febbraio scorso, si è fatto portavoce di una corrente di opinione che chiede alla Casa Bianca di rivedere la posizione degli Stati Uniti verso l’isola al fine di mettere fine a un blocco che dura da più di cinquanta anni. McGovern ritiene che cancellare Cuba dal gruppo di paesi considerati terroristi sarebbe un primo, necessario passo. Va ricordato che, per il semplice fatto di essere inclusa in questa lista, per Cuba sono probite le transazioni finanziarie, l’aiuto finanziario e tecnico da parte del governo Usa, l’esportazione di determinate merci come i prodotti industriali pesanti, apparecchi di alta tecnologia e prodotti di uso duale, i trasferimenti di munizioni e la concessione di visti temporali ai cittadini statunitensi senza una decisione speciale del Segretario di Stato.


Giornali importanti come il
Los Angeles Times si sono uniti a questa campagna, ritenendo che sia in gioco la credibilità di Washington in America Latina visto che i negoziati di pace fra il governo della Colombia e le FARC si stanno tenendo proprio all’Avana, che le persone che hanno trovato rifugio nell’isola non erano terroristi e che i membri dell’Eta sono stati accolti su richiesta del Governo spagnolo di Felipe González negli anni ottanta.


Eppure, quando
The Boston Globe ha pubblicato la notizia che il Segretario di Stato John Kerry aveva cominciato a rivedere la posizione Usa su Cuba, è arrivata una secca smentita della Casa Bianca, eppure, il Presidente Obama non avrebbe neanche bisogno dell’approvazione del Congresso per escludere Cuba dalla lista nera.

 

Ma, a quanto pare, non ha intenzione di farlo nemmeno adesso che è al suo secondo - e ultimo - mandato.