Ricardo Alarcon de Quesada http://www.cubadebate.cu
Conferenza del Dr. Ricardo Alarcón de Quesada, durante linaugurazione del seminario ¨Pensamento ed opera di Fidel Castro Ruz sulla politica estera della Rivoluzione Cubana, vigenza e proiezione¨, nel Centro di Ricerche della Politica Internazionale (CIPI), Avana, 13 luglio 2016.
Il 10 marzo 1952, di colpo, si chiuse un capitolo della storia di Cuba. Fulgencio Batista -che due decenni addietro impiantò una ferrea dittatura e liquidò il Governo Rivoluzionario di soli 100 giorni sorto nel 1933 alla caduta di Gerardo Machado -con una manciata di suoi antichi collaboratori prese di nuovo il potere. Il nuovo colpo di Stato si svolse senza grandi inciampi.
Concluse così la breve esperienza cubana con la “democrazia rappresentativa”, che durò solo i due periodi del Partito Rivoluzionario Cubano (Autentico), che aveva governato poco più di sette anni.
L’ “Autenticismo” si presentava come erede della Rivoluzione del 33 in cui i suoi principali dirigenti avevano avuto una partecipazione rilevante ma non avanzò oltre il nazional-riformismo, creò alcune istituzioni necessarie e diede mostra di una politica estera indipendente su alcune questioni importanti all’ONU e all’OSA. Ma la sua opera di governo era appesantita dalla corruzione che invase quasi tutti i rami dell’amministrazione e la sua adesione al maccartismo che propiziò la divisione del movimento sindacale e popolare e l’uccisione di alcuni dei suoi principali dirigenti.
La disonestà imperante provocò la scissione dell’autenticismo e la nascita del Partito del Popolo Cubano (Ortodosso) che innalzò come principale bandiera la consegna “Vergogna contro denaro”. Tra i suoi fondatori c’era un avvocato neo laureato di nome Fidel Castro Ruz.
Le elezioni generali, previste per il giugno 1952, ponevano di fronte, secondo tutti i sondaggi, due candidature: l’ “ortodossa” guidata da un rispettabile professore universitario e la governativa guidata da un “autentico” la cui onestà era indiscussa. Un terzo candidato, Batista, sostenuto da gruppi reazionari, appariva in un lontano ultimo posto e nessuno gli concedeva la minima possibilità di vincere alle urne. Lo sapevano tutti, a Cuba, incluso Batista che perciò impedì che il popolo potesse decidere.
Il colpo di stato e le sue immediate conseguenze ferirono profondamente la società cubana. Batista ricevette il sostegno immediato dei grandi proprietari come delle forze politiche conservatrici e della corrotta burocrazia sindacale. I partiti politici, sia i gruppi intorno al governo rovesciato come i suoi oppositori, rimasero intrappolati nell’inazione e incoerenza. L’autenticismo e l’ortodossia si divisero in tendenze contraddittorie e da essi sorsero nuovi partiti, alcuni disposti a collaborare o transigere con il nuovo regime. Loro e tutti gli altri partiti s’invischiarono in interminabili polemiche incapaci di articolare un percorso contro la tirannia.
La resistenza trovò rifugio nelle Università. Da queste sorsero le prime manifestazioni e atti di protesta. Tra gli studenti cresceva la coscienza della necessità di agire e di farlo in altro modo, impiegando metodi diversi da quelli dei politici che avevano fallito miseramente. Si parlava allora di lotta armata ma nessuno sapeva come farla né possedeva le risorse per intraprenderla. Ci furono alcuni tentativi isolati, mentre circolavano voci riguardo piani diretti o vincolati al Presidente deposto il 10 marzo.
Per coloro che ancora frequentavamo l’istruzione secondaria l’assalto alle caserma militare a Santiago de Cuba (Moncada) e Bayamo (Carlos Manuel de Céspedes), il 26 luglio 1953, fu un’assoluta sorpresa. Non sapevamo nulla di un evento che, tuttavia, avrebbe marcato, per sempre, la nostra vita.
Nella notizia spuntò il nome di qualcuno in precedenza a noi sconosciuto: Fidel Castro.
Si approfondì la crisi politica. La tirannia diventò ancora più aggressiva. Vietò il partito dei comunisti (PSP, Partito Socialista Popolare) e chiuse le loro pubblicazioni ed aumentò la repressione contro il movimento studentesco. Le accuse di Batista contro i comunisti cercavano le simpatie di Washington, ma non aveva nulla a che fare con la realtà. Il PSP non solo fu estraneo a quegli eventi, ma condannò l’azione dei giovani rivoluzionari come lo fecero, quasi senza eccezione, gli altri oppositori a Batista.
Anche in questo caso corrispose agli studenti rimpiazzare i partiti incapaci di adempiere la loro funzione. La Federazione Studentesca Universitaria (FEU) solidarizzò con gli assaltanti del Moncada e convocò una campagna per la loro liberazione che presto acquisì una dimensione nazionale e obbligò la dittatura ad amnistiarli, nel 1955.
Nello stesso anno Fidel fondò il Movimento 26 luglio che, insieme ai sopravvissuti dell’azione iniziale contò, soprattutto, con giovani che nei quartieri e nei centri di studio si identificarono con quell’eroico gesto di fronte alle invettive e critiche di Tiros e troyanos (da parti opposte ndt). I suoi ranghi si nutrivano con i ragazzi, non pochi adolescenti, che insorgevano nel mezzo della frustrazione, l’inerzia e la divisione, ispirati da una impresa che aveva spaventato la tirannia, ma anche i suoi oppositori. Antonio López (Nico), che aveva guidato l’attacco alla caserma di Bayamo s’incaricò di organizzazione le Brigate Giovanili del M-26-7 fino a che andò in Messico per ritornare con Fidel e morire combattendo nella Sierra Maestra. Lo sostituì all’Avana Gerardo Abreu (Fontan) un nero di origini molto umili, che non avevano completato la formazione culturale e una sensibilità poetica che provocava stupore tra gli universitari che avemmo il privilegio di lottare sotto la sua guida. Tanto Ñico come Fontan, entrambi provenienti dalla Gioventù Ortodossa, conoscevano il marxismo, condividevano gli ideali socialisti ed erano profondamente anti-imperialisti. S’impegnarono nel creare una organizzazione che incorporasse massicciamente la nuova generazione e ci riuscirono. I loro seguaci erano identificati con una parola: “fidelisti”.
La presenza delle Brigate si fece sentire rapidamente inviando il suo messaggio direttamente al popolo. Mentre la stampa ed i politici criticavano Fidel ed il Moncada, ovunque, in ogni angolo della capitale, su muri e pareti, utilizzando risorse molto modeste, i suoi membri dipinsero un breve slogan, ma che tutti capivano -M-26-7- o un nome che altri volevano far tacere: Fidel.
Di fronte all’ambiente ostile che rendeva impossibile la lotta politica aperta, Fidel andò in Messico al fine di organizzare il ritorno per portare a termine la battaglia che avrebbe posto fine alla tirannia. Lo proclamò apertamente assumendo uno storico impegno – “nel 56 saremo liberi o martiri” – e affrontando nuovamente i cultori dell’inazione e dello scoraggiamento. E anche le loro burle: un giornale governativo intestava la sua prima pagina, ogni giorno, con la cifra che segnava i giorni trascorsi, dal 1956, senza che fosse stata compiuta la sfida promessa.
S’inoltrava novembre e si intensificava la propaganda contro i moncadisti. Le manifestazioni organizzate dalla FEU ed il recentemente creato Direttorio Rivoluzionario raggiunsero il loro punto culminante e provocarono la chiusura dell’università. L’ultimo giorno del mese, come azione per appoggiare lo sbarco, l’M-26-7 effettuò l’insurrezione a Santiago de Cuba. Due giorni dopo arrivarono alle coste orientali Fidel e i suoi compagni sullo yacht Granma in quello che il Che descrisse come un “naufragio”. Dispersi e perseguitati dall’esercito un piccolo gruppo riuscì, finalmente, a re-incontrarsi nella Sierra Maestra. Una buona parte degli spedizionieri morirono combattendo o furono assassinati.
Tra essi, secondo i resoconti delle agenzie di stampa USA, il suo dirigente principale. La morte di Fidel fu riportata in prima pagina da tutti i media. L’angoscia e l’incertezza rimasero fino a che, dopo un periodo che sembrava interminabile, a poco a poco, dai canali clandestini, si venne a conoscere la verità.
Gli ultimi due anni della dittatura furono di crimini e generalizzati abusi nelle aree urbane, mentre l’iniziale fuoco guerrigliero cresceva fino a trasformarsi dell’Esercito Ribelle.
Il “fidelismo” raggiunse la massa. Nella notte dell’8 novembre 1957 si produssero a L’Avana centinaia di esplosioni contemporaneamente ciascuna in un diverso quartiere e distante da un altro. Erano petardi artefatti piuttosto artigianali, che solo produssero rumore. Nessuno fu ferito e nessuno fu arrestato dalla polizia che si muoveva freneticamente da una parte all’altra. Fu una dimostrazione sonora che il 26 era dappertutto e dell’efficace organizzazione delle sue brigate giovanili.
L’assassinio di Fontan, il 7 febbraio 1958, scatenò uno sciopero generale degli studenti, che durò fino a maggio, paralizzò tutte i centri d’insegnamento, comprese le università e accademie private e provocò le dimissioni di due ministri batistiani dell’Istruzione.
Mai prima si era prodotto, a Cuba, un simile movimento di tale ampiezza e per così tanto tempo. Per tre mesi fallirono tutti i tentativi violenti o “pacifici” di porgli fine. Lo sciopero studentesco continuò anche diverse settimane dopo che il movimento soffrisse, all’Avana, la sua più dolorosa e sanguinosa confitta.
Ma il fallimento del tentativo di sciopero generale dei lavoratori, il 9 aprile, fu un colpo molto grave che decimò la militanza urbana, scardinò quasi completamente l’apparato clandestino e permise alla dittatura di mobilitare migliaia di soldati per lanciare contro la Sierra Maestra ciò che immaginava sarebbe stato il suo attacco finale. Ancora una volta tutto dipendeva da Fidel e dalla sua leadership.
L’offensiva di Batista fallì completamente. L’Esercito Ribelle, consolidato in Oriente, inviò due colonne dirette dal Che e Camilo Cienfuegos, che attraversarono metà dell’isola e vinsero molti combattimenti nella sua regione centrale. I ribelli erano prossimi a liberare le città di Santiago de Cuba e Santa Clara. L’ultimo giorno di dicembre il dittatore preparò la sua fuga e in stretto coordinamento con l’ambasciatore USA, ha lasciò installata, a l’Avana, una Giunta Militare che sarebbe stata la continuità del suo regime. Per far fallire la manovra, Fidel convocò uno sciopero generale.
Il primo giorno del nuovo anno, da molto presto il popolo si fece padrone delle strade nella capitale. Le brigate giovanili, quasi del tutto prive di armi, occuparono tutte le stazioni della polizia senza incontrare resistenza di una truppa demoralizzata e nervosa. Ebbero da affrontare, tuttavia, in altre parti della città, gli spari di gruppi paramilitari batistiani. Lo sciopero continuò fino al crollo totale della tirannia. L’8 gennaio Fidel entrò trionfalmente in una città che era già finalmente “Fidelista”.
La rivoluzione vittoriosa avrebbe dovuto affrontare ostacoli più potenti e rischi ancor maggiori, durante più di mezzo secolo. L’aggressione politica, diplomatica e propagandistica, gli attacchi armati, la sovversione ed i sabotaggi ed il blocco economico che ancora continua ed è il genocidio più prolungato della storia. Ed anche il crollo dell’ U.R.S.S. e la scomparsa di alleati e soci commerciali ed il totale isolamento dell’isola. E’ stato un lungo e tormentoso cammino che il popolo percorse guidato da Fidel.
Compie, ora, novanta anni l’uomo che dovette affrontare più di seicento piani di attentati contro la sua vita e la cui morte è stata annunciata innumerevoli volte dalla propaganda imperialista. Forse un giorno, i suoi nemici, dovranno ammettere che mai lo potranno uccidere. Perché Fidel ed il suo popolo sono uno e lo stesso. E quel popolo, in gran parte grazie a lui, è invincibile.
Apuntes de un veterano Fidelista
Por: Ricardo Alarcón de Quesada
Conferencia del Dr. Ricardo Alarcón de Quesada, durante la inauguración del Taller ¨Pensamiento y obra de Fidel Castro Ruz sobre la política exterior de la Revolución Cubana, vigencia y proyección¨, en el Centro de Investigaciones de Política Internacional (CIPI), en La Habana, el 13 de julio de 2016.
El 10 de marzo de 1952, de un portazo, se cerró un capítulo de la historia de Cuba. Fulgencio Batista –quien dos décadas atrás implantó una férrea dictadura y liquidó al Gobierno Revolucionario de apenas cien días surgido en 1933 a la caída de Gerardo Machado- con un puñado de sus antiguos colaboradores se hizo otra vez del poder. El nuevo golpe de estado se llevó a cabo sin mayores tropiezos. Concluyó así la breve experiencia cubana con la “democracia representativa” la cual duró sólo los dos períodos del Partido Revolucionario Cubano (Auténtico), que había gobernado poco más de siete años.
El “autenticismo” se presentaba como heredero de la Revolución del 33 en la que sus principales dirigentes habían tenido una participación destacada pero no avanzó más allá del nacional-reformismo, creó algunas instituciones necesarias y dio muestras de una política exterior independiente en algunos temas importantes en la ONU y la OEA. Pero su obra de gobierno estuvo lastrada por la corrupción que invadió casi todas las ramas de la administración y su adhesión al macartismo que propició la división del movimiento sindical y popular y al asesinato de algunos de sus principales líderes.
La deshonestidad imperante provocó la escisión del autenticismo y el surgimiento del Partido del Pueblo Cubano (Ortodoxo) que levantó como principal bandera la consigna de “Vergüenza contra Dinero”. Entre sus fundadores estuvo un abogado recién graduado llamado Fidel Castro Ruz.
Las elecciones generales, previstas para junio de 1952, enfrentaban, según todas las encuestas, a dos candidaturas: la “ortodoxa” encabezada por un respetable profesor universitario y la gubernamental liderada por un “auténtico” cuya honestidad no era cuestionada. Un tercer candidato, Batista, respaldado por grupos reaccionarios, aparecía en un lejano último lugar y nadie le concedía la más mínima posibilidad de vencer en las urnas. Lo sabía en Cuba todo el mundo incluido Batista quien por eso impidió que el pueblo pudiera decidir.
El Golpe de Estado y sus secuelas inmediatas hirieron profundamente a la sociedad cubana. Batista recibió el apoyo inmediato de los grandes propietarios así como el de las fuerzas políticas conservadoras y la corrupta burocracia sindical. Los partidos políticos, tanto los agrupados alrededor del gobierno derrocado como sus oponentes, quedaron atrapados en la inacción y la incoherencia. El autenticismo y la ortodoxia se dividieron en tendencias contradictorias y de ellos surgieron nuevos partidos, algunos dispuestos a colaborar o transigir con el nuevo régimen. Ellos y todos los demás partidos se enzarzaron en polémicas interminables incapaces de articular un camino frente a la tiranía.
La resistencia encontró refugio en las Universidades. De ellas surgieron las primeras manifestaciones y actos de protesta. Entre los estudiantes crecía la conciencia de la necesidad de actuar y de hacerlo de otro modo empleando métodos diferentes a los de los políticos que habían fracasado estrepitosamente. Se hablaba entonces de la lucha armada pero nadie sabía cómo hacerla ni poseía los recursos para emprenderla. Hubo algunos intentos aislados mientras circulaban rumores acerca de planes dirigidos o vinculados al Presidente depuesto el 10 de marzo.
Para quienes aun cursábamos la enseñanza secundaria el asalto a los cuarteles militares de Santiago de Cuba (el Moncada) y Bayamo (Carlos Manuel de Céspedes), el 26 de julio de 1953, fue una sorpresa absoluta. Nada sabíamos de un acontecimiento que, sin embargo, marcaría para siempre nuestras vidas.
En las noticias brotó el nombre de alguien antes desconocido para nosotros: Fidel Castro.
Se ahondó la crisis política. La tiranía se volvió aun más agresiva. Ilegalizó al partido de los comunistas (PSP, Partido Socialista Popular) y clausuró sus publicaciones y aumentó la represión contra el movimiento estudiantil. Las acusaciones de Batista contra los comunistas buscaban las simpatías de Washington pero nada tenían que ver con la realidad. El PSP no sólo fue ajeno a aquellos sucesos sino que condenó la acción de los jóvenes revolucionarios como lo hicieron, casi sin excepción, los demás opositores a Batista.
Nuevamente correspondió al estudiantado reemplazar a los partidos incapaces de cumplir su función. La Federación Estudiantil Universitaria (FEU) se solidarizó con los asaltantes del Moncada y convocó a una campaña por su liberación que pronto adquirió una dimensión nacional y obligó a la dictadura a amnistiarlos en 1955.
Ese mismo año Fidel fundó el Movimiento 26 de Julio que, junto a los sobrevivientes de la acción inicial contó, sobre todo, con jóvenes que en los barrios y en los centros de estudio se identificaron con aquel gesto heroico frente a las diatribas y las críticas de tirios y troyanos. Sus filas se nutrían con muchachos, no pocos adolescentes, que insurgían en medio de la frustración, la inercia y la división, inspirados por una hazaña que había estremecido a la tiranía pero también a sus oponentes. Antonio López (Ñico) quien había dirigido el ataque al cuartel de Bayamo se encargó de organizar las Brigadas Juveniles del M-26-7 hasta que marchó a México para regresar con Fidel y morir combatiendo en la Sierra Maestra. Lo reemplazó en La Habana Gerardo Abreu (Fontán) un negro de origen muy humilde que no había concluido la enseñanza primaria pero supo adquirir por sí mismo una amplia formación cultural y una sensibilidad poética que causaba asombro entre los universitarios que tuvimos el privilegio de luchar bajo su jefatura. Tanto Ñico como Fontán, ambos procedentes de la Juventud Ortodoxa, conocían el marxismo, compartían los ideales socialistas y eran profundamente antimperialistas. Se empeñaron en crear una organización que incorporase masivamente a la nueva generación y lo lograron. A sus seguidores se les identificaba con una palabra: “fidelistas”.
La presencia de las Brigadas se hizo sentir rápidamente enviando su mensaje directamente al pueblo. Mientras la prensa y los políticos criticaban a Fidel y al Moncada, por todas partes, en cada rincón de la capital, en muros y paredes, empleando recursos muy modestos, sus miembros pintaron una consigna breve pero que todos entendían -M-26-7- o un nombre que otros querían silenciar: Fidel.
Frente al ambiente hostil que hacía imposible la lucha política abierta, Fidel se marchó a México con el fin de organizar el regreso para llevar a cabo la batalla que pondría fin a la tiranía. Lo proclamó abiertamente asumiendo un compromiso histórico –“en el 56 seremos libres o mártires”- y afrontando nuevamente a los cultores de la inacción y el desánimo. Y también sus burlas: un periódico gubernamental encabezaba su portada cada día con la cifra que marcaba los días transcurridos de 1956 sin que se hubiera cumplido la desafiante promesa.
Avanzaba noviembre y se intensificaba la propaganda contra los moncadistas. Las manifestaciones organizadas por la FEU y el recién creado Directorio Revolucionario alcanzaron su clímax y provocaron el cierre de la Universidad. El último día del mes, como acción de apoyo al desembarco, el M-26-7 llevó a cabo la insurrección en Santiago de Cuba. Dos días después arribaron a las costas orientales Fidel y sus compañeros en el yate Granma en lo que el Che describió como un “naufragio”. Dispersos y perseguidos por el Ejército un pequeño grupo logró finalmente reencontrarse en la Sierra Maestra. Una buena parte de los expedicionarios murieron combatiendo o fueron asesinados.
Entre ellos, según dieron cuenta las Agencias noticiosas norteamericanas, su principal líder. La muerte de Fidel fue reportada en primera plana por todos los medios informativos. La angustia y la incertidumbre se mantuvo hasta que, pasado un tiempo que parecía interminable, poco a poco, por los canales clandestinos, se fue conociendo la verdad.
Los últimos dos años de la dictadura fueron de crímenes y atropellos generalizados en las zonas urbanas mientras el foco guerrillero inicial crecía hasta transformarse en el Ejército Rebelde.
El “fidelismo” alcanzó masividad. En la noche del 8 no noviembre de 1957 se produjeron en La Habana cien explosiones simultáneamente cada una en un barrio diferente y distante del otro. Eran petardos, artefactos más bien artesanales, que sólo produjeron ruido. No hubo heridos y nadie fue detenido por la policía que se desplazaba frenética de un lado a otro. Fue una demostración sonora de que el 26 estaba en todas partes y de la eficaz organización de sus brigadas juveniles.
El asesinato de Fontán, el 7 de febrero de 1958, desató una huelga general estudiantil, que se extendió hasta mayo, paralizó todos los centros de enseñanza, incluidos las universidades y academias privadas y provocó las renuncias de dos ministros batistianos de Educación.
Nunca antes se había producido en Cuba movimiento semejante, de tal amplitud y por tanto tiempo. Durante tres meses fracasaron todos los intentos, violentos o “pacíficos”, para ponerle fin. El paro estudiantil continuó incluso varias semanas después que el movimiento sufriese en La Habana su más dolorosa y sangrienta derrota.
Pero el fracaso del intento de huelga general obrera, el 9 de abril, fue un golpe muy severo que diezmó a la militancia urbana, desbarató casi por completo el aparato clandestino y permitió a la dictadura movilizar miles de soldados para lanzar contra la Sierra Maestra lo que imaginaba sería su ataque final. Otra vez todo dependía de Fidel y su liderazgo.
La ofensiva batistiana fracasó completamente. El Ejército Rebelde, consolidado en Oriente, envió dos columnas, dirigidas por el Che y Camilo Cienfuegos, que atravesaron la mitad de la isla y vencieron en numerosos combates en su región central. Los rebeldes estaban próximos a liberar las ciudades de Santiago de Cuba y Santa Clara. El último día de diciembre el dictador preparó su fuga y en estrecha coordinación con el Embajador norteamericano, dejó instalada en La Habana una Junta Militar que hubiera sido la continuidad de su régimen. Para frustrar la maniobra, Fidel convocó a la huelga general.
El primer día del nuevo año, desde muy temprano el pueblo se hizo dueño de las calles en la capital. Las brigadas juveniles, desprovistas casi completamente de armas, ocuparon todas las estaciones de la policía sin encontrar resistencia de una tropa desmoralizada y nerviosa. Hubo que enfrentar, sin embargo, en otras partes de la ciudad, los disparos de grupos paramilitares del batistato. La huelga continuó hasta el derrumbe total de la tiranía. El 8 de enero Fidel entró triunfante en una ciudad que era ya, finalmente, “fidelista”.
La Revolución triunfante debería encarar obstáculos más poderosos y riesgos aun mayores durante más de medio siglo. La agresión política, diplomática y propagandística, los ataques armados, la subversión y los sabotajes y el bloqueo económico que aun continúa y es el genocidio más prolongado de la historia. Y también el derrumbe de la U.R.S.S. y la desaparición de aliados y socios comerciales y el aislamiento total de la Isla. Ha sido un camino largo y tormentoso que el pueblo recorrió guiado por Fidel.
Cumple ahora noventa años el hombre que debió enfrentar más de seiscientos planes de atentados contra su vida y cuya muerte ha sido anunciada en incontables ocasiones por la propaganda imperialista. Quizá algún día sus enemigos deberán admitir que nunca lo podrán matar. Porque Fidel y su pueblo son uno y lo mismo. Y ese pueblo, en gran medida gracias a él, es invencible.