Harold Cardenas e Roberto Peralo https://jovencuba.com
Ci sono situazioni in cui si deve prendere partito, questa è una di quelle. Ieri, si è diffusa, a macchia d’olio, il divieto ai giovani giornalisti di pubblicare in determinati media stranieri. In forma verbale, senza una parola scritta, ma senza luogo a dubbi, si presenta come incompatibile partecipare alla stampa nazionale mentre si collabora con alcuni dei nuovi media. In questo, come in quasi tutto, ci sono sfumature che vale la pena affrontare.
In realtà si vedeva arrivare. Non vi è alcun quadro giuridico, a Cuba, per consentire questa attività economica, tollerata finora. Quanto margine è quindi consentito affinché un giornalista si sviluppi realizzando la sua professione, se sa farlo con decoro, in un altro spazio? Quanti dei giovani ora colpiti lo facevano con responsabilità e quanti no?Non staremo mettendo tutti nello stesso sacco? Il futuro di una rivoluzione non si costruisce creando danni collaterali.
Non siamo di fronte ad un fenomeno omogeneo. Tutti i ragazzi che collaborano non lo fanno con la stessa responsabilità né lo stesso obiettivo. Alcuni sono frustrati dalle necessità economiche e le eterne mediazioni che ha il sistema della stampa nazionale. Ricorrono, allora, ad altri spazi in cui svilupparsi professionalmente con una migliore retribuzione. E tutto andrebbe bene se si facesse il giornalismo di cui ha bisogno il paese, ma a volte abbiamo visto la ipercritica o il semplicismo che finiscono per per fare un favore ai suoi critici. Nonostante ciò, non vale la pena di continuare a buttare il divano dalla finestra.
Poi arriva il giorno in cui le collaborazioni vengono vietate, chiamiamolo il 4J. Che come ha già detto un giornalista, sarà l’inizio di un’era di pseudonimi in questi media. Resta chiaro che né questi né i suoi collaboratori spariranno, solo che al contesto aperto e trasparente, finora, si susseguirà uno più scuro e pieno di sotterfugi.
La sfera pubblica cubana in cui si svolge questo fenomeno è complessa. Ci sono predisposizioni e pregiudizi, sia in questo segmento di giovani che nei decisori che hanno preso questo provvedimento. Sappiamo che si è promosso un dibattito in diverse province del paese, ma, è stato realmente un dialogo? non sarebbe più l’intenzione di imporre ordini del giorno e decisioni già prese? Forse è la mancanza di empatia ciò che complica tutto.
La comunicazione è una questione di sicurezza nazionale, ma questo non significa applicare posizioni egemoniche su di essa, ma la ricerca di un ambiente sano per il suo sviluppo. Ma, a Cuba, tutto è più complicato di quanto sembri a prima vista. Dopo mezzo secolo nella battaglia, che tutti conosciamo, molti di noi cubani siamo paranoici, con qualche ragione. Anche se alcuni non capiscono che non tutto è un progetto della CIA, che l’USAID non è ovunque e non possiamo continuare a mettere barriere tra noi stessi per questo motivo. Dobbiamo imparare a correre rischi, con cautela.
In sfondo stiamo parlando di un dibattito etico. Si può pubblicare in un media straniero e continuare ad essere rivoluzionario? Non esisteranno pregiudizi quando si persegue senza neppure leggere i contenuti che loro pubblicano? Ci sono giovani colpiti da questa misura che non hanno smesso di credere nella Rivoluzione cubana, che continuare a scommettere su questa ed i suoi contenuti. La cosa più intelligente sarebbe quella di sedersi con loro e ringraziarli in quanto occupano uno spazio che altri farebbero irresponsabilmente, ma così non è avvenuto.
Una misura come questa riuscirà ad intimidire, contro la sua volontà, alcuni che ritorneranno ai loro media ufficiali. Ad altri li spingerà a diventare freelance, lavoratori autonomi del giornalismo, cosa molto normale del mondo, anche se qui sembra che finisca il mondo. E i media avranno molti pseudonimi.
Forse questa strategia ha come scopo che rimangano solo i più critici, i risentiti e coloro che semplicemente non credono in un futuro socialista per questo paese? Non sembra essere una strategia molto intelligente.
I più importanti sono sempre le persone, i ragazzi colpiti. Molti di loro si pagano l’affitto con le collaborazioni che fanno, anche comprano attrezzature che poi utilizzano nei media ufficiali e nel loro sviluppo professionale. Oggi gli dicono che devono accontentarsi, al mese, con quanto guadagna un tassista de l’Avana in una giornata di lavoro. La migliore risposta a questo la diede Federico Engels, sula tomba di Marx, l’uomo per pensare, deve aver garantite le condizioni materiali più elementari. Facendo appello a posizioni volontaristiche, argomenti usurati o vietando lo sviluppo professionale di questi ragazzi si otterrà ben poco.
Ci sono preoccupazioni di coloro che prendono questa misura che ci sembrano valide. Un collaboratore cubano, con un media straniero, non può fare concessioni di sovranità, né può prestarsi ad attaccare un progetto sociale che già di per sé è difficile, né può utilizzare questo spazio per andare all’estremo della critica che distrugge più che costruire. Proprio per essere un media straniero, proprio per essere renumerativo.
E’ importante che ci siano canali di dialogo tra i ragazzi che collaborano e coloro che mostrano preoccupazioni. Quello che non vale è evitare prima questa interazione e poi reclamare o vietare quando, forse, mettendo le carte sul tavolo, si possono ottenere i consensi necessari. Quello che neppure vale è utilizzare i nuovi media come strumento di resistenza passiva contro il progetto socialista per cui si sacrificano tante persone in questo paese. Tutti noi abbiamo delle responsabilità.
Questa situazione ci ha spinto a prendere posizione perché a Cuba c’è una silenziosa battaglia per i cuori e le menti di ognuno di questi giovani. Questa misura che ci arriva tra sussurri sembra più un errore che una vittoria, anche se presentiamo che è la punta di un iceberg ed il dibattito è solo all’inizio.
Prohibiciones, prejuicios y principios
Harold Cárdenas y Roberto Peralo
Hay situaciones en las que se debe tomar partido, esta es una de ellas. Ayer corrió como pólvora la prohibición a jóvenes periodistas de publicar en determinados medios extranjeros. De forma verbal, sin una palabra escrita pero sin lugar a dudas, se presenta como incompatible participar en la prensa nacional mientras se colabora con algunos de los nuevos medios. En esto, como en casi todo, hay matices que vale la pena abordar.
En realidad se veía venir. No existe un marco legal en Cuba que permita esta actividad económica, tolerada hasta ahora. ¿Cuánto margen se deja entonces para que un periodista se desarrolle realizando su profesión si sabe hacerlo con decoro en otro espacio? ¿Cuántos de los jóvenes afectados ahora lo hacían con responsabilidad y cuántos no? ¿No estaremos poniendo a todos en el mismo saco? El futuro de una revolución no se construye creando daños colaterales.
No estamos ante un fenómeno homogéneo. Todos los chicos que colaboran no lo hacen con la misma responsabilidad ni el mismo objetivo. Algunos se frustran por las necesidades económicas y las eternas mediaciones que tiene el sistema de prensa nacional. Acuden entonces a otros espacios donde desarrollarse profesionalmente con mejor remuneración. Y todo estaría bien si se hiciera el periodismo que necesita el país, pero en ocasiones hemos visto la hipercrítica o el facilismo que terminan por hacerle un favor a sus críticos. Aún así, no vale seguir botando el sofá por la ventana.
Entonces llega el día en que se prohíben las colaboraciones, llamémosle el 4J. Que como ya decía un periodista, será el comienzo de una era de seudónimos en estos medios. Queda claro que ni estos desaparecerán ni sus colaboradores tampoco, solo que el contexto abierto y transparente hasta ahora, se sucederá por uno más oscuro y lleno de subterfugios.
La esfera pública cubana en la que se desenvuelve este fenómeno es compleja. Existen predisposiciones y prejuicios tanto en este segmento de jóvenes como en los decisores que han tomado esta medida. Sabemos que se promovió un debate en varias provincias del país pero, ¿fue realmente un diálogo? ¿no sería más una intención de imponer agendas y decisiones ya dispuestas? Quizás sea la falta de empatía la que complica todo.
La comunicación es un asunto de seguridad nacional pero esto no significa aplicar posiciones hegemónicas sobre ella sino la búsqueda de un ambiente saludable para su desarrollo. Pero en Cuba todo es más complicado de lo que se ve a simple vista. Después de medio siglo en la batalla que todos conocemos, muchos cubanos somos paranoicos, con cierta razón. Aunque algunos no entienden que no todo es un proyecto de la CIA, que la USAID no está en todas partes y no podemos seguir poniendo barreras entre nosotros mismos por esa razón. Tenemos que aprender a arriesgarnos cautelosamente.
En el fondo estamos hablando de un debate ético. ¿Se puede publicar en un medio extranjero y seguir siendo revolucionario? ¿No existirán prejuicios cuando se enjuicia sin siquiera leer el contenido que ellos publican? Hay jóvenes afectados por esta medida que no han dejado de creer en la Revolución cubana, que siguen apostando a esta y sus contenidos. Lo más inteligente sería sentarse con ellos y agradecerles que ocupen un espacio que otros harían con irresponsabilidad, pero no ha ocurrido así.
Una medida como esta logrará amedrentar, contra su voluntad, a unos cuantos que regresarán a sus medios oficiales. A otros los empujará a convertirse en freelancers, cuentapropistas del periodismo, algo muy normal en el mundo aunque acá parezca que así se acaba el mundo. Y los medios pasarán a tener muchos seudónimos.
¿Acaso esta estrategia tiene como objetivo que solo permanezcan los más críticos, los resentidos y los que sencillamente no creen en un futuro socialista para este país? No parece ser una estrategia muy inteligente.
Lo más importante siempre son las personas, los muchachos afectados. Muchos de ellos se pagan su alquiler con las colaboraciones que hacen, incluso compran equipos que luego utilizan en los medios oficiales y su desarrollo profesional. Hoy les dicen que deben conformarse al mes con lo que gana un taxista habanero en un día de trabajo. La mejor respuesta a esto la dio Federico Engels ante la tumba de Marx, el hombre para pensar, debe tener garantizadas las condiciones materiales más básicas. Apelando a posiciones voluntaristas, argumentos gastados o prohibiendo el desarrollo profesional de estos chicos, se logrará bien poco.
Hay preocupaciones de quienes toman esta medida que nos parecen válidas. Un colaborador cubano con un medio extranjero no puede hacer concesiones de soberanía, ni puede prestarse para atacar a un proyecto social que de por si lo tiene difícil, ni puede utilizar ese espacio para irse al extremo de la crítica que destruye más que construir. Precisamente por ser un medio extranjero, precisamente por ser de pago.
Es importante que existan canales de diálogo entre los chicos que colaboran y quienes muestran preocupación. Lo que no vale es evitar primero esa interacción y luego reclamar o prohibir cuando quizás poniendo cartas sobre la mesa se puedan lograr los consensos necesarios. Lo que no vale tampoco es utilizar los nuevos medios como herramienta de resistencia pasiva contra el proyecto socialista por el que se sacrifican tantas personas en este país. Todos tenemos responsabilidades.
Esta situación nos motivó a tomar a expresarnos porque en Cuba está ocurriendo una batalla silenciosa por los corazones y las mentes de cada uno de sus jóvenes. Esta medida que nos llega entre susurros parece más un error que una victoria, aunque presentimos que es la punta del iceberg y el debate apenas comienza.