Elier Ramirez Cañedo http://www.granma.cu
Chiarendo i fatti
Nell’aprile 1959 Fidel si reca negli USA -la sua seconda uscita all’esterno dopo il trionfo della Rivoluzione-, [1] non per chiedere soldi come erano soliti i presidenti della repubblica borghese neocoloniale, ma per spiegare i percorsi che avrebbe preso la Rivoluzione e cercare di ottenere la comprensione del governo e del popolo USA sul nuovo momento storico che si viveva a Cuba.
Tutto avrebbe potuto essere meno traumatico, per gli USA, all’aver risposto in modo diverso alla Rivoluzione cubana. La reazione irata e ostile di Washington solo ottenne incentivare e accelerare la radicalizzazione del processo rivoluzionario e l’avvicinamento -come lo aveva desiderato Allan Dulles affinché servisse da pretesto ad una escalation del conflitto- all’URSS. Realmente la classe dominante USA era incapace di capire quello che stava accadendo sull’isola ed il ruolo della sua nuova leadership. Quello che stava accadendo nella Maggiore delle Antille si discostava da tutti i possibili calcoli. Agli USA era inammissibile pensare che, dopo tanti anni di controllo, con successo, dell’emisfero occidentale, potesse, un paese così vicino, discostarsi dai suoi disegni e influenze.
Davanti all’accettazione di Fidel di un invito da parte della Società Americana di Editori di Giornali di visitare Washington e di parlare alla sua riunione annuale, in aprile, la prima cosa che fece Eisenhower, in una riunione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, fu chiedere se non si poteva negare il visto al leader cubano, per poi – già durante il soggiorno di Fidel in quel paese – evitare la possibilità di un incontro. Preferì andare a giocare a golf, in Georgia, piuttosto che ricevere Fidel. Lasciò questa ‘scomoda’ missione nelle mani del segretario di stato Cristian Herter e del vice presidente Richard Nixon. Quest’ultimo cercò di dar lezione a Fidel su come governare a Cuba e più tardi avrebbe scritto, nelle sue memorie, che sarebbe uscito dall’incontro con il leader cubano convinto che avrebbe dovuto, immediatamente, rovesciare il governo rivoluzionario dell’isola. [2]
Cioè, a solo tre mesi dal trionfo rivoluzionario, quando ancora non si erano stabiliti legami con i sovietici, né firmato la legge di riforma agraria e praticamente non si aveva preso alcuna misura che colpisse, in modo sostanziale, gli interessi USA, l’amministrazione Eisenhower si mostrava poco collaborativa e piuttosto avversa al nuovo governo cubano, in particolare a Fidel Castro. Questo, nonostante il fatto che il leader cubano cercava il modo per non causare una netta rottura con Washington,sebbene avvertisse in ogni discorso, ai vicini del nord, che le cose sarebbero state diverse, poiché a Cuba, per la prima volta, si avrebbe avuto indipendenza e sovranità assoluta.
D’altra parte, le nazionalizzazioni delle proprietà USA, negli anni 1959 e 1960, non furono una deliberata provocazione di Cuba per cercare la rottura delle relazioni con gli USA, ma una necessità della Rivoluzione, affermata dal 1953 da Fidel, nel suo famoso allegato di autodifesa davanti ai tribunali della tirannia batistiana ‘La storia mi assolverà’ e prevista dalla Costituzione del 1940. [3] Furono anche una risposta alle costanti aggressioni del governo di Washington e all’assedio che iniziò molto prima dell’istituzione del blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba per ordine esecutivo del presidente Kennedy, nel febbraio 1962. Tuttavia, le nazionalizzazioni cubane non furono discriminatorie e Cuba era disposta, in ogni momento, a negoziare l’indennizzazione delle proprietà USA espropriate. Così lo fece con altri paesi come Francia, Inghilterra, Irlanda del Nord, Canada e Spagna. Solo il governo USA rifiutò di stabilire una formula di pagamento che non fosse “rapida, adeguata ed efficace”.
Washington ruppe le relazioni diplomatiche con Cuba nel gennaio 1961, dicendo che era una risposta a misure ostili dell’isola, quando in realtà, l’amministrazione Eisenhower, da molto tempo prima, cercava tale rottura. Dalla fine di ottobre 1960 gli USA avevano ritirato Bonsal come ambasciatore a L’Avana.
“Il governo che io rappresentavo -avrebbe ricordato anni dopo Bonsal- aveva fatto tutto il possibile per inabilitare l’economia ed il commercio del paese presso il quale ero accreditato. Era un segreto di Pulcinella che il governo che io rappresentavo stava addestrando ed armando, in maniera accelerata, cittadini cubani esiliati al fine di contribuire al rovesciamento, con la forza, del Governo con cui io stavo mantenendo una parvenza di relazioni diplomatiche.
Per colmo, membri del mio personale, accreditato presso il governo cubano con il diritto all’immunità diplomatica, furono scoperti dalle autorità cubane in attività che detta immunità non doveva coprire”. [4]
Le prove documentali rivelano che i rappresentanti dell’ambasciata USA che permanettero a L’Avana, il Dipartimento di Stato e lo stesso presidente Eisenhower da diversi mesi stavano studiando la possibilità di rompere i rapporti diplomatici con Cuba. Solo aspettavano che ciò si verificasse nel momento più opportuno, preferibilmente insieme con l’OSA, la quale doveva “chiedere” agli USA questa rottura, anche se alcuni paesi della regione si fossero opposti. Il presidente Eisenhower giunse a notare che “si sentirebbe molto felice se prima del 20 gennaio potessimo fare un passo come la rottura dei rapporti con il Governo di Castro fatto in concorso con un certo numero di governi latinoamericani”. [5]
La decisione del governo cubano di limitare il personale dell’ambasciata USA a l’Avana ad 11 membri – gli USA ne avevano più di 300-, lo stesso numero di funzionari che aveva Cuba a Washington, fu il pretesto che venne utile all’amministrazione Eisenhower per rompere le relazioni diplomatiche con Cuba, il 3 gennaio 1961, e presentare l’isola come aggressore.
Fidel spiegò al popolo ed al mondo il perché della decisione di ridurre il personale diplomatico USA presso l’ambasciata di quel paese a l’Avana: “La Rivoluzione ha avuto molta pazienza; la Rivoluzione ha acconsentito che una piaga di agenti del servizio segreto, travestiti da funzionari diplomatici dell’ambasciata USA, sia stato qui cospirando e promuovendo il terrorismo. Ma il Governo Rivoluzionario ha deciso che entro 48 ore, entro 48 ore, l’ambasciata USA non abbia qui neppure un funzionario in più di quelli che noi abbiamo (…) Il fatto che avessimo stabilito un ordine nell’espressione, è servito in questo caso per scoprire un desiderio del popolo. Noi non volevamo dire tutti i funzionari, ma nemmeno un funzionario in più del numero di quelli che noi teniamo negli USA, che sono 11. E questi signori hanno qui più di 300 funzionari, dei quali l’80% sono spie. Se loro vogliono andarsene tutti, allora che se ne vadano! Loro, attraverso la rappresentanza diplomatica hanno introdotto qui un vero e proprio esercito di agenti cospiratori e promotori del terrorismo. Pertanto, il governo rivoluzionario adotta questa posizione che qui ho espresso. Non rompiamo con loro, ma se vogliono andare, buona fortuna!”. [6]
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56 AÑOS DE LA RUPTURA DE LAS RELACIONES DIPLOMÁTICAS EE.UU.-CUBA
Esclareciendo los hechos
Elier Ramírez Cañedo
En abril de 1959 Fidel viaja a los Estados Unidos –su segunda salida al exterior después del triunfo de la Revolución–,[1] no para pedir dinero como estaban acostumbrados los presidentes de la república neocolonial burguesa, sino para explicar los rumbos que tomaría la Revolución y tratar de lograr la comprensión del gobierno y pueblo de Estados Unidos sobre el nuevo momento histórico que se vivía en Cuba.
Todo pudo haber sido menos traumático para Estados Unidos de haber respondido de manera diferente a la Revolución Cubana. La reacción airada y hostil de Washington solo logró incentivar y acelerar la radicalización del proceso revolucionario y el acercamiento –como lo había deseado Allan Dulles para que sirviera de pretexto a una escalada del conflicto– a la URSS. Realmente la clase dominante de Estados Unidos estaba incapacitada para entender lo que sucedía en la Isla y el papel de su nuevo liderazgo. Lo que estaba ocurriendo en la Mayor de las Antillas se iba de todos los cálculos posibles. Les era inadmisible pensar que, luego de tantos años de exitoso control del hemisferio occidental, pudiera un país tan cercano apartarse de sus designios e influencias.
Ante la aceptación de Fidel de una invitación de la Sociedad Americana de Editores de Periódicos para visitar Washington y hablar ante su reunión anual en abril, lo primero que hizo Eisenhower en una reunión del Consejo de Seguridad Nacional fue preguntar si no se le podía negar la visa al líder cubano, para luego –ya durante la estancia de Fidel en ese país– evadir la posibilidad de un encuentro. Prefirió irse a jugar golf en Georgia que recibir a Fidel. Dejó esta «incómoda» misión en manos del secretario de Estado Cristian Herter y el vicepresidente Richard Nixon. Este último trató de dar lecciones a Fidel de cómo gobernar en Cuba y más tarde escribiría en sus memorias que había salido de la reunión con el líder cubano convencido de que había que derrocar al gobierno revolucionario de la Isla de inmediato.[2]
Es decir, solo a tres meses del triunfo revolucionario, cuando aún no se habían establecido los vínculos con los soviéticos, ni firmado la ley de reforma agraria y prácticamente no se había tomado medida alguna que afectara sustancialmente los intereses de Estados Unidos, la administración Eisenhower se mostraba poco cooperativa y más bien adversa con el nuevo gobierno cubano, especialmente con Fidel Castro. Ello, a pesar de que el líder cubano buscaba la manera de no provocar una ruptura abrupta con Washington, si bien advertía en cada discurso a los vecinos del norte que las cosas iban a ser diferentes, pues en Cuba por primera vez habría independencia y soberanía absoluta.
Por otro lado, las nacionalizaciones de propiedades estadounidenses en los años de 1959 y 1960 no fueron una provocación deliberada de Cuba para buscar la ruptura de las relaciones con Estados Unidos, sino una necesidad de la Revolución, planteada desde 1953 por Fidel, en su famoso alegato de autodefensa ante los tribunales de la tiranía batistiana La historia me absolverá y prevista en la Constitución de 1940.[3] También fueron una respuesta a las agresiones constantes del gobierno de Washington y al cerco que comenzó mucho antes de establecido el bloqueo económico, comercial y financiero contra Cuba por orden ejecutiva del presidente Kennedy en febrero de 1962. Sin embargo, las nacionalizaciones cubanas no fueron discriminatorias y Cuba estuvo dispuesta en todo momento a negociar la indemnización por las propiedades estadounidenses expropiadas. Así lo hizo con otros países como Francia, Inglaterra, Irlanda del Norte, Canadá y España. Solo el gobierno de Estados Unidos se negó a establecer una fórmula de pago que no fuera «rápida, adecuada y efectiva».
Washington rompió relaciones diplomáticas con Cuba en enero de 1961, alegando que era una respuesta a medidas hostiles de la Isla, cuando en realidad, el gobierno de Eisenhower desde mucho tiempo antes buscaba ese rompimiento. Desde finales de octubre de 1960 Estados Unidos había retirado a Bonsal como embajador en La Habana.
«El gobierno al cual yo representaba –recordaría años después Bonsal– había hecho todo cuanto podía para incapacitar la economía y el comercio del país ante el cual estaba acreditado. Era un secreto a voces que el Gobierno al que yo representaba estaba entrenando y armando aceleradamente a ciudadanos cubanos exilados a fin de contribuir al derrocamiento por la fuerza del Gobierno con el cual yo estaba manteniendo una semblanza de relaciones diplomáticas.
Para ponerle la tapa al pomo, miembros de mi personal, acreditados ante el Gobierno cubano con el derecho a la inmunidad diplomática fueron descubiertos por las autoridades cubanas en actividades que dicha inmunidad no debía cubrir».[4]
Las evidencias documentales revelan que los representantes de la embajada de Estados Unidos que permanecieron en La Habana, el Departamento de Estado y el propio presidente Eisenhower llevaban varios meses estudiando la posibilidad de romper relaciones diplomáticas con Cuba. Solo esperaban que esta se produjera en el momento más oportuno, preferiblemente de consuno con la oea, la cual debía «pedir» a Estados Unidos esta ruptura, aunque algunos países de la región se opusieran. El presidente Eisenhower llegó a señalar que «se sentiría muy feliz si antes del 20 de enero pudiéramos dar un paso como el rompimiento de relaciones con el Gobierno de Castro hecho en concurrencia con cierto número de Gobiernos latinoamericanos».[5]
La decisión del gobierno cubano de limitar el personal de la Embajada estadounidense en La Habana a 11 miembros –Estados Unidos tenía más de 300–, el mismo número de funcionarios que tenía Cuba en Washington, fue el pretexto que vino como anillo al dedo a la administración Eisenhower para romper las relaciones diplomáticas con Cuba el 3 de enero de 1961 y presentar a la Isla como la agresora.
Fidel explicó al pueblo y al mundo el porqué de la decisión de reducir el personal diplomático de Estados Unidos en la embajada de ese país en La Habana: «La Revolución ha tenido mucha paciencia; la Revolución ha consentido que una plaga de agentes del servicio de inteligencia, disfrazados de funcionarios diplomáticos de la embajada americana, haya estado aquí conspirando y promoviendo el terrorismo. Pero el Gobierno Revolucionario ha decidido que antes de 48 horas, antes de 48 horas, la embajada de Estados Unidos no tenga aquí ni un funcionario más de los que nosotros tenemos (…) El hecho de que hubiésemos establecido un orden en la expresión, ha servido en este caso para descubrir un deseo del pueblo. Nosotros no íbamos a decir todos los funcionarios, sino ni un funcionario más del número de los que nosotros tenemos en Estados Unidos, que son 11. Y estos señores tienen aquí más de 300 funcionarios, de los cuales el 80 % son espías. Si ellos quieren irse todos, entonces ¡qué se vayan! Ellos, a través de la representación diplomática, han introducido aquí un verdadero ejército de agentes conspiradores y promotores del terrorismo. Por lo tanto, el gobierno revolucionario adopta esta posición que ha expresado aquí. No rompemos con ellos, pero si se quieren ir, ¡que les vaya bien!».[6]
Notas
[1] El primer viaje al exterior de Fidel después del triunfo revolucionario fue a Venezuela.
[2] Richard Nixon, Six Crises, Simon& Schuster, Nueva York, 1990 pp.351-352.
[3] Véase Olga Miranda, Cuba/Usa. Nacionalizaciones y Bloqueo, Editorial de Ciencias Sociales, La Habana, 1996.
[4] Citado por Carlos Alzugaray en: Ob.Cit, p.213.
[5] Ibídem, pp.214-215.
[6] Citado por Nelson Valdés,