Jesùs Arboleya https://lapupilainsomne.wordpress.com
Superata la commozione mediatica generata dalla visita a Cuba del presidente Barack Obama, vale la pena fermarci per analizzare la sostanza dell’evento e le sue circostanze.
Qual è il progetto di Obama per Cuba?
Rispondere a questa domanda richiede che, per prima, ci immergiamo nella sua visione del mondo e della politica che considera più conveniente agli interessi USA.
Obama è un forte sostenitore della cosidetta “dottrina del potere intelligente”, che pianifica l’uso razionale dell’applicazione combinata di tutte le risorse della politica estera USA, si dica la forza militare, la diplomazia e l’influenza economica, adattandoli alle condizioni specifiche di ogni tempo e luogo.
Nel suo caso, questo ha significato dare la preferenza alla trattativa per la risoluzione dei conflitti e, quando questa non ha funzionato, ricorrere più alla sanzione economica o altre risorse di pressione politica, piuttosto che fare uso della violenza militare.
Evitare anche il coinvolgimento diretto delle truppe USA nei conflitti armati locali; promuovere accordi bilaterali e regionali, in particolare nel settore economico, e condurre una politica estera che tenga conto del multilateralismo e il rispetto di alcune regole di ordine internazionale.
Tutto questo in funzione della cura dell’immagine USA verso il resto del mondo e del proiettarla attraverso lo sfruttamento intensivo dei media e delle nuove tecnologie dell’informazione. Alcuni dicono che se Kennedy fu il presidente della televisione, Obama lo è stato di Internet.
Contrariamente a questa logica, sono le forze -ora chiamate neoconservatrice- che credono che la potenza USA non dovrebbe essere limitata da nessun’altra considerazione che non siano gli interessi imperialistici del paese.
Da questo punto di vista, la forza militare è il deterrente principale della politica estera e deve essere utilizzata o essere pronta per il suo uso nella soluzione di quei problemi che potrebbero colpire il dominio USA.
Per i neoconservatori, l’ordine mondiale deve obbedire al riconoscimento della supremazia economica, politica e militare USA, in modo che l’unilateralismo non è altro che la naturale conseguenza dell’asimmetria di poteri.
Entrambe le dottrine sono di lunga data nella storia USA e hanno consumato i dibattiti sulla politica estera del paese. Nonostante le loro differenze di forma, hanno l’analogo obiettivo di cercare di consolidare l’egemonia USA nel mondo. Ciò che si traduce nel proposito di controllare gli altri paesi ed imporre, con le buone o le cattive, la politica USA.
L’origine ideologica di questa proiezione della politica estera bisogna cercarla nella tesi del “destino manifesto” e “l’eccezionalità del popolo USA”, aspetti che illuminano la visione politica delle due parti, e hanno una grande influenza sulla cultura politica del popolo USA.
Come queste correnti non si sono espresse in maniera chimicamente pura – i presidenti più “intelligenti” hanno svolto guerre molto sanguinose, a volte insensate, ed i meno “intelligenti” si sono vestiti da negoziatori, quando così hanno consigliato gli eventi- è difficile stabilire periodizzazioni rigide per quanto riguarda il comportamento della politica estera USA. Tuttavia, è possibile tentare di avvicinarci ad alcune costanti, per descrivere i cicli dove ha prevalso una o altra di queste correnti.
In generale, le politiche più aggressive sono relazionate con momenti di euforia del sistema, in cui prevale l’espansionismo a tutti i costi. I periodi di contesa, al contrario, appaiono più legati all’interesse di mantenere lo status quo, proprio quando falliscono o esauriscono le condizioni che consigliavano le politiche più aggressive.
Anche se il potere militare è stato utilizzato anche come un mezzo per superare la crisi, l’usuale è che i momenti di contesa si riferiscano a casi in cui l’egemonia USA si è vista indebolita. Questa dinamica appare attraversata, e in buona misura determinata dalla complessa situazione interna e gli interessi specifici in competizione per la loro prevalenza nel settore domestico.
Quello che sta accadendo oggi negli USA è che non vi è un consenso sufficientemente ampio nei settori del potere in merito all’adozione di una o l’altra variante, sia sul piano domestico o di politica estera, il che spiega la polarizzazione politica attuale e il peso acquisito dalle cosiddette “correnti anti-sistemiche” nel processo elettorale che si sta svolgendo.
Obama è arrivato al potere nel bel mezzo di una crisi strutturale che comprendeva tutti gli aspetti della vita nazionale e ha dovuto combattere con una sostenuta opposizione conservatrice, che gli ha impedito praticamente di avanzare nelle sue politiche pubbliche, nonostante potrebbe essere considerato uno i presidenti ideologicamente più liberali della storia del paese.
Sono stati anche ridotti alcuni dei suoi obiettivi di politica estera, come la chiusura del carcere di Guantanamo. D’altra parte, sia per pressione o scelta propria, rimangono invariati gli immensi piani militaristi, la realizzazione di progetti sovversivi in varie parti del mondo, soprattutto in America Latina, favorendo le forze di destra che presumibilmente si oppongono alla sua politica, e allo stesso modo si è visto implicato nel sostegno ai gruppi terroristici, in particolare in Medio Oriente.
Inoltre, si è coinvolto in azioni belliche tanto nefaste per gli stessi USA, come la distruzione della Libia ed i problemi causati dalle guerre indiscriminate di George W. Bush sono ancora presenti, anche si sono persino incrementati, creando un clima di instabilità che danneggia tutto il mondo.
A suo favore conta aver ridotto, significativamente, la presenza di truppe USA in contese all’estero -una necessità più interna che di politica estera- ha cercato la soluzione multilaterale di vari conflitti e ha dato la preferenza a negoziati con Stati considerati “avversari” ciò che ha portato benefici alla politica internazionale USA, nonostante l’opposizione dei suoi avversari.
In questa logica si inserisce il caso di Cuba. E’ chiaro quali sono i suoi obiettivi, lui stesso li ha riconosciuti in modo più o meno esplicito, ma il cambiamento di metodo non è il risultato della “buona volontà”, ma indicativo di fattori oggettivi legati al relativo declino dell’egemonia USA.
Come in nessun altro caso, è a Cuba dove Obama ha potuto dispiegare tutti gli attributi della filosofia che guida la sua politica estera e che tanto si adatta alla sua figura. Per Obama risulta molto convincente l’argomento che la vecchia politica ha fallito e che ciò basta per squalificarla. In breve, il “potere intelligente” è definito, esclusivamente, dalla giusta selezione dei metodi da utilizzare al fine di raggiungere i risultati desiderati.
Si parla molto di cambiamenti a Cuba come base del presente e del futuro della nuova politica USA, ma poco si commenta dei cambiamenti che sono dovuti accadere negli USA, affinché Obama abbia potuto incamminare la sua nuova politica verso il paese. Il fatto che un presidente USA si presentasse nell’ “Isola Rossa” in pace, evitando, sin dove a potuto, assumere pretese imperiali, descrive, a sua volta, le caratteristiche della nuova congiuntura.
Il merito di Obama è quello di aver capito i propri limiti e d’agire di conseguenza, senza che ciò comporti alcuna garanzia per il futuro, benché ci offre gli indizi che ci permettono di avvicinarci all’analisi delle tendenze che dovrebbero prevalere nel corso del divenire storico.
Noi cubani, anche, siamo di fronte a fatti oggettivi. Non siamo in grado di decidere ciò che sarà la politica USA verso il paese, pretenderlo sarebbe come cercare di scegliere tra un uragano o un terremoto, la scienza sta nel prepararsi per ciò che viene e saper sfruttare ogni situazione, allo stesso modo agire in funzione dei nostri interessi.
In questo consiste l’opportunità che ci offre ciò che mi piace chiamare l’esistenza di un clima di “coesistenza tra gli opposti”, risultato di una particolare situazione politica che può favorire lo sviluppo della nazione e che non è un piccolo passo nella storia delle relazioni tra i due paesi.
El proyecto de Obama para Cuba
Jesús Arboleya
Superada la conmoción mediática generada por la visita a Cuba del presidente Barack Obama, vale la pena que nos detengamos a analizar la sustancia del acontecimiento y sus circunstancias.
¿Cuál es el proyecto de Obama para Cuba?
Responder a esta pregunta requiere que primero nos adentremos en su visión del mundo y la política que considera más conveniente a los intereses de Estados Unidos.
Obama es un firme partidario de la llamada “doctrina del poder inteligente”, la cual plantea el uso racional de la aplicación combinada de todos los recursos de la política exterior norteamericana, dígase la fuerza militar, la diplomacia y la influencia económica, adaptándolos a las condiciones específicas de cada momento y lugar.
En su caso, ello ha implicado dar preferencia a la negociación para la solución de conflictos y, cuando esto no ha dado resultado, recurrir más a la sanción económica u otros recursos de presión política, antes que hacer uso de la violencia militar.
También evitar el involucramiento directo de tropas norteamericanas en los conflictos bélicos locales; promover acuerdos bilaterales y regionales, especialmente en el área económica, y llevar a cabo una política exterior que tenga en cuenta el multilateralismo y el respeto a ciertas reglas del orden internacional.
Todo ello en función de cuidar la imagen de Estados Unidos hacia el resto del mundo y proyectarla mediante la explotación intensiva de los medios de comunicación masiva y las nuevas tecnologías de la información. Algunos dicen que si Kennedy fue el presidente de la televisión, Obama lo ha sido de Internet.
Contrario a esta lógica, están las fuerzas –ahora denominadas neoconservadoras– que opinan que el poderío norteamericano no debe verse restringido por ninguna otra consideración que no sean los intereses imperialistas de ese país.
Desde esta perspectiva, la fuerza militar constituye el principal disuasivo de la política exterior y debe ser utilizada o estar lista para ser utilizada en la solución de aquellos problemas que pudieran afectar el dominio norteamericano.
Para los neoconservadores, el orden mundial debe subordinarse al reconocimiento de la primacía económica, política y militar de Estados Unidos, por lo que el unilateralismo no es más que la consecuencia natural de la asimetría de poderes.
Ambas doctrinas tienen larga data en la historia estadounidense y han consumido los debates respecto a la política exterior del país. A pesar de sus diferencias de forma, tienen el objetivo similar de pretender consolidar la hegemonía estadounidense en el mundo. Lo que se traduce en el propósito de controlar al resto de los países e imponerles, a las buenas o las malas, la política norteamericana.
El origen ideológico de esta proyección de la política exterior hay que buscarlo en la tesis del “destino manifiesto” y la “excepcionalidad del pueblo norteamericano”, aspectos que iluminan la visión política de los dos bandos, y tienen una enorme influencia en la cultura política del pueblo norteamericano.
Como estas corrientes no se han expresado de manera químicamente pura –los presidentes más “inteligentes” han llevado a cabo guerras muy sangrientas, a veces insensatas, y los menos “inteligentes” se han vestido de negociadores, cuando así lo han aconsejado los acontecimientos– resulta complicado establecer periodizaciones rígidas respecto al comportamiento de la política exterior de Estados Unidos. No obstante, es posible intentar aproximarnos a ciertas constantes, para describir los ciclos donde ha prevalecido una u otra de estas corrientes.
Por lo general, las políticas más agresivas están relacionadas con momentos de euforia del sistema, donde prima el expansionismo a toda costa. Los períodos de contención, por el contrario, aparecen más relacionados con el interés de mantener el estatus quo, precisamente cuando fracasan o se agotan las condiciones que aconsejaban las políticas más agresivas.
Aunque el poderío militar también ha sido utilizado como recurso para superar las crisis, lo usual es que los momentos de contención estén relacionados con circunstancias donde la hegemonía norteamericana se ha visto debilitada. Esta dinámica aparece traspasada, y en buena medida determinada, por la compleja situación interna del país y los intereses específicos que compiten por su prevalencia en el terreno doméstico.
Lo que ocurre en la actualidad en Estados Unidos es que no existe un consenso suficientemente extendido en los sectores de poder respecto a la adopción de una u otra variante, ya sea en el plano doméstico o la política exterior, lo que explica la polarización política existente y el peso adquirido por las denominadas “corrientes antisistémicas”, en el proceso electoral que se lleva a cabo.
Obama llegó al poder en medio de una crisis estructural que abarcaba todos los aspectos de la vida nacional y ha tenido que lidiar con una sostenida oposición conservadora, la cual prácticamente le ha impedido avanzar en sus políticas públicas, a pesar de que pudiera ser considerado uno de los presidentes ideológicamente más liberales de la historia del país.
También se han visto cercenados algunos objetivos de su política exterior, como el cierre de la cárcel en Guantánamo. Por otro lado, ya sea por presiones o convencimiento propio, se mantienen inalterados los inmensos planes militaristas, la realización de proyectos subversivos en diversas partes del mundo, especialmente en América Latina, privilegiando a las fuerzas de derecha que supuestamente se oponen a su política, e igual se ha visto implicado en el apoyo a grupos terroristas, especialmente en el Medio Oriente.
Además, se ha involucrado en acciones bélicas tan nefastas para los propios Estados Unidos como la destrucción de Libia y los problemas originados por las guerras indiscriminadas de George W. Bush siguen presentes, incluso se han incrementado, creando un clima de inestabilidad que afecta a todo el mundo.
A su favor cuenta haber reducido significativamente la presencia de tropas norteamericanas en contiendas en el exterior –una necesidad más interna que de política exterior–, ha intentado la solución multilateral de diversos conflictos y ha dado preferencia a la negociación con Estados considerados “adversarios”, lo que ha reportado beneficios a la política internacional de Estados Unidos, a pesar de la oposición de sus adversarios.
En esta lógica se inserta el caso de Cuba. Está claro cuáles son sus objetivos, él mismo los ha reconocido de forma más o menos explícita, pero el cambio de método no es el resultado de la “buena voluntad”, sino un indicativo de factores objetivos relacionados con el deterioro relativo de la hegemonía norteamericana.
Como en ningún otro caso, es en Cuba donde Obama ha podido desplegar todos los atributos de la filosofía que orienta su política exterior y tanto se ajusta a su figura. Para Obama resulta muy convincente el argumento de que la vieja política ha fracasado y ello basta para descalificarla. En definitiva, el “poder inteligente” se define exclusivamente por la justa selección de los métodos a emplear con vista a alcanzar los resultados deseados.
Mucho se habla de los cambios en Cuba como base del presente y el futuro de la nueva política norteamericana, pero poco se comenta de los cambios que han tenido que ocurrir en Estados Unidos, para que Obama haya podido encaminar su nueva política hacia el país. El hecho de que un presidente de Estados Unidos se presentara en la “Isla Roja” en son de paz, evitando, hasta donde pudo, asumir ínfulas imperiales, describe, por sí mismo, las particularidades de la nueva coyuntura.
El mérito de Obama consiste en haber comprendido sus propios límites y actuar en correspondencia, sin que ello implique garantías respecto al futuro, aunque ofrece las pistas que nos permiten acercarnos al análisis de las tendencias que deben prevalecer en el devenir histórico.
Los cubanos también nos enfrentamos a hechos objetivos. No estamos en condiciones de decidir cuál será la política de Estados Unidos hacia el país, pretenderlo sería como tratar de escoger entre un huracán o un terremoto, la ciencia radica en prepararnos para lo que venga y saber aprovechar cada coyuntura, para igual actuar en función de nuestros propios intereses.
En esto consiste la oportunidad que nos brinda lo que me gusta llamar la existencia de un clima de “convivencia entre contrarios”, resultado de una situación política concreta que puede favorecer el desarrollo de la nación y que no es un paso menor en la historia de las relaciones entre los dos países.