Joel García http://www.cubadebate.cu
C’è più di una generazione di cubani che non lo vide correre, quel luglio 1976 ai Giochi Olimpici di Montreal, però, il suo nome, la leggenda sportiva tessuta e la narrazione immortale del presentatore, fanno parte della storia di questa nazione. Alberto Juantorena Danger non solo fu protagonista di una irripetibile doppione d’oro, in quell’appuntamento canadese, unica in questo caso ma anche “entrò col cuore” nella memoria del suo popolo.
Per più di due ore, l’attuale titolare della Federazione Cubana di Atletica e presidente del Comitato Paraolimpico Cubano, ha parlato della sua infanzia, gioventù e l’interiorità di quell’impresa, mentre mostrò una precisione esatta su dati, date, tattica impiegata e l’ambiente che circondò le due corone olimpiche.
Chiarita la data reale di nascita: 21 novembre 1950 a Santiago di Cuba – e non l’11 di quel mese o il 3 dicembre come riportano alcune biografie per il mondo – il dialogo fluì come un’altra corsa dei 400 o 800 metri.
Parliamo prima di quell’infanzia di cui così poco si sa.
“Ero un ragazzo normale, ma un pò birichino; lanciavo pietre, rubavo mango e facevo cose cattive. Sì, molto solidario e quando correvo nessuno poteva battermi. Una volta, un amico Alexis Cue (deceduto), non aveva un paio di scarpe e, poiché io ne avevo due andai a casa sua e gliene regalai uno. Mio padre, invece di rimproverarmi, mi disse, hai fatto bene, bisogna sempre condividere ciò che si ha. Quello era il mio seno famigliare, molto umile ed educato, con valori enormi, un concetto molto di quartiere e di magnifiche relazioni interpersonali”.
Cosa successe a casa tua il 1 gennaio 1959?
“Ci fu un’enorme gioia. Mio padre era nel Movimento 26 luglio e ricordo, da bambino, che un giorno venne la polizia di Batista e lo portarono via, prigioniero. Mio cugino, Andrès Juantorena, fu combattente in clandestinità. Davanti a casa mia, lì a Santiago de Cuba, c’era la Scuola di Arti e Mestieri e c’erano sempre le guardie. Ed a noi richiamò potentemente l’attenzione che questa fosse presa dall’esercito ribelle quando entrò Santiago.
Avevo 9 anni, ma avevo coscienza del trionfo rivoluzionario, dell’euforia, della gioia, di come si parlava di Fidel, di come si parlava di un cambiamento sociale, di un cambiamento politico”.
Tuttavia, anche se nessuno ti batteva nella corsa, l’arruolamento nello sport avvenne nel basket.
“Ero il più alto del gruppo. Ed inoltre, ricorda che è più facile dedicarsi ad uno sport collettivo che ad uno individuale. Il modello d’ ispirazione nell’atletica, per me, si chiamava Enrique Figuerola, che era molto popolare ed anche santiaguero. Nella scuola dove studiavo si praticavano molti sport. Il professor Evangelio Prada mi insegnò basket, pallavolo e nuoto.
Che tipo di sistema competitivo! Ci portavano a giocare contro altri centri, e quando lo feci in una seconda categoria di basket, a Pinar del Rio, mi presero per una preselezione a L’Avana. Aveva circa 18-19 anni. Tuttavia, le mie prime medaglie furono in atletica, quando vinsi 600 e i 1200 nei Giochi Scolastici regionali. Nel basket fui campione nazionale nel 1971. Da qualche parte ci sono le foto”.
E nello stesso anno lascia il mondo dei canestri.
“Mi tolsero per bassa qualità tecnica. In realtà ero molto forte, grintoso, ma non avevo le condizioni né ero meglio che i membri di quel gruppo: Urgelles, Ruperto e molti altri. Naturalmente, ogni volta che nel basket facevamo sezioni di velocità e 400 metri, non c’era chi mi battesse. L’allenatore Jorge Salazar diceva: vieni qua ragazzo, tu sarai campione del mondo e campione olimpico”.
Ed avvenne grazie ad un elettrizzante progresso e l’allenatore polacco Zygmunt Zabierzowski.
“Quando Zabierzowski mi vide per la prima volta, mi ordinò di alzare la camicia ed al vedere la lunghezza delle gambe disse, ragazzo tu hai talento. Mi fecero una prova sui 500 metri e con scarpe da basket segnai 1:06.05 minuti. Il polacco era di assistenza tecnica a Cuba e, guarda, si progredì rapidamente che giunsi al Cerro Pelado, nel 1971, ed un anno dopo arrivai quinto in una delle semifinali dei Giochi Olimpici di Monaco 1972, nei 400 metri, con 45.09. Ciò era dovuto al sistema di allenamento ma anche, per la parte che mi riguardava, avevo consacrazione, disciplina, dedizione totale e fiducia assoluta fiducia.
“Non possiamo dimenticare che quegli allenatori del campo socialista ci insegnarono la teoria e metodologia dell’allenamento sportivo, ma non eravamo stupidi, abbiamo imparato e abbiamo creato la nostra propria scuola, ed anche, in alcuni casi, siamo arrivati ad essere migliori che i professori come nella pallavolo e boxe”.
Oro nell’Universiade Mondiale del 1973, ma l’argento nei Giochi Panamericani del 1975. Luminosità e lesioni, il tutto nel preludio dei Giochi Olimpici di Montreal.
“Il fatto d’iniziare vincendo nel 1973 a Mosca e finire lì la mia carriera, ai Giochi dell’Amicizia 1984, ha un enorme simbolismo, poiché i sovietici erano tra i migliori corridori del mondo, a quel tempo. Fui detentore del record mondiale, bicampione olimpico, ma mai campione panamericano. Soffrii due operazioni del mal de Morton, nel dicembre 1974 e gennaio 1975, per cui non arrivai in forma sportiva a quella competizione continentale del Messico. Tuttavia,corsi in 44.80, dietro lo statunitense Ronald Ray (44.45)”.
Come e quando si decide la possibilità di correre entrambi gli eventi, 400 e 800 a Montreal?
“Il polacco aveva pensato a tutto. E ciò ebbe inizio quando in Italia feci 1:45.36, aiutando Luis Medina e Leandro Civil, che cercavano il minimo olimpico, vale a dire la classificazione. Allora Zabierzowski mi mandò un messaggio con Lazaro Betancourt (capo tecnico di atletica) e Figuerola (allora presidente della Federazione Cubana), in cui spiegava la sua tesi di correre sulle due distanze. Quando me lo dissero feci un salto paragonabile al record di Sotomayor e li mandai a quel paese.
“Poi si sedettero tutti con me e mi mostrarono tutte le varianti e parametri. Pensai e mi dissi: ho possibilità. ll polacco disse: sarà l’unico tipo al mondo che vincerà 400 e 800, ma ebbero quattro mesi per ammaliarmi con l’idea.
“In quei giorni feci 1:45.17 (minimo olimpico). Poi in Ostrava e Brastilava accettai competere nei 400 e 800 lo stesso giorno. E battei tutti i corridori. Poi corsi solo nel Pedro Marrero e feci 1:44.70. Allora mi dissi; il polacco ha ragione, io posso farcela. Questa è la vera storia”.
Che ragionamento o piano progettò il polacco, soprattutto per gli 800, in cui tu avevi meno esperienza?
“Aveva una strategia e fece il seguente schema (disegna su un foglio la pista d’atletica e commenta). Mi disse: “se tu passi da qui a meno di 51 secondi (segna il punto sugli ultimi 300 metri, dove tutti i corridori di 800 e 1500 passano a 52), vai a bruciare il tenore di resistenza degli avversari. Quindi, se tu vai nessuno può batterti, poiché sono 2 metri e 74 centimetri di falcata”.
“Quando guarda il video, vedrai che alzo da qui (segnala) e Wohlhuter si pone parallelamente a me. Corse 830 metri e per questo uccide Van Damme al traguardo. Infine passai per dove m’indicò il polacco a 50.86 ed io avevo 44.70 come miglior tempo nei 400 metri, quindi guarda il capellone, il tipo di vantaggio che avevo sul resto. Il tempo finale 1:43.50 (record olimpico) e quella tattica di corsa fece a molti dire che gli 800 diventarono una corsa di velocità piuttosto che un mezzo fondo, che era molto vero”.
Ma l’impresa si completò con l’oro nei 400 metri.
“L’unico che ha gareggiato in un programma completo nei Giochi Olimpici sono stato io. Dal primo all’ultimo giorno, compreso la staffetta. Il cameraman mi diceva: good morning every day. E nel pomeriggio, mi diceva: good afternoon every day. Il 28 luglio fu la finale dei 400. La tattica degli statunitensi fu passare da qui (indica ancora una volta un punto intermedio nella pista) a 21 secondi piano, ma il polacco mi aveva avvertito: aspettare, mettiti a metà, non mordere. Tra l’altro, lui mai fu allo stadio perché diceva: “ragazzo, tutto è fatto, io sto tranquillo in camera.
Loro giocarono il vantaggio della fatica. Dicevano, Juantorena deve essere stanco, “non è Superman” ripetevano. Tuttavia, passai a 21,7 (segna il luogo nella pista) e nei 300 metri Newhousen uscì tre metri più avanti. Allora alzai il ritmo e negli ultimi 50 metri accelerai. Feci 44.26, miglior tempo al mondo a livello del mare, nonostante stessi correndo ogni giorno”.
Perché si considera tanto irripetibile quella medaglia d’oro?
“E’ molto difficile trovare un solo organismo che possa concepire nella sua propria fisiologia, nella sua propria psicologia, sottoporsi ad uno sforzo tanto grande, in cui uno consuma tutte le risorse individuali ed interne che sono i 400, mentre negli 800 tu ti ossigeni. Trovare ciò in una sola persona e avere la capacità psicologica di sottoporti a tale “punizione” non è facile. C’è una cosa che si chiama paura dell’ignoto. E questo avvenne a me”.
Quale corridore hai visto con più condizioni per poter uguagliare, un giorno, quell’impresa?
“Uno di quelli che più si avvicinò era Joaquin Cruz, il brasiliano poiché aveva un buon 400 e arrivò ad essere recordman mondiale degli 800. Se Usain Bolt si decide può essere che lo faccia nei 200 e 400, ma non credo che salga fino agli 800. Deve essere un fuori classe come Bolt”.
Nei Giochi Mondiali Universitari del 1977, a Sofia, arrivò il record del mondo negli 800. Quale curiosità ebbe quell’evento?
“Prima di competere dissi a Alejandro Casañas: domani batteremo il record mondiale. Io il mio e tu il tuo. E Casañas, che era grintoso, accettò la sfida. Facemmo un documento ufficiale che diceva questo, lo firmiamo, e lo mettiamo in un cassetto. Il 21 agosto realizzai 1:43.44. Corsi praticamente cercando solo quel cronometraggio. Quando terminai fui al campo di allenamento e gli mostrai la mia medaglia d’oro ed il record. Ora tocca a te. E l’ottenne: 13.21 nei 110 ad ostacoli. La conferma sta qui in questo articolo (mostra un ritaglio di giornale gelosamente custodito in cui si legge un titolo: I profeti). Queste cose dovremmo raccontarle ai giovani”.
Influenzò la morte del coach polacco Zabierzowski nei tuoi successivi risultati ?
“No. Avevo 27 anni e solo dovevo continuare il lavoro, che fu quello che feci con l’allenatore Jorge Cumberbatch. Ma soffrii molti infortuni ed interruzioni tecniche per le quattro operazioni che mi praticarono nei piedi: frattura del tendine d’Achille, due tumori rimossi e una frattura del tendine esterno della caviglia. Il Dr. Alvarez Cambras è il riparatore dei sogni ed è la persona che rese possibile che questa macchina camminasse. La mia eterna gratitudine non solo come medico, ma come uomo, amico e per la sua fedeltà alla Rivoluzione”.
Impossibile non chiedere l’impresa della staffetta 4×400 dei Giochi Centro Americani e dei Caraibi Avana 1982, quando prese il testimone con una differenza di 30 metri all’ultimo cambio e vinse ampiamente.
“Lì gareggia solo negli 800 e la staffetta 4×400 per un semplice motivo. Nei 400 era molto difficile che potessi vincere un portento come il giaimaicano Bert Cameron, che era il migliore al mondo. Dominai i due giri dell’ovale, ma il giorno della staffetta era il compleanno di Fidel. Mi incontrai con Carlos Reite, Roberto Ramos e Agustin Pavo e gli dissi andiamo a regalargli, al Comandante, la medaglia d’oro.
Cosa fecero i giamaicani? Giocare il vantaggio del miglior uomo. Misero Cameron come terzo e passò il testimone per l’ultimo cambio con enorme vantaggio. Ciò che loro mai immaginarono che con 30 metri di svantaggio, gli si andava a togliere più di 10 alla fine.
“Per la gratitudine ed il rispetto che ho per Fidel e il popolo cubano non potevo fare a meno di regalargli tale medaglia. Era un impegno personale e dovevo risolverlo, perché chi mise “il diavolo” in corpo ai ragazzi fui io. E lo fecero con molto amore, i tre corsero con tutte le loro forze”.
Qualche aneddoto particolare con Fidel?
“Fidel è un maestro perché lo fa a partire dal suo esempio personale. Nello sport fu giocatore di basket, baseball, nuotatore, tiratore e corridore degli 800. Ho visto una foto in cui vinceva una finale degli 800 metri, nel 1946. Me l’ha firmata con il seguente testo: per Juantorena, nel momento in cui poteva competere con me, ma non era ancora nato.
“Mi ricordo che nel 1976 ricevette Stevenson e me. Parlò dell’impatto che abbiamo sul popolo, di come molte persone volevano seguire le nostre orme, di come dovremmo aver cura di quella parte umana dell’impatto sulla popolazione, sulla gioventù.
Un giorno mi fece una critica sulla mia forma fisica perché ero un po’ grasso. Tu devi curare la tua figura, che la gente veda sempre che stai bene. Queste cose umane sono uniche”.
Come convive, Juantorena, con la fama e la popolarità?
“Sono un tipo così naturale che per me la fama non esiste. Il concetto di fama più definito me lo diede Zabierzowski, che fu guerrigliero e divenne colonnello della resistenza polacca. Diceva che la fama, nel nostro sistema sociale, non era per trarre profitto o benefici. Tutto il contrario. Era per condividerlo, umilmente, con il popolo, che è il creatore di tutte le virtù del movimento sportivo.
“Non sono un uomo perfetto, sono impulsivo, molto irriflessivo, ma ogni volta che faccio un errore cerco di sanarlo. Non sono un alieno, ma uno dei tanti esseri umani. Ecco come mi sento”.
Abbiamo preferito estendere, questa intervista, oltre l’evento di Montreal 1976, di cui si compiranno presto i 40 anni. Migliaia di cubani non conoscevano questi particolari. Un qualche commento finale per loro?
“Mi dà enorme gioia quando i bambini e i giovani che non mi videro correre mi salutano e mi riconosco perché i loro genitori hanno raccontato o visto la ripetizione delle mie gare in televisione. A loro solo li ringrazio con lo stesso cuore con cui Hector Rodriguez descrisse quella gara. E spero possa seguirli convinto che la cosa più bella che c’è è un’attività sportiva sana ed educativa. Questo promuove la nostra nazionalità e l’amore per la Rivoluzione”.
A 40 años del doblón olímpico: Juantorena habla con el corazón
Hay más de una generación de cubanos que no lo vio correr aquel mes de julio de 1976 en los Juegos Olímpicos de Montreal, sin embargo, su nombre, la leyenda deportiva tejida y la narración inmortal del locutor, forman parte de la historia de esta nación. Alberto Juantorena Dánger no sólo protagonizó un doblón dorado irrepetible en aquella cita canadiense, sino también “entró con el corazón” en la memoria de su pueblo.
Por más de dos horas, el actual titular de la Federación Cubana de Atletismo y presidente del Comité Paralímpico Cubano, conversó sobre su infancia, juventud y las interioridades de aquella hazaña, a la vez que mostró una precisión exacta en datos, fechas, táctica empleada y ambiente que rodeó ese par de coronas.
Aclarada la fecha real de su nacimiento: 21 de noviembre de 1950 en Santiago de Cuba —y no el 11 de ese mes o el 3 de diciembre como reflejan algunas biografías por el mundo—, el diálogo fluyó cual otra carrera de 400 u 800 metros.
Hablemos primero de esa infancia que se sabe tan poco.
“Era un muchacho normal, pero un poco bellaco; tiraba piedra, robaba mangos y hacía maldades. Eso sí, muy solidario y cuando corría nadie podía ganarme. Una vez, un amigo Alexis Cue (fallecido), no tenía un par de zapatos y como yo tenía dos me aparecí en su casa y le regalé uno. Mi papá, en lugar de regañarme, me dijo: hiciste bien, hay que compartir siempre lo que se tiene. Ese era mi seno familia, muy humilde y educado, con valores tremendos, un concepto muy de barrio y de magníficas relaciones interpersonales”.
¿Qué pasó en su casa el 1 de enero de 1959?
“Hubo una alegría tremenda. Mi papá estaba en el Movimiento 26 de julio y recuerdo, de pequeño, que un día vino la policía de Batista y se llevaron preso. Mi primo Andrés Juantorena fue combatiente de la clandestinidad. Frente a mi casa, allá en Santiago de Cuba, estaba la Escuela de Artes y Oficios y ahí siempre había guardias. Y a nosotros nos llamó poderosamente la atención que eso fue tomado por el Ejército Rebelde cuando entró en Santiago.
Tenía 9 años, pero tenía conciencia del triunfo revolucionario, de la euforia, la alegría, de cómo se hablaba de Fidel, de cómo se hablaba de un cambio social, de un cambio político”.
Sin embargo, aunque nadie le ganaba corriendo, la captación para el deporte llegó en baloncesto.
“Era el más alto del grupo. Y además, recuerda que es más fácil dedicarse a un juego colectivo que al deporte individual. El modelo de inspiración en el atletismo para mí se llamaba Enrique Figuerola, que era muy popular y santiaguero también. En la escuela donde estudiaba se practicaban muchos deportes. El profesor Evangelio Prada me enseñó baloncesto, voleibol y natación.
¡Qué clase de sistema competitivo! Nos llevaban a jugar contra otros centros y cuando lo hice en una segunda categoría de baloncesto en Pinar del Río me captaron para una preselección en La Habana. Tendría unos 18-19 años. No obstante, mis primeras medallas fueron en atletismo, cuando gané 600 y 1200 en los Juegos Escolares regionales. En baloncesto fui campeón nacional en 1971. Por ahí andan las fotos”.
Y ese mismo año deja el mundo de las canastas.
“Me sacaron por baja calidad técnica. En realidad era muy fuerte, guapo, pero no tenía las condiciones ni era mejor que los integrantes de ese grupo: Urgellés, Ruperto y muchos más. Eso sí, cada vez que dentro del baloncesto hacíamos tramos de velocidad y 400 metros no había quien me pusiera un pie delante. El entrenador Jorge Salazar decía: ven pa´acá muchacho, tú vas a ser campeón mundial y olímpico”.
Y sucedió gracias a un electrizante progreso y al entrenador polaco Zygmunt Zabierzowski .
“Cuando Zabierzowski me vio por primera vez, me mandó a levantar la camisa y al ver el largo de las piernas dijo: chico, tú tienes talento. Me hicieron una prueba de 500 metros y con zapato de baloncesto marqué 1:06.05 minutos. El polaco estaba de asistencia técnica en Cuba y fíjate si progresé rápido que llegué al Cerro Pelado en 1971 y un año más tarde terminé quinto en una de las semifinales de los Juegos Olímpicos de Munich 1972 en 400 metros con 45.09. Eso se debía al sistema de entrenamiento, pero también, en la parte que me tocaba, había consagración, disciplina, entrega total y confianza absoluta.
“No podemos olvidar que esos entrenadores del campo socialista nos enseñaron la teoría y metodología del entrenamiento deportivo, pero no fuimos bobos, aprendimos y creamos nuestra propia escuela, incluso en algunos casos llegamos a ser mejores que los profesores como en voleibol y boxeo”.
Oro en la Universiada Mundial de 1973, pero plata en los Juegos Panamericanos de 1975. Brillo y lesiones, todo eso en la antesala de los Juegos Olímpicos de Montreal.
“El hecho de empezar ganando en 1973 en Moscú y terminar allí mi carrera, en los Juegos de la Amistad 1984, tiene un simbolismo tremendo, pues los soviéticos eran de los mejores corredores del mundo en esa época. Fui recordista mundial, bicampeón olímpico, pero nunca monarca panamericano. Sufrí dos operaciones de mal de Morton en diciembre de 1974 y enero de 1975, por lo cual no llegué en forma deportiva a esa cita continental de México. No obstante, corrí 44.80, detrás del estadounidense Ronald Ray (44.45)”.
¿Cómo y cuándo se decide la posibilidad de correr los dos eventos, 400 y 800 en Montreal?
“El polaco lo tenía pensado todo. Y eso empezó cuando en Italia hice 1:45.36, ayudando a Luis Medina y a Leandro Civil, quienes buscaban el mínimo olímpico, es decir, la clasificación. Entonces Zabierzowski me mandó un mensaje con Lázaro Betancourt (jefe técnico del atletismo) y Figuerola (presidente entonces de la Federación Cubana) en el que explicaba su tesis de correr en las dos distancias. Cuando ellos me lo dijeron di un brinco comparable al récord de Sotomayor y los mandé bien lejos.
“Luego se sentaron todos conmigo y me enseñaron todas las variantes y parámetros. Lo pensé y me dije: tengo posibilidades. El polaco dijo: vas a ser el único tipo en el mundo que va a ganar 400 y 800, pero tuvieron cuatro meses enamorándome con la idea.
“En esos días marqué 1:45.17 (mínimo olímpico). Después en Ostrava y en Brastilava acepté competir en 400 y 800 el mismo día. Y pelé a todos los corredores. Luego corrí solo en el Pedro Marrero e hice 1:44.70. Entonces me dije: el polaco tiene razón, yo puedo. Esa es la verdadera historia”.
¿Qué discusión o plan diseñó el polaco, sobre todo para la carrera de 800, en la que tenía menos experiencia?
“Él tenía una estrategia e hizo el siguiente esquema (dibuja en una hoja la pista de atletismo y comenta). Me dijo: “si tú pasas por aquí a menos de 51 segundos (señala el punto sobre los 300 metros finales, donde todos los corredores de 800 y 1 500 pasaban a 52), le vas a ir quemando el tenor de resistencia de los tipos. Por tanto, si te vas ahí no hay quien te gane, pues son dos metros y 74 centímetros de zancada”.
“Cuando miras el video, verás que levanto desde aquí (señala) y Wohlhuter se pone paralelo a mi. Corrió 830 metros y por eso lo mata Van Damme en la meta. Finalmente pasé por donde me indicó el polaco a 50.86 y yo tenía 44.70 como mejor tiempo en 400 metros, por tanto mira el colchón, la clase de ventaja que tenia con respecto al resto. El tiempo final 1:43.50 (récord olímpico) y esa táctica de carrera hizo a muchos decir que los 800 se convirtieron en una carrera de velocidad más que de medio fondo, lo cual fue muy cierto”.
Pero la hazaña se completó con el oro en 400 metros.
“El único que ha competido un programa completo en unos Juegos Olímpicos he sido yo. Desde el primer día hasta el último, incluido el relevo. El camarógrafo me decía: good morning every day. Y por la tarde me decía: good afternoon every day. El 28 de julio fue la final de 400. La táctica de los estadounidenses fue pasar por aquí (señala de nuevo un punto intermedio en la pista) a 21 segundos bajito, pero el polaco me había advertido: espera, métete en el medio, no muerdas. Por cierto, él nunca fue al estadio porque decía: “chico, todo está hecho, yo tranquilo en la habitación.
Ellos jugaron a la ventaja de la fatiga. Decían, Juantorena tiene que estar cansado, “no es Superman”, repetían. Sin embargo, pasé a 21.7 (ubica el lugar en la pista) y en los 300 metros Newhousen salió tres metros delante. Subí entonces el ritmo y en los 50 metros finales apreté. Hice 44.26, mejor marca del mundo a nivel del mar, a pesar de estar corriendo todos los días”.
¿Por qué se considera tan irrepetible ese doblón dorado?
“Es muy difícil buscar un solo organismo que pueda concebir en su propia fisiología y en su propia psicología, someterse a un esfuerzo tan grande, en el cual uno consume todos los resortes individuales e internos que es 400, mientras que en 800 tú te oxigenas. Encontrar eso en una sola persona y tener la capacidad psicológica de someterse a ese “castigo”, no resulta fácil. Hay una cosa que se llama el miedo a lo desconocido. Y eso me pasó a mí”.
¿A qué corredor has visto con más condiciones para poder igualar algún día esa hazaña?
“Uno de los que más se acercó fue Joaquín Cruz, el brasileño, pues tenía buen 400 y llegó a ser recordista mundial de 800. Si Usain Bolt se decide puede que lo haga en 200 y 400, aunque no creo que suba a 800. Tiene que ser un tipo fuera de serie como Bolt”.
En los Juegos Mundiales Universitarios de 1977, en Sofía, llegó el récord mundial en 800. ¿Qué curiosidad tuvo ese acontecimiento?
“Antes de competir le dije a Alejandro Casañas: mañana vamos a romper el récord mundial. Yo el mío y tú el tuyo. Y Casañas, que era guapo, aceptó el reto. Hicimos un documento oficial en el que decía eso, lo firmamos, y lo metimos en una gaveta. El 21 de agosto realicé 1:43.44. Corrí solo prácticamente buscando ese crono. Cuando terminé fui al campo de entrenamiento y le muestro mi medalla de oro y el récord. Te toca ahora a ti. Y lo consiguió: 13.21 en 110 metros con vallas. La confirmación está aquí en este artículo (Muestra un recorte de periódico guardado con celo en el que se lee un título: Los profetas). Estas cosas deberíamos contárselas a los jóvenes”.
¿Influyó la muerte del entrenador polaco Zabierzowski en sus resultados posteriores?
“No. Ya tenía 27 años y solo debía continuar el trabajo, que fue lo que hice con el entrenador Jorge Cumberbatch. Pero sufrí muchas lesiones e interrupciones técnicas por las cuatro operaciones que me practicaron en los pies: fractura del tendón de Aquiles, dos tumores extirpados y una fractura de tendón externo del tobillo. El doctor Álvarez Cambras es el reparador de sueños y es el tipo que hizo posible que esta maquinaria caminara. Mi agradecimiento eterno no solo como médico, sino como hombre, amigo y por su fidelidad a la Revolución”.
Imposible dejar de preguntar por la hazaña del relevo 4×400 de los Juegos Centroamericanos y del Caribe Habana 1982, cuando tomó el batón con diferencia de 30 metros en el último cambio y ganó con amplitud.
“Allí solo competí en 800 y el relevo 4×400 por una razón sencilla. En 400 era muy difícil que le pudiera ganar a un portentoso como el jaimacano Bert Cameron, que era el mejor del mundo. Dominé las dos vueltas al óvalo, pero el día del relevo era el cumpleaños de Fidel. Me reuní con Carlos Reité, Roberto Ramos y Agustín Pavó y les dije vamos a regalarle al Comandante la medalla de oro.
¿Qué hicieron los jamaicanos? Jugar a la ventaja del mejor hombre. Pusieron a Cameron como tercero y entregó el batón para el último cambio con tremenda ventaja. Lo que ellos nunca se imaginaron que con 30 metros de desventaja, le iba a sacar más de 10 al final.
“Por el agradecimiento y respeto que le tengo a Fidel y al pueblo cubano no podía dejar de regalarle esa medalla. Era un compromiso personal y tenía que resolverlo yo, porque el que les metió “el diablo” en el cuerpo a los muchachos fui yo. Y lo hicieron con mucho cariño, corrieron a matarse los tres”.
¿Alguna anécdota particular con Fidel?
“Fidel es un maestro porque lo hace a partir de su ejemplo personal. En el deporte fue jugador de baloncesto, béisbol, nadador, tirador y corredor de 800. Yo vi una foto en la que ganaba una final de 800 metros en 1946. Me lo firmó con el siguiente texto: para Juantorena, en la época que podía competir conmigo, pero aún no había nacido.
“Recuerdo que en 1976 nos recibió a Stevenson y a mi. Habló del impacto que nosotros teníamos en el pueblo, de cómo mucha gente quería seguir nuestros pasos, de cómo debíamos cuidar esa parte humana del impacto en la población, en la juventud.
Un día me hizo una crítica sobre mi forma física porque estaba un poco gordo. Tú tienes que cuidar tu figura, que le gente siempre vea que estás bien. Esas cosas humanas son únicas”.
¿Cómo convive Juantorena con la fama y la popularidad?
“Soy un tipo tan natural que para mi la fama no existe. El concepto de fama más acabado me lo dio Zabierzowski, que fue guerrillero y llegó a coronel de la resistencia polaca. Decía que la fama en nuestro sistema social no era para lucrar ni obtener beneficios. Todo lo contrario. Era para compartirla humildemente con el pueblo, que es el hacedor de todas las virtudes del movimiento deportivo.
“No soy un hombre perfecto, soy impulsivo, irreflexivo muchas, pero siempre que cometo un error trato de subsanarlo. No soy un extraterrestre, sino un ser humano más. Así me siento”.
Hemos preferido extender esta entrevista más allá del suceso de Montreal 1976, del cual se cumplirán 40 años muy pronto. Miles de cubanos no conocían estas interioridades. ¿Algún comentario final para ellos?
“Me da tremenda alegría cuando niños y jóvenes que no me vieron correr me saludan y reconocen porque sus padres se lo han contado o han visto la repetición de mis carreras en la televisión. A ellos solo les agradezco con el mismo corazón que describió Héctor Rodríguez aquella carrera. Y ojalá pueda seguirlos convenciendo de que lo más lindo que hay es una actividad deportiva sana y educativa. Eso promueve nuestra nacionalidad y el amor a la Revolución”.