Alejandro Fierro http://ciptagarelli.jimdo.com
Obama è andato a Cuba inseguendo un’immagine per la Storia. Cercava il suo particolare “Ich bin ein berliner” , quel io sono un berlinese con cui Kennedy si guadagnò il favore degli abitanti della Berlino Est della Guerra Fredda. O forse voleva emulare il Bill Clinton padrino dell’utopistica stretta di mano tra Isaac Rabin e Yasser Arafat nei giardini della Casa Bianca.
Come ogni presidente degli Stati Uniti, vuol lasciare un’icona fotografica che ricordi il suo mandato.
Una necessità ancor più pressante in quanto la sua gestione estera è stata segnata da sonori fallimenti, dalla politica catastrofica nel Nord Africa, Medio Oriente e Vicino Oriente che ha condotto alla deflagrazione di stati precedentemente stabili come la Libia, la Siria o l’Iraq, fino ai rovesci nell’Est dell’Europa per mano di una Russia che si è mostrata inflessibile nel momento di impedire intromissioni nella sua zona di influenza.
E nemmeno in ambito interno le cose non gli sono andate meglio, con una falsa uscita dalla crisi che ha istituzionalizzato l’impoverimento delle classi lavoratrici e la sua sconfitta nelle tre grandi trasformazioni pianificate, quella finanziaria, quella migratoria e quella sanitaria.
A fronte di questo panorama, cosa di meglio che volgere lo sguardo verso il cortile posteriore, verso i Caraibi, verso l’autentico Mare Nostrum statunitense, principio e fine di ogni loro politica estera da due secoli?! Nonostante gli obiettivi mediatici si concentrino in altre zone, l’America Latina è sempre il principale obiettivo geostrategico degli Stati Uniti e l’era Obama non è stata un’eccezione.
I dati sono eloquenti: 76 basi militari dispiegate nel subcontinente – una presenza militare senza paragoni nel resto del mondo; la riattivazione della IV Flotta nel periodo 2008/2009; il rafforzamento del Quartier Generale del Comando Sud, in Florida, con più di 2.000 persone che rispondono direttamente al Pentagono e non alla Casa Bianca (la logica militare al di sopra della politica); un’attività incessante di ingerenze diretta e indiretta per sabotare i processi di emancipazione.
In questo contesto Cuba diventava l’uscita dal portone principale del primo presidente afrostatunitense della storia. Una volta di più, il messaggio che si voleva passare al mondo è che gli Stati Uniti guadagnavano un adepto in più alla causa della democrazia. Di nuovo si utilizzava il racconto – tante volte diffuso dalle pellicole di Hollywood – della crociata di un individuo nella lotta per la libertà.
Appena poche ore dopo la sua partenza dall’isola, si può concludere che il risultato della sua visita è stato piuttosto disuguale. L’atto programmato di maggior rilievo – al di là del fatto in sé che un presidente statunitense calpesti il suolo cubano per la prima volta in 88 anni – è stato il suo discorso nel Teatro Alicia Alonso dell’Avana, ritrasmesso in diretta in tutto il paese. E è stato in questo intervento che sono venute alla luce tutte le contraddizioni della politica estera degli Stati Uniti.
Obama sapeva che non si rivolgeva ad un popolo soggiogato da una nomenclatura immobilista e che reclama da decenni libertà, democrazia e progresso. Questa descrizione è una costruzione mediatica ad uso e consumo delle masse statunitensi e, in misura minore, di quelle europee. Era anche cosciente che Cuba è un’eccezione in un ambito geografico segnato dalla più devastante povertà. L’isola occupa il secondo posto nell’Indice di Sviluppo Umano tra i paesi latinoamericani caraibici, superata solo da Panama ma senza la lacerante disuguaglianza della patria di Torrijos. Nell’insieme del continente occupa il quinto posto, davanti a Messico, Colombia o Perù, paesi con un sistema democratico benedetto dalla Casa Bianca.
Di fronte a questa realtà, il presidente nordamericano ha potuto solo vendere le presunte bontà di un formalismo democratico basato unicamente su elezioni, appelli alla potenzialità delle persone ma sempre dal punto di vista individuale – con il suo tradizionale ricorso autoreferenziale all’arrivo di una persona di colore alla Casa Bianca come prova del sogno americano – e un vago concetto di apertura che non ha concretato. Paradossalmente gli applausi più numerosi non sono andati a questa “offerta democratica”, ma al suo consenso per finirla con il blocco economico.
E’ successo che Obama non si è rivolto ad un uditorio – non ai presenti nel teatro, ma all’intero paese che ascoltava le sue parole – ignorante e acritico.
La formazione del popolo cubane affonda le sue radici in un grande lavoro educativo di decenni. Un lavoro educativo inteso non solo come preparazione all’impegno professionale ma anche come formazione di un atteggiamento critico verso la politica e il sociale. Che il popolo cubano chieda cambiamenti è evidente, ma questo accade dagli inizi della Rivoluzione, in un dialogo continuo, a volte trasformato in aspra discussione, tra il popolo e una dirigenza che viene da questo popolo (da qui l’inutilità di porre come esempio dei vantaggi capitalisti il fatto che un afroamericano arrivi ad essere presidente; si tratta di qualcosa che i cubani sanno e sperimentano da sessant’anni). Ciò che i cubani non vogliono è che l’onnipotente vicino imponga loro come devono essere questi cambiamenti e la loro direzione.
L’America Latina ha sperimentato una profonda trasformazione in questo secolo XXI. Seguendo una certa scia cubana, i processi di emancipazione hanno significato la presa di coscienza di grandi frange dei settori popolari, rompendo i sempre ristretti limiti della sinistra politicizzata e intellettualizzata.
I precedentemente diseredati di Venezuela, Ecuador o Bolivia hanno ormai una nozione di quale è la loro condizione di classe e del perché. E l’educazione, nel suo significato più ampio, è stata determinante per questo cambio, assolutamente fondamentale per combattere la battaglia dell’egemonia. Ormai nulla tornerà ad essere uguale nella regione. Può arrivare un’ondata neoconservatrice, si perderanno e si vinceranno elezioni, ci saranno riflussi involuzionisti, ma la correlazione di forze è molto differente di quella dei tempi in cui il capitalismo poteva praticare la politica della terra bruciata.
Nonostante tutte le critiche che le si possono fare, la Rivoluzione Cubana è stata pioniera nella creazione di un nuovo paradigma e la forma in cui ha ricevuto Obama, con cortesia ma senza umiliarsi, riflette la dignità con cui si è comportata in ogni tipo di situazione, dalle più favorevoli alle più avverse.
Obama, da parte sua, iniziò la presidenza con un apparentemente speranzoso discorso al Cairo che poi tradì, e la termina con un discorso che sapeva già fallito in partenza. E’ arrivato cercando quella fotografia storica e se n’è andato con una semplice collezione di cartoline dell’Avana, come un turista sbadato.
E, colmo dei colmi, l’attentato di Bruxelles gli ha rubato l’attenzione mediatica.
(*) Giornalista spagnolo, analista di TeleSur e membro del centro Strategico Latinoamericano di Geopolitica (CELAG); da: rebelion.org; 30.3.2016
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)