Edmundo García https://lapupilainsomne.wordpress.com
Nell’edizione di questo martedì del nostro programma “La tarde se mueve”, il co-conduttore Eddie Levy, ha riferito in un importante articolo pubblicato lo scorso 2 marzo, nella rivista ‘The Nation’, che si occupa del destino che ha toccato molti dei membri più esperti del giornalismo USA.
L’articolo è stato scritto da Dale Maharidge (Columbia University) ed è intitolato “These Journalists Dedicated Their Lives to Telling Other People’s Stories. What Happens When No One Wants to Print Their Words Anymore?”, e cioè, in breve: cosa accade negli USA con i giornalisti che dopo aver dedicato tutta la loro vita a questa professione, non trovano posto per continuare a pubblicare. La risposta è triste; a giudicare da quello che dice l’articolo in “The Nation” e anche da quello che abbiamo visto nelle notizie nazionali e osservando da vicino a Miami.
Maharidge confessa che mentre indagava la situazione dei giornalisti allontanati dal loro lavoro, ha ricordato l’opera di “Death of a Salesman” (Morte di un commesso viaggiatore), di Arthur Miller; perché la perdita del posto di lavoro può comportare la dislocazione del senso della realtà, specialmente quando si raggiungono i 60 anni.
Nella vita lavorativa USA, dei giornalisti, in questo caso, vi è un momento difficile che inizia al vertice delle loro facoltà e si sentono pronti a dare il meglio della loro esperienza; mentre che i responsabili economici della società hanno iniziato a pensare esattamente il contrario, su come sbarazzarsi di loro, distanziandoli o cambiandoli per un giovane disposto a lavorare per salario più basso, con i minimi benefici.
Molti veterani del giornalismo USA sono dovuto diventare impiegati di ufficio, in correttori senza voce delle nuove “stelle giornalistiche” o tentare con l’opzione come “freelancer”; che tutto ciò che ha di “libero”, nel capitalismo d’oggi è la “caduta”.
Per salvarsi, alcuni si sono rivolti a Internet; sia per impiegare accidentalmente il tempo o per rispondere come autisti di Uber, quella società che coordina i conducenti privati per fornire un servizio di taxi a buon mercato. Coloro che hanno avuto un po ‘più di fortuna e hanno trovato un lavoro che gli consente di mantenere un livello di vita simile a quello che vivevano, generalmente, sono stati in posti di lavoro che non hanno nulla a che fare con il giornalismo, ciò che implica la frustrazione professionale.
Non è strano vedere alla televisione nazionale e alla televisione di Miami ex giornalisti e professionisti dei media che annunciano i risultati miglioratori di prodotti e trattamenti dei più inverosimili.
Perdere il lavoro è, negli USA, più devastante che altrove, poiché significa anche la perdita della tranquillità sociale, di una casa che non si finisce di pagare mai e che veramente non è sara e non sarà tua, dell’assicurazione, della scuola dei figli, diverse in termini di qualità una dall’altra. Questo ed altro accade ai giornalisti “in pensione” forzata, senza nemmeno potere accedere al pagamento della previdenza sociale.
Questa sostituzione affrettata dei giornalisti di esperienza, con giovane e inesperti, è una delle cause della mancanza di qualità del giornalismo attuale; e della quasi scomparsa del giornalismo investigativo. Perché ciò che viene erroneamente chiamato oggi “giornalismo investigativo”, come questi delle Carte di Panama, di solito sono “likeos” provocati dalle agenzie governative per perseguire qualche obiettivo politico. Come disse Alvaro Fernandez (Direttore di Progreso Semanal e Progreso Weekly) ieri, mercoledì, in “La tarde se mueve”, i grandi mezzi di comunicazione diventano recettori di questi “likeos” d’informazione, senza sapere che essi sono anche parte del problema, di quella corruzione dell’istituzioni che disonora il mondo di oggi.
La catastrofe che ciò ha prodotto nella vita personale dei giornalisti è stata tale, che Dale Maharidge, dedica parte dell’articolo a descrivere quanto fosse difficile intervistarli. Alcuni dei partecipanti si sono sentiti danneggiati al dover ricordare, ed in parte rivivere, la loro disgrazia. Qualcuno dice sconsolato: “Mai ho pensato che sarebbero scomparsi i giornali”; o dover vivere sotto un albero, o in un campeggio vicino al deserto. Dalla statistiche presse dall’Università Internazionale della Florida (UIF) e della Società Americana degli Editori, è noto che nel 2007 c’erano 55000 giornalisti a tempo pieno in quasi 1400 giornali; ma nel 2015 sono rimasti 32900. E le cifre sono peggiori, poiché non includono i licenziamenti verso la fine del 2015 (in modo che sicuramente non è stato possibile includerlo per l’articolo) ne Los Angeles Times, The Philadelphia Inquirer, New York Daily News, ecc, e in riviste come National Geografichic.
Alcuni giornalisti hanno presentato ricorso legalmente a queste decisioni, ma non hanno potuto vincere. Addirittura, ad alcuni è andato anche peggio, perché hanno sofferto i dubbi sulla loro competenza professionale, all’usarsi, contro di loro, l’argomento “culturale” che sono membri della vecchia scuola; che è, come alcuni cinici, chiamano il rigore.
Condivido che la critica al sistema attuale del giornalismo USA si estende a una critica del sistema in generale, poiché dietro a tutto appare la stessa procedura; quella che consiste nel succhiare alle persone il meglio che hanno e poi gettarle alla spazzatura. Qualcosa di inumano, soprattutto, quando si tratta di un sistema che qualcuno vorrebbe proporre come modello ad altri paesi del mondo.
Experimentados periodistas en EEUU terminan como novatos taxistas
Edmundo García
En la edición de este martes de nuestro programa “La tarde se mueve”, el copresentador Eddie Levy refirió un importante artículo publicado el pasado 2 de marzo en la revista The Nation que trata sobre el destino que ha tocado a buena parte de los miembros más experimentados del periodismo en los Estados Unidos. El trabajo es de la autoría de Dale Maharidge (Columbia University) y se titula “These Journalists Dedicated Their Lives to Telling Other People’s Stories. What Happens When No One Wants to Print Their Words Anymore?” Es decir, resumiendo: qué pasa en Estados Unidos con los periodistas que después de dedicar su vida entera a esa profesión, no encuentran sitio para seguir publicando. La respuesta es triste; a juzgar por lo que dice el artículo en The Nation y también por lo que hemos visto en las noticias nacionales y observado de cerca en Miami.
Maharidge confiesa que mientras investigaba la situación de periodistas separados de su trabajo, recordó la obra “Death of a Salesman” de Arthur Miller; porque la pérdida del empleo puede implicar la dislocación del sentido de la realidad, sobre todo cuando se alcanzan los 60 años.
En la vida laboral en Estados Unidos, de los periodistas en este caso, existe un momento difícil que comienza en la misma cúspide de sus facultades y se sienten listos para dar lo mejor de su experiencia; mientras que los gerentes económicos de la empresa han empezado a pensar precisamente en lo contrario, en cómo deshacerse de ellos, distanciándolos o cambiándolos por un joven dispuesto a trabajar por un salario menor, con el mínimo de beneficios.
Muchos veteranos del periodismo norteamericano han tenido que convertirse en trabajadores de oficinas, en correctores sin voz de los nuevos “periodistas estrellas” o intentar con la opción de “freelancer”; que lo único que tiene de “libre” en el capitalismo de hoy es la “caída”.
Para salvarse, algunos han recurrido a Internet; ya sea para emplear azarosamente el tiempo o para responder como choferes de Uber, esa compañía que coordina a los conductores particulares para ofrecer servicio de taxi barato. Los que han tenido un poco de más suerte y han encontrado un trabajo que le permite mantener un nivel de vida semejante al que llevaban, generalmente ha sido en empleos que no tienen que ver con el periodismo, lo que implica la frustración profesional.
No es extraño ver en la televisión nacional y en la televisión de Miami a antiguos periodistas y profesionales de los medios anunciando los sanativos resultados de los productos y tratamientos más inverosímiles.
Perder el empleo es en Estados Unidos más demoledor que en otros lugares, pues implica además la pérdida de la tranquilidad social, de una casa que no se termina de pagar nunca y que verdaderamente ni fue ni será tuya, de los seguros, de la escuela de los hijos, tan diferentes en su calidad unas de otras. Esto y más sucede a los periodistas “retirados” forzadamente, sin tener aún acceso al pago de la seguridad social.
Esta sustitución apresurada de los periodistas de experiencia por jóvenes inexpertos, es una de las causas de la falta de calidad del periodismo actual; y de la casi desaparición del periodismo de investigación. Porque lo que erróneamente se llama hoy “periodismo de investigación”, como estos Papeles de Panamá, suelen ser “likeos” propiciados por agencias gubernamentales para perseguir algún objetivo político. Como dijo Álvaro Fernández (Director de Progreso Semanal y Progreso Weekly) ayer miércoles en “La tarde se mueve”, los grandes medios se hacen receptores de estos “likeos” de información, desconociendo que ellos son también parte del problema, de esa corrupción de las instituciones que deshonra al mundo actual.
La catástrofe que todo esto ha producido en la vida personal de los periodistas ha sido tal, que Dale Maharidge dedica parte del artículo a describir lo difícil que fue entrevistarlos. Algunos de los participantes llegaron a sentirse dañados al tener recordar y en parte revivir su desgracia. Alguien comenta con desaliento: “Nunca pensé que iban a desaparecer los periódicos”; o tener que vivir bajo un árbol, o en un campismo cerca del desierto. A partir de estadísticas de la Universidad Internacional de la Florida (FIU) y de la Sociedad Americana de Editores, se sabe que en el año 2007 existían 55,000 periodistas a tiempo completo en casi 1,400 diarios; pero en el 2015 quedaban 32,900. Y las cifras son peores, pues no incluyen los despidos hacia finales del 2015 (por lo que seguro no se pudo incluir para el artículo) en Los Angeles Times, The Philadelphia Inquirer, New York Daily News, etc., y en revistas como National Geographic.
Algunos periodistas han apelado legalmente estas decisiones, pero no han podido ganar. Incluso algunos salieron peor, pues sufrieron la duda sobre su competencia profesional, al emplearse contra ellos el argumento “cultural” de que son miembros de la vieja escuela; que es como algunos cínicos llaman al rigor.
Comparto que la crítica al sistema actual del periodismo en EEUU se extiende a una crítica al sistema en general, pues detrás de todo aparece el mismo procedimiento; ese que consiste en chuparle a las personas lo mejor que tienen y después tirarlas a la basura. Algo inhumano sobre todo tratándose de un sistema que algunos quieren proponer como modelo a otros países del mundo.