Geraldina Colotti* – Il Manifesto, 20 gennaio 2017
«Conoscere la verità, proteggere la memoria aiuta a consolidare la democrazia e a costruire il futuro». All’Istituto Italo latinoamericano (Ila), il vicepresidente uruguayano, Raul Sendic, rivolge un breve saluto agli invitati.
Oggetto del discorso, la storica sentenza sul processo Condor, la rete criminale a guida CIA messa in atto dalle dittature sudamericane degli anni ’70-’80 che ha eliminato anche cittadini di origine italiana.
La sentenza di primo grado, a Roma, ha comminato 8 ergastoli e assolto 19 militari, in maggioranza uruguayani, imputati per responsabilità diretta. Una sentenza che, la sera stessa, ha fatto discutere avvocati e famigliari in una sala dell’Hotel Lancelot, per un primo bilancio a caldo con l’associazione 24 marzo.
Da parte uruguayana, c’è stata delusione soprattutto per l’assoluzione del militare Jorge Troccoli, fuggito in Italia e accusato di aver partecipato al sequestro di cittadini italo-uruguayani a Buenos Aires.
Durante la dittatura uruguayana scomparvero circa 200 oppositori, in maggioranza in Argentina, perché i killer del Condor agivano in tutto il Cono Sur e anche in Europa, con la complicità di fascisti e servizi segreti. In Uruguay vi sono state singole condanne per omicidi compiuti nell’ambito del Plan Condor, ma nessun processo diretto alla rete criminale. E ora, le associazioni dei famigliari – che vedono la mano dei militari dietro le lungaggini dei tribunali – temono che queste assoluzioni possano portare alla revisione di quei processi.
All’Ila ne abbiamo discusso con Raul Sendic: che ha lo stesso nome del padre, fondatore dei Tupamaros, prigioniero della dittatura per 12 anni, liberato nel 1985 e morto di malattia a Parigi nel 1989.
Cosa ha significato portare un nome come il suo?
Ha significato molto, perché la vita del mio vecchio ha marcato quella della sua famiglia e la mia, che sono il figlio maggiore e quello più legato alla politica. Per questo, ho vissuto il processo Condor e questa sentenza con una vicinanza particolare. Non mi considero una vittima, ma un testimone diretto di quei fatti, perché ho visto mio padre nei sotterranei della prigione, ho visto in che stato erano ridotti i prigionieri dopo settimane di torture, ho visto portar via mia madre in carcere, con l’irruzione dei militari all’alba. Sono parte di quella storia, di quel passato che i giovani per fortuna non hanno conosciuto, ma a cui dobbiamo guardare: senza spirito di vendetta, ma perché la democrazia si consolida nella difesa della memoria e nella ricerca della verità. Oggi ci sono nuove forme di coordinamento repressivo internazionale, abbiamo la responsabilità di andare avanti nella trasformazione profonda della nostra società, perfezionando la difesa dei diritti, fino a garantire giustizia definitiva.
Pensavamo di ottenere un risultato migliore, ci siamo sentiti defraudati ma, da voi come da noi, la magistratura è indipendente e non entreremo nel merito. Quando ci saranno le motivazioni della sentenza, accompagneremo le decisioni di famigliari e vittime, che sono i principali protagonisti. La battaglia non è finita. Anche se, per quanto ci riguarda, non condividiamo la sentenza, consideriamo molto importante il significato generale del processo, che ci ha unito nel dolore e nella ricerca dei diritti. Una battaglia importante nel difficile momento che sta vivendo l’Europa per diverse ragioni, dalla situazione in Medioriente e alle minacce di terrorismo, alla questione dei migranti, alle disuguaglianze economiche, che interessano anche il nostro continente, nonostante gli indubbi passi avanti. L’atteggiamento della nuova amministrazione Usa invita a cercare soluzioni comuni.
A breve lei parteciperà al vertice della Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici. Con quali obiettivi?
Un’amministrazione Usa che inizia la gestione con l’immagine di un muro non lascia ben sperare. Bisogna fortificare l’integrazione latinoamericana per far fronte alla nuova situazione. Quando tutti siamo d’accordo, l’integrazione è facile, ora, di fronte alle nuove sfide – dal processo di pace in Colombia alla difficile situazione interna del Venezuela, al cambio di indirizzo in Argentina e in Brasile -, i governi latinoamericani sono chiamati a una maggior responsabilità.
Il Venezuela presiede importanti organismi internazionali. Perché ha problemi nel Mercosur? E perché il suo compagno di partito Almagro, capo dell’OSA, tace sulle torture in Messico ma attacca Maduro?
L’Uruguay ha trasferito la presidenza pro-tempore al Venezuela e quando altri soci hanno voluto espellerlo, abbiamo dato più tempo perché si mettesse a norma con alcune regole del Mercosur. E abbiamo insistito perché restasse, con voto ma senza voce. Sia Pepe Mujica che io abbiamo espresso disaccordo dalle scelte di Almagro.
Nel suo paese vi sono state proteste per l’intenzione di aderire agli accordi di libero commercio con l’Europa.
Siamo una piccola economia, prevalentemente basata sulle esportazioni agroindustriali, cerchiamo facilitazioni su tutti i mercati internazionali a partire dal Mercosur: con la Cina, con la Russia e con l’Europa. L’integrazione regionale non deve diventare un freno.
*Pubblichiamo su gentile concessione dell’Autrice