Eduardo Mora Basart https://lapupilainsomne.wordpress.com
La dissezione della cultura in una dimensione estetica o della comunicazione, segnò l’opera di Umberto Eco, uno dei paradigmi del pensiero contemporaneo.
La notizia della scomparsa dell’autore di ‘Il nome della Rosa’, mi ha sorpreso immerso nella lettura dal suo ultimo romanzo ‘Numero Zero’, una critica al giornalismo di oggi, in cui difende la tesi che i media non rendono omaggio alla verità, ma ai loro finanziatori. Come in quest’opera, lo sguardo critico di Eco ai media è costante. Pertanto, assicurava che “siamo ossessionati dai media che, sicuramente, sono uno dei mali del nostro tempo. Sono un male come una volta lo erano le epidemie: la peste. Proprio come molte persone sono riuscite a sopravvivere alla peste, in tanti potranno sopravvivere anche ai media”.
Diversi dei principali titoli che hanno riempito la stampa italiana sottolineavano: “L’Italia è in lutto”, “Ora siamo più poveri”, “L’uomo che sapeva tutto”. Il giornalista Gianni Rotta in La Stampa di Torino, l’ha definito con precisione: “filosofo, padre della semiotica, scrittore, docente universitario, giornalista, esperto di libri antichi: in ciascuna delle sue anime, Umberto Eco, era una star internazionale, ma con i suoi studenti, lettori, colleghi, Eco non ha mai esposto la posa snob che forse altri scrittori avrebbero adottato, nel caso avessero pubblicato bestseller, come ‘Il nome della rosa’ o ‘Il pendolo di Foucault’. Umberto Eco rideva, s’informava sulle ultime notizie e – accendendo una sigaretta- raccontava l’ultima battuta prima di presentare una nuova teoria linguistica”.
Gli amanti del giornalismo conserviamo saggi come ‘Apocalittici e integrati’ e ‘Verso una guerriglia semiologica’, come testi di culto. Sono ancora vive nella mia memoria le polemiche nelle aule dell’Università delle Arti di L’Avana (ISA), guidate con moderazione e saggezza radicale dalla dottoressa Magalys Espinosa, dove ci immergevamo nella storia dell’estetica da accese polemiche e sulla strada attraverso i labirinti della avanguardie artistiche era d’obbligo fare appello a Duchamp, Morawski, Mukarowski e i contributi di Eco risultavano onnipresenti. Più e più volte ho riletto ‘L’opera aperta’, il testo commissionato da Italo Calvino, genesi di tutta la sua produzione semiotica e necessaria per interpretare le dinamiche estetiche contemporanee.
Eco dichiarava: “Sono sempre più convinto che, per comprendere meglio molti dei problemi che ancora ci preoccupano, è necessario analizzare ancora i contesti in cui alcune categorie sono emerse per la prima volta”. Chi non ha letto ‘Come scrivere una tesi’, opera che mise nelle mie mani, come lettura di obbligo, il Dr. Gilberto Valdez. Di essa si mostrava orgoglioso Umberto Eco e disse: “Milioni di studenti l’hanno usata in tutto il mondo come guida. E’ ancora utile nell’era di Internet, anche se io l’abbia scritto a mano. Dopo la mia morte, quello sarà l’unico libro che mi sopravviverà”.
Tuttavia, ‘Il nome della rosa’ è un capolavoro che redimensionó le lettere nella seconda metà del XX secolo. In essa rende omaggio a Conan Doyle e al filosofo scolastico Guglielmo di Ockham, uno dei padri del pensiero moderno, che ha affermato che “la spiegazione più semplice è, di solito, quella veritiera”. Nessuno dei romanzi ia Eco, da ‘Il pendolo di Foucault’ e fino a ‘Numero Zero’, passando da ‘L’sola del giorno prima’, ‘Baudolino’, ‘La misteriosa fiamma della regina Loana’ o ‘Il cimitero di Praga’, è salito alla sua altezza. Questionandogli la grandezza di un romanzo che non è stato superato dall’autore, ha replicato: “E’ anche una legge della sociologia del gusto, o meglio, della sociologia della fama. Se uno diventa famoso per aver ucciso Billy the Kid, qualunque cosa faccia dopo – dal diventare presidente degli USA, sino a scoprire la penicillina – agli occhi della gente rimarrà sempre quello che ha ucciso Billy the Kid”.
In un’intervista concessa al giornalista spagnolo Xavi Ayen ha testimoniato: “Ero figlio di un tipografo, ho avuto 12 fratelli, non riuscivo a comprare libri e andavo nelle edicole per leggere gli opuscoli dei romanzi a puntate, fino a quando l’edicolante mi cacciava, andavo in un altra edicola e lì leggevo un altro pezzo. Ancora colleziono libri stampati da mio nonno. Leggevo nella sua casa, mi ricordo ‘I tre moschettieri’, di Dumas, illustrato da Maurice Leloir. Quando morì, lasciò molti manoscritti da editare in una scatola, romanzi popolari a cui nessuno prestò attenzione, e io, a 8 o 10 anni, ho divorato quei manoscritti, erano fantastiche avventure. L’altra influenza è stata la mia nonna materna, una donna che non aveva istruzione, forse l’elementare, ma sì una passione incredibile per la lettura, andava nelle biblioteche e aveva sempre un sacco di romanzi a casa. Leggeva Balzac o Stendhal, come se fossero dei romanzi rosa, senza senso critico, ma mi prestava quei libri e io mi immergevo nel grande romanzo francese già ai 12 anni”.
L’addio a questa icona della cultura mondiale si terrà il martedì presso il Castello Sforzesco, un gioiello architettonico del XV secolo che Umberto Eco guardava estasiato da una delle finestre della sua casa a Milano, Italia. Questa settimana vedrà la luce la sua opera ‘Cronache di una società liquida’, dove secondo il suo editore Mario Andreose, ci sono passaggi che sono di una comicità splendida, e altri in cui Eco “analizza l’identità di Papa Francesco, per cui nutriva grande stima”. La sua analisi e dissezione della cultura di massa concentrò una parte fondamentale del suo lavoro perché, secondo Eco: “nella cultura ogni entità può diventare fenomeno semiotico. Le leggi della comunicazione sono le leggi della cultura. La cultura può essere interamente studiata sotto un punto di vista semiotico. La semiotica è una disciplina che può e deve interessarsi di tutta la cultura”.
Per questo, si rallegrava al dedicare parte del suo tempo a leggere i fumetti, ai quali diede importanza come componente fondamentale della cultura di massa. Un esempio eloquente di ciò è la sua valutazione di Mafalda: “Nessuno nega oggi che il fumetto (quando raggiunge livelli di qualità) è una testimonianza del momento sociale: e in Mafalda si riflettono le tendenze di una gioventù inquieta, che assume l’aspetto paradossale di un’opposizione infantile, di un eczema psicologico di reazione ai mass media, di un’orticaria morale prodotta dalla logica dei blocchi, di un asma intellettuale causata da funghi atomici. Dal momento che i nostri figli si preparano per essere – per scelta nostra – una moltitudine di Mafalde, ci sembra prudente trattare Mafalda con il rispetto che merita un personaggio reale.”
Leggendo le notizie sulla morte di Eco, ricordavo José Pablo Feinmann, che molti legittimano come l’Umberto Eco argentino, anche quando si confessa discepolo di Sartre -in una delle sue conferenze del corso di filosofia del canale Encuentros. In essa sosteneva che l’addio è solo una questione di mortali, poiché la finitezza delle loro vite non offre loro la certezza di un nuovo incontro: gli immortali non si salutano. Pertanto, ricordando San Tommaso d’Aquino, il pensatore che secondo Eco l’ha fatto guarire miracolosamente della fede, Umberto Eco non è morto poiché è patrimonio dell’eternità.
Eco: ¿Número Cero?
Por: Eduardo Mora Basar
La disección de la cultura desde una dimensión estética o comunicológica signó la obra de Humberto Eco, uno de los paradigmas del pensamiento contemporáneo. La noticia de la desaparición física del autor de El nombre de la Rosa, me sorprendió sumido en la lectura de su última novela Número Cero, un crítica al periodismo actual, donde defiende la tesis de que los medios masivos no rinden tributo a la verdad sino a quienes los financian. Como en esta obra, la mirada crítica de Eco a los medios masivos es constante. Por ello, aseguraba que “estamos obsesionados por los medios de comunicación que, ciertamente, son uno de los males de nuestro tiempo. Son un mal como en un tiempo eran las epidemias: la peste. Así como mucha gente logró sobrevivir a la peste, también podrán sobrevivir muchos a los medios de comunicación”.
Varios de los principales titulares que colmaron la prensa italiana subrayaban: “Italia está de luto”, “Ahora somos más pobres”, “El hombre que lo sabía todo”. El periodista Gianni Rotta en La Stampa de Turín, lo definió con mediana precisión: “Filósofo, padre de la semiótica, escritor, profesor universitario, periodista, experto en libros antiguos: en cada una de sus almas Umberto Eco era una estrella internacional, pero con sus estudiantes, lectores, colegas, jamás Eco exhibió la pose snob que tal vez otros escritores sí habrían adoptado de haber publicado best sellers como El nombre de la rosa o El péndulo de Foucault. Umberto Eco reía, se informaba de las novedades y —encendiendo un cigarro— contaba la última broma antes de presentar una nueva teoría lingüística”.
Los amantes del periodismo atesoramos ensayos como Apocalípticos e integrados y Hacia una guerrilla semiológica como textos de culto. Aún están vivas en mi memoria las encendidas polémicas en las aulas de la Universidad de las Artes de La Habana (ISA), guiadas con mesura y sapiencia raigal por la doctora Magalys Espinosa, donde nos sumergíamos en la historia de la estética desde encendidas polémicas y en el camino por los laberintos de las vanguardias artísticas era de obligada recurrencia apelar a Duchamp, Morawski, Mukarowski y los aportes de Eco resultaban omnipresentes. Una y otra vez releí La obra abierta, el texto que le encargó Italo Calvino, génesis de toda su producción semiótica e indispensable para interpretar las dinámicas estéticas contemporáneas.
Eco sentenciaba: “Cada vez estoy más convencido de que, para comprender mejor muchos de los problemas que aún nos preocupan, es necesario volver a analizar los contextos en que determinadas categorías surgieron por primera vez”. Quien no ha leído Cómo se hace una tesis, obra que puso en mis manos como de obligada lectura el doctor Gilberto Valdéz. De ella se mostraba orgulloso Humberto Eco y dijo: “Millones de estudiantes la han usado en todo el mundo como guía. Sigue siendo útil en la era de internet aunque yo lo haya escrito a mano. Después de mi muerte, ese será el único libro que me sobrevivirá”.
Sin embargo, El nombre de la Rosa es una obra que redimensionó las letras en la segunda mitad del siglo XX. En ella rinde homenaje a Conan Doyle y al filósofo escolástico Guillermo de Ockham, uno de los padres del pensamiento moderno, quien aseguró que “la explicación más sencilla suele ser la verdadera”. Ninguna de las novelas de Eco desde El péndulo de Foucault hasta Número Cero, pasando por La isla del día antes, Baudolino, La misteriosa llama de la reina Loana o El cementerio de Praga, se elevó hasta su altura. Al cuestionársele la grandeza de una novela que no fue superada por el autor, ripostó: “También es una ley de la sociología del gusto, o mejor dicho, de la sociología de la fama. Si uno se hace famoso por haber matado a Billy de Kid, cualquier cosa que haga después —desde llegar a ser presidente de Estados Unidos, hasta descubrir la penicilina— a los ojos de la gente seguirá siendo siempre el que mató a Billy de Kid”.
En una entrevista concedida al periodista español Xavi Ayén testimonió: “Era hijo de un tipógrafo, tuve 12 hermanos, no podía comprarme libros y me iba a los quioscos a leer los fascículos de las novelas por entregas, hasta que el quiosquero me echaba, me iba a otro quiosco y allí leía otro trozo. Colecciono aún libros impresos por mi abuelo. Yo leía en su casa, recuerdo Los tres mosqueteros de Dumas ilustrados por Maurice Leloir. Cuando murió, se le quedaron muchos manuscritos por editar en una caja, novelas populares a las que nadie hizo caso, y yo, a los 8 o 10 años, devoré esos manuscritos, eran aventuras fantásticas. La otra influencia fue mi abuela materna, una mujer que no tenía educación, tal vez la primaria, pero sí una pasión increíble por la lectura, se iba a las bibliotecas y siempre tenía un montón de novelas en casa. Leía Balzac o Stendhal como si fueran una novela rosa, sin sentido crítico, pero me prestaba esos libros y yo me sumergía en la gran novela francesa ya a los 12 años”.
La despedida de ese icono de la cultura mundial se realizará este martes en el Castello Sforzesco, una joya arquitéctonica del siglo XV que Humberto Eco contemplaba extasiado desde una de las ventanas de su casa en Milán, Italia. Esta semana verá la luz su obra Crónicas de una sociedad líquida donde según su editor Mario Andreose, hay pasajes que son de una comicidad espléndida, y otros en los que Eco “analiza la identidad del papa Francisco, al que tenía en gran estima”. Su análisis y disección de la cultura de masas centró una parte fundamental de su obra pues según Eco: “en la cultura cada entidad puede convertirse en fenómeno semiótico. Las leyes de la comunicación son las leyes de la cultura. La cultura puede ser enteramente estudiada bajo un punto de vista semiótico. La semiótica es una disciplina que puede y debe ocuparse de toda la cultura”.
Por ello, se regocijaba al dedicar una parte de su tiempo a leer comics, a quienes confirió trascendencia como componente fundamental de la cultura de masas. Una muestra elocuente de ello es su valoración de Mafalda: “Ya nadie niega hoy que el cómic (cuando alcanza niveles de calidad) es un testimonio sobre el momento social: y en Mafalda se reflejan las tendencias de una juventud inquieta, que asumen el aspecto paradójico de una oposición infantil, de una eccema psicológica de reacción a los medios de comunicación de masas, de una urticaria moral producida por la lógica de los bloques, de un asma intelectual originado por hongos atómicos. Puesto que nuestros hijos se preparan para ser -por elección nuestra- una multitud de Mafaldas, nos parece prudente tratar a Mafalda con el respeto que merece un personaje real.”
Leyendo las noticias sobre la muerte de Eco rememoraba a José Pablo Feinmann –a quien muchos legitiman como el Humberto Eco argentino, aún cuando se confiese discípulo de Sartre – en una de sus conferencias del curso de filosofía del canal Encuentros. En ella aseguraba que la despedida es sólo asunto de mortales, pues la finitud de sus vidas no les ofrece la certeza de un nuevo encuentro: los inmortales no se despiden. Por ello, rememorando a Santo Tomás de Aquino, el pensador que según Eco lo curó milagrosamente de la fe, Humberto Eco no ha muerto pues es patrimonio de la eternidad.