di Geraldina Colotti* – il Manifesto
Nelle fantasie bipartisan di chi vuole cacciare Maduro dal governo in Venezuela e farla finita con il socialismo bolivariano, c’è quello che potremmo chiamare il “modello nicaraguense”: la transizione verso il ritorno al neoliberismo garantita da una figura accettata dai moderati di un campo e dell’altro.
In questo schema, caldeggiato da settori dell’ex centro-sinistra venezuelano (Accion Democratica di Henry Ramos Allup) e dai loro sostenitori europei (Allup è il vicepresidente dell’Internazionale socialista), la Violeta Chamorro del Venezuela potrebbe essere stata trovata nella Procuratrice generale Luisa Ortega Diaz.
Un tempo considerata vicina a Diosdado Cabello (il numero due del partito di governo, PSUV), Ortega Diaz si sta smarcando sempre più dal chavismo con dichiarazioni e prese di posizioni stridenti anche rispetto al suo ruolo. In Venezuela se ne discute e si specula. Le dichiarazioni della Fiscal General, che ha una lunga storia di militanza a sinistra e nelle associazioni per i diritti umani della IV Repubblica, vengono accolte bene anche da quell’area magmatica che si definisce Marea Socialista e che comprende ex figure di governo non più riconfermate da Maduro.
Questa componente, che cerca di ritagliarsi uno spazio politico in assenza di un vero radicamento popolare, sta proponendo uno spazio di incontro tra “quelli che non vogliono la polarizzazione”. Perché non lo propongono all’interno dell’Assemblea Costituente lanciata da Maduro a tutti i settori del paese? Mistero. Alcune loro idee – un audit sul debito estero, un’indagine approfondita sulla corruzione interna e il blocco dello sfruttamento della zona dell’arco minerario – potrebbero sembrare proposte più di sinistra.
Ma queste posizioni vengono da tempo discusse vivacemente all’interno del chavismo e della “democrazia partecipata e protagonista” e anche in quello che ora si costituisce come un nuovo “Fronte antimperialista”, composto dal Partito comunista, dal partito Redes (un po’ simile all’Autonomia diffusa) e da altre formazioni minori che non si sono sciolte nel PSUV. Nell’area che si è definita “chavismo critico” spicca un ex uomo di governo, Nicmer Evans, che di cose “di sinistra” ne dice poche.
L’unica “proposta” è un formalismo meccanico, il feticcio delle regole avulse dallo scontro fra interessi in lotta, che sempre ridefinisce il rapporto tra conflitto e consenso. Niente di alternativo, comunque. E poi per andar dove? All’indietro, verso il ripristino della “democrazia rappresentativa” della IV Repubblica. La via “nicaraguense” serve solo ad ammorbidire la pillola.
Nei programmi delle destre latinoamericane, che vediamo applicati nei due grandi paesi in cui sono tornate al governo (Argentina e Brasile), si dispiega un neoliberismo selvaggio ove le oligarchie guidate dai grandi poteri multinazionali vogliono riprendersi tutta la torta. Senza mediazioni e con l’arroganza razzista e neocoloniale che le caratterizza. Di certo, tutto serve ad alimentare il racconto di un chavismo alla canna del gas, obbligato a reprimere chi chiede “libertà”.
Lo schema è invece il medesimo del 2014, che Ortega Diaz ha visto da vicino durante l’attacco violento al Ministerio Pubblico nell’aprile di quell’anno, e che allora ha duramente sanzionato attraverso l’azione dei suoi magistrati. Un attacco oggi molto più violento e articolato perché sostenuto da Trump e dagli organismi internazionali, nuovamente egemonizzati dai paesi tornati a destra. Un coro subalterno ai diktat di Washington che preme per esportare in Venezuela il “modello siriano” o libico, per trasformare anche il continente latinoamericano in una polveriera.
Non si sente scomoda la Fiscal nel raccogliere il sostegno “peloso” di paesi come il Messico o la Colombia che garantisti non sono? Di sicuro, registra un pericolo, insito nell’”azzardo” di Maduro nel chiedere al popolo venezuelano se vuole tornare indietro o “blindare” la democrazia partecipativa che ha scelto con la costituzione del 1999. Il rischio esiste, ma l’intento è tutt’altro che regressivo, tutt’altro che autoritario. E serve a far discutere il paese con il confronto e il voto, non con le pallottole.
Chi vuole tornare alla “democrazia rappresentativa” (ovvero al balletto asfittico delle elezioni senza controllo e al neoliberismo pieno) è invece precisamente il campo che sostiene Ortega Diaz. Ramos Allup, leader di Accion Democratica, nel suo linguaggio scurrile e machista, ha il pregio della chiarezza: dopo aver bollato come “una cagata questa prostituente emessa da un regime immondo”, per smentire la notizia di essersi iscritto come candidato per la Costituente, ha preannunciato nuova penuria e sabotaggio delle imprese importatrici.
E intanto, Julio Borges, attuale presidente del Parlamento (di opposizione) e membro della sua coalizione MUD, lancia appelli alle imprese e alle banche di mezzo mondo affinché facciano affondare il paese. E la grande impresa Polar, che detiene gran parte dei prodotti della canasta basica, ha deciso nuovamente di sospendere la produzione.
Con quale gioco di fioretto si può fermare l’avanzata delle destre, sostenuta da un’offensiva internazionale di queste proporzioni? Il Venezuela è un laboratorio di guerra e la strategia della confusione ne è un elemento cardine. Mettere sullo stesso piano le cause ingiuste e quelle giuste, l’attacco dei dominanti e la resistenza degli oppressi, far appello a un’improbabile neutralità, serve solo a intorpidire le acque o a procurarsi un salvagente in caso di mala parata.
Vale, a questo riguardo, l’opportuna lettera della Rete degli intellettuali, artisti e movimenti sociali in difesa dell’umanità che risponde a quella firmata da un gruppo di accademici di vari paesi contro il processo bolivariano che reca il titolo “Appello urgente per fermare l’escalation di violenza in Venezuela”. Un testo a senso unico, che non nomina mai l’origine delle violenze e l’attacco alla democrazia da parte delle destre che hanno calpestato a più riprese le regole istituzionali, usando il parlamento come luogo di eversione.
Chi accuserà gli accusatori? Chiede invece il testo in difesa della rivoluzione bolivariana, mettendo il dito sulla piaga dell’eterno ritorno di un vizio storico, quello del “né-né”: dell’accademico incapace di assumersi la complessità del reale e non solo di nominarla; incapace di “prender parte”, non per l’istituito purchessia, ma nel senso gramsciano del termine: per quei soggetti popolari organizzati che si situano proprio “in basso e a sinistra”, in quel “camminare domandando” che trova risposta facendo tesoro delle batoste.