Harold Cárdenas Lema – https://eltoque.com
Nell’ Unione Sovietica avevano una barzelletta politica che non era divertente né tanto meno si diceva a voce alta. Raccontavano di un treno simbolico che si ferma improvvisamente, Lenin era davanti e arringa i passeggeri per farlo andare. Tutti scendono, spingono (cosa che dubito sia possibile) fino a quando il treno continua il suo viaggio. Più tardi si ferma ancora e Stalin che era al comando arringa a proseguire la marcia con un bell’incentivo di “chi non spinge, sarà fucilato”. Tutti sono scesi e hanno spinto fini a quando il treno si è mosso di nuovo. Passano gli anni ed il treno si ferma ancora una volta, con Brezhnev davanti. Non sapendo cosa fare, arringa i passeggeri a sedersi accanto alle finestre, muoversi avanti e indietro, “in modo che quelli che sono all’ esterno credano che il treno continui a muoversi”. Da allora il treno non si mosse più.
La sera che ho sentito questa battuta, ho riso con il dolore di chi conosce la metafora. Anche a Cuba siamo scesi tutti a spingere, altre volte hanno commesso l’errore di costringerci a farlo e non mancano quelli che ci invitano a dissimulare il movimento. Mi ricordo che alle medie ero rocker, con i capelli lunghi e abiti scuri. Fortunatamente non ci sono foto di allora che mi che mi tradiscano. Ho avuto un insegnante all’epoca, che ci ha insegnato le basi della politica, molto critico con il volontarismo e gli obiettivi di propaganda del momento, ma era difficile criticarlo perché predicava con un esempio, difficile da imitare. Con lui faceva piacere far partire il treno nazionale.
Poco dopo ciò, aderì alla Gioventù Comunista. Tra di noi nessuno sapeva veramente cos’era il comunismo (forse nemmeno i nostri genitori) e così abbiamo imparato a identificarci come i giovani di sinistra, al di là delle etichette, eravamo orgogliosi di esserlo. Il giorno in cui uno di noi è uscito illegalmente del paese, l’abbiamo saputo dalle voci degli insegnanti, presto ci sarebbe stata un’altra lezione politica. Nostro malgrado abbiamo dovuto sanzionarlo (piuttosto metafisica per essere un’organizzazione marxista) e espellerlo dal nostro Comitato. In questi giorni mi è difficile togliere quella scena della mia testa, che è stata nel più puro stile stalinista, un giorno dovrò esorcizzare quel senso di colpa per scritto.
Come direbbe il musicista Carlos Varela, “o sali o scendi o ti dimentichi del treno”, mi piace pensare che continuo a spingerlo nonostante gli errori di uno o altro macchinista.
Nel 2007 era al punto massimo la Battaglia delle Idee. Come leader della Federazione Universitaria, mi hanno invitato a l’Avana per le attività delle Brigate Universitarie di Servizio Sociale (BUSS) che facevano proprio quello: lavoro sociale. Se c’era qualcosa in quei giorni erano le risorse, non so da dove uscivano, ma la Villa Panamericana, alla periferia dell’Avana, era una città piena di istruttori d’arte e assistenti sociali. Sono partito con l’illusione del ragazzo di provincia che arriva alla capitale con voglia di conquistare il mondo, mi aspettavano migliaia di delusioni.
Non posso dimenticare la leader degli studenti, alla quale ho chiesto qualcosa sull’organizzazione e mi lasciò di stucco: “al di fuori dell’orario stabilito non si parla di politica”. Come se non bastasse, la ragazza va in camera sua e ritorna trasformata con altri vestiti, 2 o 3 catene d’oro al collo (non che questo sia decisivo, ma … WTF!) e sale su una moto che l’attendeva fuori. Lì sono rimasto io, confuso, senza sapere se il travestimento era quello che indossava il giorno o la notte. L’eccessiva preoccupazione per le modalità del funzionamento in detrimento della mobilitazione dei giovani e l’imposizione del quantitativo sul qualitativo, sono stati troppo per me. Quello è stato il mio ultimo anno di studente rivestendo una carica, al finire il corso ho chiesto la mia liberatoria e mi sono dedicato di più all’accademico. Penso spesso che quest’ultimo è stato un errore, non si può rinunciare alle istituzioni e organizzazioni, ma la simulazione causa tale rifiuto e discredito.
Non sono più un rocker e sono passati otto anni da quell’amara esperienza. Dopo la mia laurea, ho fatto un blog di politica e ho finito subordinando l’accademico all’attivismo politico. Non credo che il mio insegnante di Educazione Civica delle Medie immaginasse l’impatto delle sue parole su di me, forse è stato lui che ha piantato il seme che i cambiamenti non possono essere affidati ad altri e svincolarsi. Le modifiche si fanno dall’ interno, attraverso la partecipazione attiva.
La barzelletta sovietica aveva tutte le ragioni, sappiamo bene il risultato e c’è un detto che recita: “guerra avvisata non uccide soldato.” Detto questo, non posso non vedere segnali misti nel mio paese, dalla partecipazione positiva, attraversando l’obbligo e la simulazione. Bisogna cambiare ciò che deve essere cambiato presto, perché la fortuna va e viene come il fumo del treno e se non ci affrettiamo, la prossima barzelletta dolorosa sarà la nostra.
El humo del tren
En la Unión Soviética tenían un chiste político que no era gracioso ni se decía en voz alta. Contaban de un tren simbólico que de repente se detiene, Lenin iba al frente y arenga a los pasajeros a echarlo a andar. Todos se bajan, empujan (algo que dudo sea posible) hasta que continúa al tren su camino. Tiempo después vuelve a detenerse y Stalin que estaba al frente arenga a continuar la marcha con el bonito incentivo de “quien no empuje, será fusilado”. No faltó nadie por bajar a empujar hasta que el tren se movió nuevamente. Pasan los años y el tren se detiene una vez más, con Brézhnev al frente. Sin saber qué hacer, arenga a los pasajeros a sentarse al lado de las ventanillas, moverse hacia delante y atrás, “para que los de afuera crean que esto sigue avanzando”. Desde entonces el tren no volvió a moverse.
La noche que escuché este chiste me reí con el dolor de quien le resulta familiar la metáfora. En Cuba también hemos bajado todos a empujar, otras veces cometieron el error de obligarnos a hacerlo y no faltan los que nos instan a disimular el movimiento. Recuerdo que en la enseñanza secundaria era rockero, de pelo largo y ropa oscura. Por suerte no existen fotos de la época que me delaten. Tuve un profesor entonces que nos enseñó las primeras nociones de política, muy crítico con el voluntarismo y las metas propagandísticas del momento pero era difícil criticarlo porque predicaba con un ejemplo difícil de imitar. Con él era un gusto echar a andar el tren nacional.
Poco después de eso ingresé a la Juventud Comunista. Entre nosotros nadie sabía bien qué era el comunismo (posiblemente nuestros padres tampoco) y aprendimos entonces a identificarnos como jóvenes de izquierda más allá de las etiquetas, estábamos orgullosos de serlo. El día que uno de nosotros salió ilegalmente del país nos enteramos por los rumores de los profesores, pronto tendríamos otra lección política. Contra nuestra voluntad tuvimos que hacerle una sanción (bastante metafísica para ser una organización marxista) y expulsarlo de nuestro Comité. En estos días cuesta quitarme esa escena de la cabeza que fue al más puro estilo estalinista, algún día tendré que exorcizar esa culpa por escrito.
Como diría el músico Carlos Varela: “o te subes o te bajas o te olvidas del tren”, me gusta pensar que sigo empujándolo a pesar de los errores de algún que otro maquinista.
En el 2007 estaba en su punto la Batalla de Ideas. Como dirigente de la Federación Universitaria me invitan a la Habana para actividades de las Brigadas Universitarias de Trabajo Social (BUTS) que hacían precisamente eso, trabajo social. Si algo había en esos días eran recursos, no sé de dónde salían pero la Villa Panamericana en las afueras de la Habana era una ciudad repleta de instructores de arte y trabajadores sociales. Partí con la ilusión del chico de provincia que llega a la capital con ganas de comerse el mundo, me esperaban mil decepciones.
No se me olvida la dirigente estudiantil que le pregunté algo de la organización y me paró en seco: “fuera del horario establecido no se habla de política”. Por si fuera poco, la chica va a su habitación y regresa transformada con otra ropa, 2 o 3 cadenas de oro en el cuello (tampoco que eso sea determinante pero… ¡WTF!) y se sube a una moto que la esperaba fuera. Ahí quedé yo, confundido, sin saber si el disfraz era el que usaba de día o de noche. La excesiva preocupación por los formalismos del funcionamiento en detrimento de la movilización juvenil y la imposición de lo cuantitativo sobre lo cualitativo, fueron demasiado para mí. Ese fue mi último año de estudiante asumiendo un cargo, terminando el curso pedí mi liberación y me dediqué más a lo académico. A menudo pienso que esto último fue un error, no se puede renunciar a las instituciones y organizaciones pero la simulación, provoca tal rechazo y descrédito.
Ya no soy rockero y han pasado 8 años desde aquella amarga experiencia. Después de graduado hice un blog de política y terminé subordinando la academia al activismo político. No creo que mi profesor de Educación Cívica en la secundaria imaginara el impacto de sus palabras en mí, quizás fue él quien plantó la semilla de que los cambios no se le pueden confiar a otros y desentenderse. Los cambios se hacen desde dentro, a través de la participación activa.
El chiste soviético tenía toda la razón, ya conocemos el desenlace y hay un refrán que dice “guerra avisada no mata soldado”. Dicho esto, no puedo evitar ver señales mixtas en mi país, desde la participación positiva, pasando por la obligación y la simulación. Hay que cambiar lo que deba ser cambiado pronto porque la suerte viene y va como el humo del tren y si no tenemos prisa, el próximo chiste doloroso será el nuestro.