È difficile leggere in modo diverso la sentenza del giudice: è una condanna politica, che cerca di dare una frustata in più ad un paese che vive di soprassalti istituzionali da tre anni, in mezzo ad una severa crisi socioeconomica.
Come caratterizzare altrimenti una condanna a 9 anni di prigione per colui che dirige tutte le inchieste presidenziali svolte per le elezioni del 2018? È una condanna politica, senza dubbio, per un appartamento sul quale non hanno nessuna prova (firma, contratto, trasloco, eccetera) che dimostri che sia dell’ex presidente, come è rimasto dimostrato nell’udienza, mesi fa.
Chi condanna il dirigente storico sindacale è il pirotecnico e mediatico giudice Moro che appare in decine di fotografie sorridendo vicino ad Aecio Neves -seriamente implicato nella causa Lava Jato- ed al barcollante Michel Temer, che potrebbe essere rimpiazzato da Rodrigo Maia in questi giorni. Molto lontano dall’equidistanza politica sotto la quale i mass media regionali cercano di situare Moro, è un giudice il cui obiettivo finale è rimasto chiaro: che Lula non competa (o lo faccia seriamente condizionato) nelle elezioni presidenziali del 2018. La campagna della destra -la stessa che ha sferrato il golpe a Rousseff – avrà ora un sicuro slogan in caso che Lula decida ugualmente di competere: “Come votare qualcuno già condannato?.”
Tuttavia, la storia latinoamericana dimostra che la strategia della destra brasiliana è ben rischiosa, potrebbe colpirla di ritorno come un boomerang. Lula non solo dirige le inchieste di intenzione di voto rispetto all’anno prossimo, ma i sondaggi dimostrano come sia l’ex presidente vivo più considerato della storia del suo paese. Governò in un periodo di bonaccia economica e ridistribuì la ricchezza. Riuscirà questa condanna in prima istanza ad abbassare il suo indice di popolarità, o potrà essere vista come una decisione arbitraria di quelli che effettuarono già un golpe alla democrazia brasiliana nel 2016? Le prossime settimane lo diranno. Lula che sopravvisse a quattro decadi di assedio del gruppo Globo, pensa di sopravvivere al giudice Moro.
Brasile dimostra di essere un esperimento della destra regionale in vari sensi. Primo perché dirige un profondo aggiustamento dopo una decade di ampliamento dei diritti: Temer ritagliò l’investimento sociale, principalmente nella salute e nell’educazione, per le prossime due decadi e ha appena approvato nel Senato una riforma lavorativa profondamente regressiva. Ma inoltre perché la persecuzione contro Lula può essere uno specchio nel quale si guarderebbero Argentina e Paraguay, dove Cristina Fernandez de Kirchner e Fernando Lugo, rispettivamente, mantengono ancora una vigorosa attività politico-elettorale.
La condanna contro Lula, oltre ad essere politica, sembra essere un messaggio dell’establishment all’insieme dei leader popolari della regione che, anche se hanno le corporazioni mediatiche, giudiziali e finanziarie contro di loro, continuano a dirigere le inchieste. Staremo entrando nella fase di un “Piano Condor giudiziale”, come affermò recentemente Eugenio Raul Zaffaroni? Fino a dove si azzarderanno la destra brasiliana e quella latinoamericana in questo tentativo di “restaurazione conservatrice” che vive il continente? Ci saranno nuove “condanne politiche” nel Cono Meridionale? Le domande sono sul tavolo. Nel frattempo, la difesa dell’ex presidente brasiliano farà un ricorso contro la condanna e ricorrerà al tribunale di seconda istanza che ora avrà sulle sue spalle il peso di definire se conferma o assolve.
preso da Pagina 12 di J, Manuel Karg – http://it.cubadebate.cu