Geraldina Colotti http://ilmanifesto.info
Sale la tensione ad Haiti in vista del 7 febbraio, quando scadrà il mandato dell’attuale presidente Michel Martelly. Il 25 ottobre del 2015, dopo quasi tre anni di rinvii si sono svolte le elezioni generali.
Con uno stretto margine di differenza, il governativo Juvenel Moise e l’oppositore Jude Célestin avrebbero dovuto andare al secondo turno delle presidenziali, previsto prima per il 27 dicembre e poi per il 24 gennaio, ma sempre sospeso dopo le denunce per frode dell’arco di opposizione e le violente manifestazioni.
Il Senato ha votato una risoluzione per l’annullamento delle elezioni. Il presidente e due membri del Consiglio elettorale provvisorio (Cep) si sono dimessi. L’arco di opposizione, che si denomina Gruppo degli otto (G-8), chiede un governo di transizione diretto dal presidente della Corte suprema, che nomini un gruppo di ministri scelti fra personalità riconosciute e indipendenti della società haitiana. All’interno del blocco, un più piccolo arco di sinistra, il Movimento patriottico democratico popolare, spinge per vere riforme di struttura. Martelly dichiara: «Non lascerò l’incarico se prima non ci sarà stabilità, e chi rifiuta le elezioni non può garantirla». Moise ritiene di essere ancora il candidato vincente. L’Onu ha espresso «preoccupazione».
Intanto, alla notizia dell’arrivo dell’Organizzazione degli stati americani (Osa) sono riprese le manifestazioni. La popolazione l’accusa di aver coperto i brogli durante l’elezione di Martelly e in quelle annullate. Durante il recente vertice della Comunità degli stati latinoamericani e caraibici (Celac), che si è svolto a Quito, nonostante l’opposizione dei paesi neoliberisti è stato deciso anche l’invio di osservatori Celac, rappresentati da Bahamas, Ecuador, Uruguay e Venezuela.
Martelly — l’ex cantante detto «Sweet Miky», legato agli interessi dell’ex dittatore Duvalier e alle squadracce dei Ton ton Macoute — è stato eletto nel 2011 con l’appoggio degli Usa, che hanno ad Haiti una delle loro più grandi ambasciate: a garanzia dei forti interessi (a partire da quelli dei Clinton), presenti nel disastrato paese, tutt’ora prostrato dal terremoto del 2010 (quasi 300.000 morti) e dal successivo e devastante colera. Un paese di fatto occupato: sul piano economico, dalla pletora di Ong i cui funzionari si spartiscono stipendi da nababbi a fronte dell’enorme povertà della popolazione; e su quello militare, dalla missione Onu, la Minustah, rinnovata per un altro mandato. Oltre il 60% della popolazione attiva è senza lavoro, gran parte degli sfollati vive ancora nelle tende.
Alla sbandierata crescita del Pil (3,5) non corrisponde una miglior distribuzione della ricchezza — dicono le organizzazioni popolari -, i soldi degli aiuti sono serviti a costruire hotel di lusso che hanno espropriato i contadini poveri delle loro terre continuando a spingere il paese verso il baratro. La luce elettrica — denunciano — è arrivata solo grazie alla solidarietà diretta del Venezuela bolivariano. Ma gran parte dei soldi inviati dai paesi dell’Alba e con Petrocaribe, è finita nelle tasche dei dirigenti haitiani, prevalentamente della cerchia di Martelly. La crisi di Haiti non è quindi solo di carattere elettorale, ma strutturale, derivata dalla dipendenza neocoloniale imposta dagli Usa con la prima occupazione (1915–1934) e mai davvero conclusa. Ma ora, il popolo di Toussaint Louverture sembra nuovamente deciso ad alzare la testa.