Nicola Pucci – https://sport660.wordpress.com
Chissà perché, ma Teofilo Stevenson mi fa venire in mente Enrico IV, quello che un bel giorno ebbe a dire che “Parigi val bene una messa“. Sarà perché il Navarro abiurò la sua religione per guadagnarsi un trono, emblema della brama di potere, esattamente come, all’opposto, il pugile caraibico rigettò la possibilità di guadagni profumati non abbracciando mai il professionismo, perché “cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di otto milioni di cubani?“.
Insomma, questa è la storia di Teofilo Stevenson, che viene al mondo a Puerto Padre, la città dei mulini, il 29 marzo 1952. Il padre, originario dell’isola di Saint Vincent, ha raggiunto Cuba anni addietro, e con la moglie, Dolores, impartisce lezioni di inglese per guadagnare quanto basta per un’esistenza dignitosa. Esercita attività pugilitsica, e buon sangue in effetti non mente, se è vero che il piccolo Teofilo ben presto si trova a tirar di pugni, sparring-partner nella palestra che ha conosciuto la breve carriera del padre, all’insaputa della madre che mal digerirà, un domani, l’attività del figlio.
Sotto l’ala protettrice di John Herrera, ex-campione cubano dei pesi massimi, Stevenson cresce e acquisisce quel che è necessario per farsi strada nel difficile panorama della boxe amatoriale. Vince il titolo junior e viene notato da Andrei Chervonenko, che ha lasciato l’Urss per stabilirsi a Cuba ed aprire a L’Avana una scuola di boxe, proprio mentre il regime da poco instaurato di Castro vieta il professionismoe tutte le attività pugilistiche sono obbligatoriamente ricondotte alla governativaNational Boxing Commission.
Diciassettenne, Stevenson perde la sfida per il titolo nazionale con Gabriel Garcia, che gioca d’esperienza, nondimeno insiste e grazie ai successi con Nancio Carillo e Juan Perez, due tra i migliori pugili di Cuba, viene selezionato per i Giochi del Centro America, anno 1970, dove viene sconfitto in finale.
C’è da lavorare, comunque, sul talento cristallino seppur in divenire del ragazzo, ed èAlcides Sagarra che ne forgia il jab, così come il destro, formidabile, colpo che diverrà dominante nella boxe di Stevenson. Che in un match disputato a Berlino sconfigge l’idolo di casa Bernd Anders, suggestionando il pubblico presente all’incontro; èmedaglia di bronzo ai Giochi Panamericani di Calì del 1971 battuto dal portacolori americano Duane Bobick; infine è pronto al primo appuntamento olimpico della carriera, Giochi di Monaco del 1972.
E qui Stevenson comincia ad infiltrare la leggenda della boxe. Debutta con il polacco Ludwik Denderys, mandandolo al tappeto alla prima ripresa e costringedolo al k.o.t. per una ferita all’occhio. Il sorteggio non pare benevolo, per il cubano, che ai quarti di finale incrocia nuovamente Bobick, favorito del torneo ed atteso al titolo olimpico dei pesi massimi come già Foreman e Frazier prima di lui. Dopo due riprese equilibrate, nel terzo round Stevenson costringe tre volte alle corde Bobick, che getta la spugna e libera la strada verso la medaglia d’oro a Teofilo. Un paese intero, incollato al televisore, segue le gesta del giovane campione, che demolisce il tedesco Peter Hussing ed approfitta del forfait del rumeno Ion Alexe, che si inventa un dito rotto per sottrarsi all’inevitabile, per mettersi al collo il primo metallo prezioso e diventando, di colpo, l’icona del pugilato di Cuba.
La strada maestra è tracciata e per Stevenson è l’ora di mietere successi a getto continuo. Realizza due triplette consecutive Olimpiadi/Mondiali Dilettanti/Giochi Panamericani (72/74/75 e 76/78/79) spazzando via ogni avversario che tenti di sbarrargli la strada, sia esso il nigeriano Ayila battuto ai punti proprio nella kermesse a L’Avana del 1974, oppure l’americano John Tate, che sarà in seguito campione del mondo WBA a spese di Coetzee, atterrato senza scrupoli nella finale a cinque cerchi di Montreal del 1976.
Proprio all’indomani del secondo trionfo olimpico sembrano aprirsi le porte del professionismo, tanto che a Teofilo viene proposto di combattere subito per la cintura mondiale contro Mohammad Alì, il che garantirebbe al pugile caraibico un salto diretto da Olimpiade a sfida mondiale nella categoria dei massimi come al solo Pete Rademacher fu concesso, campione olimpico a Montreal nel 1956 e poi sconfitto dal Floyd Pattersson nel 1957. Ma… ma “cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di otto milioni di cubani?“.
Ed allora Stevenson, affettuosamente chiamato “Pirilo“, preferisce meritarsi ancora un po’ di gloria, caso mai ce ne fosse bisogno, vincendo la terza medaglia d’oro olimpica consecutiva, come solo Laszlo Papp prima di lui, seppur in due diverse categorie, e il connazionale Savon negli anni Novanta, a Mosca, nel 1980, infrangendo i sogni del beniamino di casa, Piotr Zaev, sconfitto 4-1 ai punti con verdetto, ad onor del vero, non del tutto unanime.
Sarà un italiano di indubbio valore, Francesco Damiani, a porre fine a undici anni di imbattibilità di Stevenson, sconfitto ai Mondiali dilettanti del 1982 a Monaco, e pure nettamente, prima di vedersi negare dal boicottaggio una quarta chance olimpica, e chiudere in bellezza con un altro titolo mondiale dei dilettanti nel 1986, ormai trentaquattrenne al tramonto seppur ancora competitivo.
Il suo bel jab e il destro potente probabilmente gli avrebbero consentito un percorso da professionista vincente, ma Teofilo, che dall’11 giugno 2012 dorme l’eterno riposo, è l’uomo che a Cuba il popolo ama. Perché era uno di loro, e il loro amore valeva ben un contratto da miliardario.