Geraldina Colotti – il Manifesto (9 aprile)
Per gli Stati uniti, il Venezuela bolivariano è «una minaccia inusuale e straordinaria»: la minaccia dell’esempio.
Maduro come Lenin? Maduro come il marinaio bolscevico Zelezniakov che sciolse l’Assemblea Costituente per accelerare il corso della rivoluzione d’Ottobre? «La guardia è stanca, spegnete le luci», disse il marinaio, interpretando il volere di Lenin.
Così si poteva pensare leggendo ieri la notizia d’agenzia: «Maduro chiude il Parlamento». Che poi la notizia fosse stata estrapolata da una frase pronunciata dal costituzionalista Escarra (che non è sempre stato chavista) nell’ambito di una discussione sullo scontro di poteri in corso nel paese, al lettore non era dato sapere.
Ancor meno emergeva il fatto che il costituzionalista, molto presente nei dibattiti dopo la vittoria delle destre in Parlamento, avesse detto che, qualora l’opposizione volesse votare leggi retroattive per abbreviare il periodo del mandato presidenziale truffando gli elettori, come ha promesso di fare, anche il presidente ha fra le sue prerogative quella di accorciare il mandato dei deputati, in base alla costituzione.
Dichiarazioni emerse dopo l’approvazione dell’amnistia che farebbe uscire dal carcere golpisti e faccendieri, rigettata da oltre 2 milioni e 500.00 firme. Le leggi finora approvate dalle destre e quelle in cantiere mirano a riportare il paese ai “fasti” del neoliberismo come sta facendo Macri in Argentina, e si fanno beffe del fatto che il meccanismo costituzionale, in Venezuela, si basa sull’equilibrio di cinque poteri, di cui è al centro il Tribunal Supremo de Justicia. La legge consente di indire un referendum di revoca di tutte le cariche a metà mandato, sempreché si raccolgano le firme del 20% degli aventi diritto al voto. Ma le destre hanno fretta di rispondere ai loro padrini e le leggi vogliono cambiarle.
Di motivi per essere stanca di una destra pasticciona e spocchiosa, golpista e affarista, che ha vinto la maggioranza in parlamento a seguito di un sabotaggio feroce (e anche per demeriti del campo avverso), la «guardia bolivariana» ne avrebbe tuttavia parecchi. E una grossa fetta di movimenti e organizzazioni popolari – sia fra quelli che hanno appoggiato con il 46% dei voti il Partito socialista unito del Venezuela (PSUV, il più grande del paese), sia fra quelli che gli hanno riservato un «voto-castigo» o l’astensione lo scorso 6 dicembre – senza dubbio spinge per accelerare la «rivoluzione».
Ma, intanto, personaggi come il presidente del Parlamento venezuelano, Ramos Allup (che è anche vicepresidente dell’Internazionale socialista), non valgono neanche un’unghia dei Martov e dei menscevichi che proponevano una linea parlamentare per l’Urss di allora. Il partito di Allup, Accion Democratica (Ad), un tempo è stato di centrosinistra, e ha gestito gli anni della IV Repubblica in un’alternanza di potere con il centro-destra COPEI: un balletto sancito da Washington dopo la cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez (23 gennaio 1958), che avrebbe potuto dare il potere a un’alleanza gestita dal Partito comunista, che invece venne escluso dal gioco politico.
Nel 1998, Chavez ha raccolto l’eredità di quella «resistenza tradita» che in molti avevano voluto riscattare anche con le armi (nel Venezuela “democratico”, primo a buttare gli oppositori dagli aerei, è scoppiata la prima guerriglia latinoamericana, dopo la rivoluzione cubana).
L’irruzione del progetto bolivariano (un’alchimia fra nazionalismo latinoamericano, socialismo gramsciano, Teologia della Liberazione, femminismo e democrazia partecipata) e l’Assemblea costituente che ha prodotto la Carta magna bolivariana con l’apporto di tutti i settori sociali, ha riconfigurato termini e categorie in base agli indirizzi e ai referenti concreti: da una parte un progetto di paese che, in pochi anni, ha tirato fuori dalla miseria e dall’analfabetismo persone che prima non avevano né mezzi né voce; dall’altra, un agglomerato litigioso e rancoroso che ha risposto con i colpi di stato e con l’ossessione di riprendersi i propri privilegi cacciando prima Chavez e poi l’insopportabile ex operaio del metro, Nicolas Maduro.
Un progetto che ha spaccato alleanze e partiti, ricreando una nuova sinistra con nuove modulazioni. Un disegno che ha portato a sintesi le istanze più avanzate emerse dai movimenti «altermondialisti» di Porto Alegre dove, non a caso, Chavez è stato allora sempre invitato. Movimenti che da allora non sono più contorno ai grandi vertici, ma determinano le proposte dei presidenti che si richiamano al «socialismo del XXI secolo» (formula utilizzata per riscattare tutto il buono del grande Novecento e seppellirne le zavorre).
Un progetto che tende verso una nuova muta, e che sta dando qualche spinta persino a chi vuole trovare la strada del cambiamento anche in Europa: ma che non assomiglia alle rivoluzioni novecentesche, non avendo messo fuori legge le classi dominanti che, per questo, continuano a sabotare dall’interno «la transizione al socialismo», e che vorrebbero provocare una guerra civile. Per gli Stati uniti, il Venezuela bolivariano è «una minaccia inusuale e straordinaria»: la minaccia dell’esempio.