R. A. Salazar Martínez https://jovencuba.com
Fidel ha inaugurato non solo un nuovo modo di fare ma inoltre, ed anche per questo, di dire, di pronunciare, di enunciare la politica. Alcuni dei suoi discorsi, inutilmente dilatati, saranno dimenticati. Altri, altrettanto lunghi ma memorabili, formano parte del lascito della sua feconda prassi comunicativa, particolarmente preziosa per tutti i cubani impegnati nel progetto socialista, tra cui includo me.
Del suo agire come homo discorsivo, io rimango con il Fidel del 1953, quello della “Storia mi assolverà”, la cui lettura mi ha portato, in ogni momento, alla sua immagine non catturata, solo tesorizzata da alcune menti longeve, pronunciando quell’allegato di difesa come il più acceso dei suoi discorsi: senza dubbio uno dei più grandi vuoti dei nostri archivi audiovisivi, in particolare quel preciso momento in cui pronuncia, davanti ai suoi accusatori, la famosa frase: “Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà”.
Anche rimango con il Fidel delle “Parole agli intellettuali“, quello del 1961, che al di là del conclusivo e categorico aforisma “dentro la Rivoluzione, tutto; contro la rivoluzione nulla”, dichiara che questa “deve rinunciare a coloro che sono incorreggibilmente reazionari”. Sono parole che faccio mie, tanto mie come quelle che, di fronte ad ogni errore commesso o da commettere nell’intellettuale ed in altri campi, ci ricordano sempre che “la Rivoluzione non può pretendere di asfissiare l’arte o la cultura quando una delle mete e uno degli scopi fondamentali della Rivoluzione è sviluppare l’arte e la cultura, proprio perché l’arte e la cultura arrivino ad essere un reale patrimonio del popolo”.
Del suo discorso del 1965 per i martiri del 13 marzo, prendo la frase che meglio riassume la continuità storica della Rivoluzione: «Noi allora saremmo stati come loro, loro oggi sarebbero stati come noi!”
Al momento di evocare l’esempio del Che, sono per me insuperabili le parole contenute nel suo discorso dell’ottobre 1967, per la caduta del Guerrigliero Eroico in Bolivia: “Se vogliamo un modello di uomo, un modello di uomo che non appartiene a questo tempo, un modello di uomo che appartiene al futuro, dal cuore dico che questo modello senza una sola macchia nella sua condotta, senza una sola macchia nel suo atteggiamento, senza una sola macchia nel suo agire, quel modello è il Che! Se vogliamo esprimere come desideriamo siano i nostri figli, dobbiamo dire con tutto il cuore di veementi rivoluzionari: noi vogliamo che siano come il Che!”
Rimango anche con il triste e allo stesso tempo energico “Non possiamo dire che il dolore si condivide. Il dolore si moltiplica. Milioni di cubani piangiamo, oggi, insieme ai cari delle vittime dell’ abominevole crimine. E quando un popolo energico e virile piange, l’ingiustizia trema!” passaggio della sua oratoria superato solo dal lutto del popolo cubano davanti al crimine di cui furono vittime i componenti della squadra di scherma che, il 6 ottobre 1976, ritornavano dalle Barbados su un aereo della Cubana, fatto esplodere in pieno volo da terroristi che già conosciamo.
Frasi come quelle inaugurali del suo discorso alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e sviluppo, Rio 1992, ci ricordano il Fidel visionario, quando quasi nessuno dei leader che lo ascoltavano, tra attenti ed increduli, avevano ancora incorporato il tema del cambio climatico nei loro rispettivi discorsi politici, poiché neppure avevano piena coscienza di ciò: “Un’importante specie biologica è a rischio di scomparire a causa di una rapida e progressiva liquidazione delle sue condizioni naturali di vita: l’uomo”.
Ma della sua prassi comunicativa rimango non solo con tutte quelle frasi prese dal suo prolifico arsenale discorsivo che, ben utilizzato, immagino ci faranno fare di Cuba, sempre socialista, un paese più inclusivo, democratico, partecipativo, necessariamente migliore.
Mi è rimasto, e forse sopra ogni altra cosa, quel homo dialogico che fu in ogni momento. Quello che non perdeva occasione per condividere, interpellare, interscambiare con l’atleta, il giornalista, il maestro, il pioniere, il medico, lo scienziato, il contadino, il costruttore, la casalinga, il cubano comune. Quello dalle cui conversazioni con Frei Betto ed Ignacio Ramonet nacquero, rispettivamente, veri best seller del genere intervista, come “Fidel e la religione” e “Cento ore con Fidel”. Quello a cui, se di interviste si tratta, nessuna domanda sembrerebbe sufficientemente scomoda o difficile, poiché contava sull’abilità, necessaria anche in politica, di saper dare un’ellittica ed elegante digressione, evitando cadere così nelle trappole giornalistiche del più esperto ed incisivo intervistatore.
Oggi, che tutti siamo Fidel condiviso, moltiplicato, sparso, germogliato, la comunicazione costituisce, credo, una delle più preziose eredità, significativamente valide per colui che sia il nostro primo presidente di una inevitabile e prevedibile Cuba “postcastro” che io sono ansioso sia socialista. Non sarà, presumo, un buon oratore come lui, un buon conversatore come lui, tanto abile per la polemica politica come lo sarebbe lui. Ma dovrà tenere a mente, per solo citargli un vicino e conosciuto esempio, Nicolas Maduro, che neppure era né è Hugo Chavez, ma comunica e si comunica con il popolo venezuelano come lo faceva questo.
Per tutti coloro che, tuttavia, non aspiriamo a tanta responsabilità di caricare sulle spalle il destino di una nazione, l’eredità principale di Fidel in materia di comunicazione, la più significativa, sarà quella di essere, saperci che abbiamo il diritto di essere, cittadini comunicativamente attivi, propositivi, interroganti e, quando la situazione lo richieda, contestatori, rivoluzionarmente contestatori.
Almeno è questa la miglior forma, da me conosciuta, per materializzare il concetto di Rivoluzione che ho approvato, liberamente e spontaneamente, solo pochi giorni fa.
El legado comunicacional de Fidel
Por: Rafael Ángel Salazar Martínez
Fidel inauguró no solo una nueva forma de hacer, sino además, y también por eso, de decir, de pronunciar, de enunciar la política. Algunos de sus discursos, innecesariamente dilatados, quedarán en el olvido. Otros, igual de dilatados pero memorables, forman parte del legado de su fecunda praxis comunicacional, particularmente valiosa para todos los cubanos comprometidos con el proyecto socialista, entre los que me incluyo.
De su accionar como homo discursivo, yo me quedo con el Fidel de 1953, el de la “Historia me Absolverá”, cuya lectura me trasportó, en cada momento, a su incapturada imagen, solo atesorada por algunas mentes longevas, pronunciando aquel alegato de defensa como el más encendido de sus discursos: sin dudas uno de los más grandes vacíos de nuestros archivos audiovisuales, sobre todo ese preciso momento en el que pronuncia, ante sus acusadores, la conocida frase: “Condenadme, no importa, La historia me absolverá”.
También me quedo con el Fidel de “Palabras a los Intelectuales”, el de 1961, quien más allá del conclusivo y categórico aforismo “dentro de la Revolución, todo; contra la Revolución nada”, declara que esta “sólo debe renunciar a aquellos que sean incorregiblemente reaccionarios”. Son palabras que hago mías, tan mías como aquellas otras que, ante cada yerro cometido o por cometer en el intelectual y en otros campos, nos recuerdan siempre que “La Revolución no puede pretender asfixiar el arte o la cultura cuando una de las metas y uno de los propósitos fundamentales de la Revolución es desarrollar el arte y la cultura, precisamente para que el arte y la cultura lleguen a ser un real patrimonio del pueblo”.
De su discurso del 1965 por los mártires del 13 de marzo, tomo la frase que mejor sintetiza la continuidad histórica de la Revolución: “¡Nosotros entonces habríamos sido como ellos, ellos hoy habrían sido como nosotros!”
A la hora de evocar el ejemplo del Che, resultan para mí insuperables las palabras contenidas en su discurso de octubre de 1967, por la caída del Guerrillero Heroico en Bolivia: “Si queremos un modelo de hombre, un modelo de hombre que no pertenece a este tiempo, un modelo de hombre que pertenece al futuro, ¡de corazón digo que ese modelo sin una sola mancha en su conducta, sin una sola mancha en su actitud, sin una sola mancha en su actuación, ese modelo es el Che! Si queremos expresar cómo deseamos que sean nuestros hijos, debemos decir con todo el corazón de vehementes revolucionarios: ¡Queremos que sean como el Che!”
Me quedo igualmente con el triste y al propio tiempo enérgico “No podemos decir que el dolor se comparte. El dolor se multiplica. Millones de cubanos lloramos hoy junto a los seres queridos de las víctimas del abominable crimen. ¡Y cuando un pueblo enérgico y viril llora, la injusticia tiembla!”, pasaje de su oratoria solo superado por el luto del pueblo cubano, ante el crimen del que fueron víctimas los integrantes del equipo de esgrima, quienes el 6 de octubre de 1976 retornaban de Barbados en un avión de Cubana, hecho estallar en pleno vuelo por los terroristas que ya sabemos.
Frases como las inaugurales de su discurso en la conferencia de Naciones Unidas sobre medio ambiente y desarrollo, Río 1992, nos recuerdan al Fidel visionario, cuando casi ninguno de los líderes que lo escuchaban, entre atentos e incrédulos, habían incorporado aún el tema del cambio climático a sus respectivos discursos políticos, pues tampoco tenían plena conciencia de él: “Una importante especie biológica está en riesgo de desaparecer por la rápida y progresiva liquidación de sus condiciones naturales de vida: el hombre”.
Pero de su praxis comunicacional me quedo no solo con todas esas frases tomadas de su prolífico arsenal discursivo, que, bien utilizado, intuyo nos harán hacer de Cuba, siempre socialista, un país más inclusivo, democrático, participativo, necesariamente mejor.
Me quedó, además, y puede que sobre todo, con aquel homo dialógico que en todo momento fue. Aquel que no perdía oportunidad para compartir, interpelar, intercambiar con el deportista, el periodista, el maestro, el pionero, el médico, el científico, el campesino, el constructor, la ama de casa, el cubano de a pie. Aquel de cuyas conversaciones con Frei Betto e Ignacio Ramonet nacieron, respectivamente, verdaderos bests sellers del género entrevista, como “Fidel y la Religión” y “Cien Horas con Fidel”. Aquel que, si de entrevistas se trata, ninguna pregunta parecía lo suficientemente incomoda o difícil, pues contaba con la habilidad, necesaria también en la política, de saber dar un elíptico y elegante rodeo, evitando caer con ello en las trampas periodísticas del más avezado e incisivo entrevistador.
Hoy, que todos somos Fidel compartido, multiplicado, esparcido, germinado, el comunicacional constituye, creo yo, uno de sus más valiosos legados, significativamente válido para el que sea nuestro primer presidente de una inevitable y previsible Cuba “postcastro”, la cual ansío socialista. No será, presumo, tan buen orador como él, tan buen conversador como él, tan hábil para la controversia política como lo sería él. Pero deberá tener en cuenta, por solo citarle un cercano y conocido ejemplo, a Nicolás Maduro, que tampoco era ni es Hugo Chávez, pero comunica y se comunica con el pueblo venezolano tanto como lo hacía este.
Para todos aquellos que, en cambio, no aspiramos a la tamaña responsabilidad de cargar a cuestas con los destinos de una nación, el principal legado de Fidel en materia de comunicación, el más significativo, será el de ser, sabernos con derecho a ser, ciudadanos comunicacionalmente activos, propositivos, cuestionadores y, cuando la situación lo amerite, contestatarios, revolucionariamente contestatarios.
Al menos es esa la mejor forma por mi conocida para materializar el concepto de Revolución que refrendé, libre y espontáneamente, hace tan solo unos días.