D. Machado Rodríguez https://lapupilainsomne.wordpress.com
Come molti, ho seguito la visita di Barack Obama nel nostro paese, sperimentando sentimenti contrastanti: da una parte il sano orgoglio patriottico e rivoluzionario di vedere un presidente USA rettificare la politica verso Cuba e ripetere sul nostro suolo che bisogna porre fine al blocco, ciò che conferma il rispetto per la nostra sovranità ed indipendenza, quelli che abbiamo guadagnato noi cubani con il nostro sacrificio, il nostro sudore, il nostro sangue, la nostra storia e, dall’altro, il pericolo che significa che ci siano quelli che pensano che con questi, per ora tiepidi cambiamenti, è scomparsa la contraddizione tra gli interessi dell’imperialismo USA e quelli della nazione cubana. Ma solo oggi, dopo aver ascoltato il suo discorso, questo lunedì mattina, ho deciso di scrivere queste righe, perché -come ha avvertito più di mezzo secolo fa Fidel- d’ora in poi tutto sarà più difficile.
Chi potrebbe mettere in dubbio l’enorme complessità della società USA, dove hanno poco valore le analisi in bianco e nero?
Una storia turbolenta in cui si mescolano le battaglie contro il colonialismo inglese per l’indipendenza e attacchi genocidi contro la popolazione indigena, un impetuoso sviluppo industriale e una crudele guerra intestina che uccise più di 600000 esseri umani, una creatività de inventiva paradigmatica nella scienza e tecnologia de un bellicismo espansionista di cui Messico e Cuba -per prendere solo due esempi della nostra regione- sono stati vittime vicine, una società con straordinari manifestazioni culturali nella musica, letteratura e cinema insieme ad un messianismo che non onora questi valori, una cittadinanza laboriosa e intraprendente su cui, però, riposa pesantemente una macchina statale imperialista, il paese più ricco ed il più indebitato del mondo, quello che più reclama, ad altri, i diritti umani e che meno li rispetta come evidenziato da più di mezzo secolo di blocco economico contro Cuba, una società in cui la violenza serve come filo conduttore per seguire la sua storia.
In breve, un paese pieno di contraddizioni, tuttavia sarebbe ingenuo pensare che gli attuali approcci verso Cuba sono semplicemente il risultato dei criteri, volontà e abilità di Obama e non parte integrante degli interessi del potere reale USA: quelli del grande capitale.
Se Barack Hussein Obama risultasse non funzionale ai poteri di fatto che governano lo Stato nordamericano difficilmente sarebbe stato eletto presidente nel 2008, né rieletto nel 2011, né avrebbe iniziato il cambiamento di politica verso Cuba.
È lo stesso Obama che appena due mesi dopo aver ricevuto il regalo del premio Nobel per la Pace inviò decine di migliaia di soldati in Afghanistan, che ha autorizzato centinaia di attacchi con droni che hanno ucciso centinaia di civili in diversi paesi del mondo, che ha partecipato al complotto che ha distrutto la Libia, che ha armato la cosiddetta opposizione siriana rafforzando il sedicente Stato islamico, che ha approvato la fornitura di armi a Kiev dopo il colpo di stato, il presidente che è stato dietro la “primavera araba” con conseguenze fatali in quella zona del mondo. E’ lo stesso Obama; come direbbe il poeta: “Non meravigliatevi di nulla”.
In effetti, non ci sono due Obama, uno “buono” e “un altro cattivo”. Non siamo di fronte ad una personalità bipolare, ma un unico, il politico di carriera che al di là delle sue caratteristiche e storia personale, dei suoi modi domestici di fare politica e anche delle sue inclinazioni come individuo e del suo probabile obiettivo di lasciare come eredità l’essere il presidente USA che ha cambiato la politica verso Cuba, è sempre stato ed è funzionale agli interessi strategici dei poteri di fatto che regolano lo Stato nordamericano.
È, questo sì, un politico a cui bisogna riconoscergli carisma, dominio della scena, senso di opportunità mediatica, capacità comunicativa; probabilmente il migliore e più capace per mascherare, oggi, gli obiettivi strategici dell’imperialismo USA verso Cuba e in America Latina e nei Caraibi.
In questa visita al nostro paese, il presidente Obama, non ha perso l’opportunità per rivendicare la fine del blocco, ciò che negli ultimi tempi sono parole di qualcuno che è pronto a scomparire dalla scena di governo USA, frasi che ora può pronunciare, delle quali può ora essere responsabile poiché non aspira, né potrebbe aspirare ad un nuovo mandato presidenziale e perché le formalità del sistema politico del paese del nord gli permettono di presentarsi, olimpicamente, come qualcuno che non è responsabile del blocco, contrario al blocco, sostenitore di una nuova politica, quando, per la maggior parte del suo agire presidenziale, l’ha approvato con la sua inerzia.
Ma torniamo al discorso già noto, non può essere oggetto di un breve articolo un’analisi approfondita di questo intervento [1], quindi sto solo andando a mettere in evidenza alcuni aspetti che si distinguono a prima vista, dove, come hanno espresso vari analisti, c’è molto su quello che non è stato detto ed è poco ciò che si concede, anche se l’adorna bene. E’ lo stesso Obama, che potrebbe fare molto di più coi suoi poteri presidenziali e ancora non l’ha fatto.
E di ciò si tratta, di leggere la scrittura piccola delle sue dichiarazioni, qualcosa di importante, soprattutto per i giovani le cui esperienze di vita con il vicino del nord non hanno avuto sabotaggi criminali, gli episodi di Giron, la crisi di ottobre, le bande controrivoluzionarie, gli attentati contro i nostri leader, le aggressioni biologiche, e un lungo ecc, e a chi, gli effetti del blocco gli sono arrivati ammortizzati dalla protezione della società e delle famiglie.
Non c’è dubbio: Obama è il volto dolce e seducente dello stesso pericolo. Non ha chiesto scusa per i crimini contro Cuba, non ha menzionato la Base Navale di Guantanamo, non ha parlato della Legge di Aggiustamento Cubano, non ha detto perché non fa di più contro il blocco potendolo fare, e molte altre sorprendenti omissioni.
Mentre è stato evidente che lui non vuole collaborare con Cuba, ma con quella parte della nostra società a cui comporta migliori condizioni per gli interessi strategici che rappresenta, lui ha voluto sedurre i giovani, incoraggiare in questi l’egoismo e il desiderio di miglioramento puramente individuale, presentando la crescita capitalistica come la panacea universale e non la causa della crisi e del pericolo dell’esaurimento della natura e la scomparsa della specie umana, lui ha voluto contribuire a frammentare la società cubana al fine di recuperare l’egemonia USA qui e nella nostra regione, nel suo discorso egli ha infilato il tono presuntuoso di colui che “ci dà il diritto -che nessuno ci deve dare- di risolvere i nostri propri problemi”. Ci tocca, ora, spiegare e dimostrare ciò.
La visita di Obama è una vittoria del popolo cubano e di tutti i popoli dell’America Latina e dei Caraibi, per ciò che comporta che gli USA sono stati costretti a riconoscere che si sono schiantati contro la nostra dignità e ora scelgono di fare un rodeo truccato. Quindi, bisogna ricordare quelle parole di Giulio Fucik, alla fine della sua storica “Relazione ai piedi della forca” e “stare attenti”.
Obama ha concluso la sua visita a Cuba, è stato – insieme alla sua bella famiglia verso la quale i cubani abbiamo sentito naturale simpatia- ricevuto, trattato e gentilmente salutato da un popolo e dalle autorità, che fanno mostra della loro ospitalità, rispetto e volontà di dialogo senza imposizioni, ma la cui maggioranza è ben consapevole del terreno che calpestano e nella quale bolle lo spirito sovrano, martiano e fidelista, quello che esultò nello stadio latinoamericano: “Raul, Raul, Raul …”.
[1] In un libro in via di pubblicazione della Casa editrice ‘Editorial de la Mujer’ dell’ Avana dedico un intero capitolo all’analisi del discorso che offrì il 17 dicembre 2014 alla Casa Bianca, e del quale ha ripreso parti in questo.
¿Obama “el bueno”?
Darío Machado Rodríguez
Como muchos, he estado siguiendo la visita de Barack Obama a nuestro país, experimentando sentimientos encontrados: de un lado el sano orgullo patriótico y revolucionario de ver un presidente norteamericano rectificando la política hacia Cuba y repitiendo en nuestro propio suelo que hay que terminar con el bloqueo, lo que ratifica el respeto a nuestra soberanía e independencia, esas que nos hemos ganado los cubanos con nuestro sacrificio, nuestro sudor, nuestra sangre, nuestra historia y, de otro, el peligro que significa que haya quienes piensen que con estos, por ahora tibios cambios, ha desaparecido la contradicción entre los intereses del imperialismo norteamericano y los de la nación cubana. Pero solo hoy, luego de escuchar su discurso en esta mañana de lunes, me he decidido a escribir estas líneas, porque -como alertó hace más de medio siglo Fidel-, en lo adelante todo será más difícil.
¿Quién podría poner en duda la enorme complejidad de la sociedad norteamericana, en la que poco valen análisis en blanco y negro?
Una historia turbulenta en la que se entremezclan las batallas contra el colonialismo inglés por la independencia y arremetidas genocidas contra la población autóctona, un impetuoso desarrollo industrial y una cruel guerra intestina que costó la vida a más de 600 000 seres humanos, una creatividad e inventiva paradigmáticas en la ciencia y la tecnología y un belicismo expansionista del cual México y Cuba -por poner solo dos ejemplos de nuestra región- han sido víctimas cercanas, una sociedad con extraordinarias manifestaciones culturales en la música, la literatura y el cine junto con un mesianismo que no honra esos valores, una ciudadanía laboriosa y emprendedora sobre la cual, sin embargo, descansa pesadamente una maquinaria estatal imperialista, el país más rico y el más endeudado del mundo, el que más reclama a los demás los derechos humanos y quien menos los respeta como demuestra más de medio siglo de bloqueo económico contra Cuba, una sociedad en la que la violencia sirve de hilo conductor para seguir su historia.
En resumen, un país lleno de contradicciones en el que, no obstante, sería ingenuo pensar que los acercamientos actuales hacia Cuba son simplemente el resultado de los criterios, la voluntad y la habilidad de Obama y no parte integrada a los intereses del poder real de los EEUU: el del gran capital.
Si Barack Hussein Obama resultara infuncional a los poderes fácticos que rigen el Estado norteamericano difícilmente habría sido elegido presidente en 2008, ni reelegido en 2011, ni habría iniciado el cambio de política hacia Cuba.
Es el mismo Obama que solo dos meses después de haber recibido el regalo del premio Nobel de la Paz envió decenas de miles de soldados a Afganistán, el que ha autorizado cientos de ataques con drones que han costado la vida de cientos de civiles en varios países del mundo, el que participó en el complot que destruyó a Libia, el que ha armado a la llamada oposición siria fortaleciendo al autotitulado Estado islámico, el que aprobó el suministro de armas a Kiev luego del golpe de Estado, el presidente que ha estado detrás de la “primavera árabe” de fatales consecuencias en esa zona del mundo. Es el mismo Obama; como diría el poeta: “No os asombréis de nada”.
En efecto, no hay dos Obama, uno “bueno” y “otro malo”. No estamos frente a una personalidad bipolar, sino uno único, el político de carrera, quien más allá de sus características e historia personal, de sus modos domésticos de hacer política, y hasta de sus inclinaciones como individuo y de su probable objetivo de dejar como legado el de ser el presidente norteamericano que cambió la política hacia Cuba, ha sido siempre y es funcional a los intereses estratégicos de los poderes fácticos que regulan el Estado norteamericano.
Es, eso sí, un político a quien hay que reconocerle carisma, dominio escénico, sentido de la oportunidad mediática, habilidad comunicativa; probablemente el mejor y más capaz a mano para enmascarar hoy los objetivos estratégicos del imperialismo norteamericano hacia Cuba y hacia América Latina y el Caribe.
En esta visita a nuestro país, el presidente Obama no ha perdido oportunidad para reclamar el fin del bloqueo, lo que de últimas son palabras de alguien pronto a desaparecer de la escena gubernamental norteamericana, frases que puede ahora pronunciar, de las cuales puede ahora hacerse responsable porque no aspira, ni podría aspirar a un nuevo período presidencial y porque las formalidades del sistema político del país norteño le permiten presentarse olímpicamente como alguien no responsable del bloqueo, opuesto al bloqueo, sostenedor de una nueva política, cuando durante casi toda su actuación presidencial lo avaló con su inercia.
Pero volviendo al discurso de marras, no puede ser objeto de un breve artículo un análisis exhaustivo de esa intervención[1], de modo que solamente voy a recalcar algunos aspectos que resaltan a primera vista donde como han expresado varios analistas mucho hay de lo que no se dijo y es poco lo que concede, aunque lo adorna bien. Es el mismo Obama que podría hacer mucho más desde sus atribuciones presidenciales y aún no la ha hecho.
Y de eso se trata, de leer la letra chica de sus declaraciones, algo importante especialmente para los jóvenes cuyas experiencias de vida con el vecino del norte no cuentan con los sabotajes criminales, los episodios de Girón, la crisis de octubre, las bandas contrarrevolucionarias, los atentados contra nuestros líderes, las agresiones biológicas, y un largo etcétera, y a quienes los efectos del bloqueo les han llegado amortiguados por la protección de la sociedad y de las familias.
No hay dudas: Obama es la cara gentil y seductora del mismo peligro. No se disculpó por los crímenes contra Cuba, no mencionó la Base Naval de Guantánamo, no habló de la Ley de Ajuste Cubano, no dijo por qué no hace más contra el bloqueo pudiendo hacerlo, y muchas otras increíbles omisiones.
Mientras, fue evidente que él no quiere colaborar con Cuba, sino con aquella parte de nuestra sociedad a la que supone mejores condiciones para los intereses estratégicos que representa, él quiso seducir a la juventud, estimular en ella el egoísmo y el afán de mejoramiento puramente individual presentando el crecimiento capitalista como la panacea universal y no la causa de las crisis y del peligro del agotamiento de la naturaleza y la desaparición de la especie humana, él quiso contribuir a fragmentar la sociedad cubana para el propósito de recuperar la hegemonía norteamericana aquí y en nuestra región, en su discurso asomó el tono sobrador de alguien que “nos concede el derecho –que nadie tiene que otorgarnos- de resolver nuestros propios problemas”. Nos toca ahora explicar y evidenciar eso.
La visita de Obama es una victoria del pueblo cubano y de todos los pueblos de América Latina y del Caribe por lo que entraña el que los Estados Unidos de Norteamérica se hayan visto obligados a reconocer que se estrellaron contra nuestra dignidad y ahora optan por hacer un rodeo amañado. Por eso hay que recordar aquellas palabras de Julius Fucík al final de su histórico “Reportaje al pie de la horca” y “estar alertas”.
Obama terminó su visita a Cuba, fue -junto con su bella familia hacia la que los cubanos hemos sentido natural simpatía- recibido, tratado y despedido cortésmente por un pueblo y unas autoridades que hacen gala de su hospitalidad, respeto y disposición al diálogo sin imposiciones, pero cuyas mayorías saben bien el terreno que pisan y en las que bulle el espíritu soberano, martiano y fidelista, ese que coreó en el estadio latinoamericano: “Raúl, Raúl, Raúl…”.
[1] En un libro en proceso editorial en la Editorial de La Mujer de La Habana dedico un capítulo completo al análisis del discurso que ofreció el 17 de diciembre de 2014 en la Casa Blanca y del cual retomó partes en este.