Milioni di Lula. Chi hanno condannato?

Pablo Gentili http://www.cubadebate.cu

I padroni del potere non perdonano. Soprattutto quando perdono. I padroni del potere sanno il rischio che corrono. E non perdono tempo. Assalgono con tutta le loro forze, non sprecano l’opportunità, si organizzano e dispiegano tutti le loro strategie di guerra e di manipolazione. Mai si difendono, sempre attaccano. I padroni del potere non riposano, anche se a volte sembrano disorientati, senza rotta, alla deriva. Anche se a volte rimangono in silenzio e, apparentemente, inoffensivi, sconfitti.

Quando questo accade, quelli che combattono i padroni del potere corrono un serio pericolo. Perché i padroni del potere non riposano né si arrendono così facilmente. Alcune volte, addirittura, quando non azzeccano con le loro munizioni contro i difensori della democrazia e dell’uguaglianza, i padroni del potere stanno, semplicemente, esercitando come sbagliarle. Poiché hanno una mano ferma, si esercitano sulla mancanza di mira, facendoci credere che non ci colpiscono perché siamo più pronti o più veloci di loro.

La metamorfosi è lo stato naturale dei padroni del potere: si trasmutano, cambiano, si adattano, ringiovaniscono, rinascono. E lo fanno perché sanno che da questo dipende il dominio e lo sfruttamento umano: al sembrare naturale, di diventare una parte costitutiva del funzionamento del mondo e delle cose. Il segreto dei padroni del potere è nel convincerci che non sono loro i veri padroni del potere, ma quelli che soffrono le loro conseguenze, coloro che sopportano con la loro sofferenza e con il loro dolore l’arbitrarietà, la prepotenza e la presunta superiorità intellettuale e morale di coloro che hanno abbastanza soldi per comprare i nostri diritti e la nostra dignità, trasformandoli in un cumulo di macerie.

I padroni del potere non perdonano quando perdono. Così, quando gli strappiamo, anche sia un pezzettino del loro potere, dobbiamo stare attenti. Perché è in quel momento che i padroni del potere si rendono conto che possiamo essere più pericolosi di quello che sembriamo. E si preparano a distruggerci. I padroni del potere non accettano perdere. Soprattutto il loro privilegio di porre nome alle cose, di spiegare come funziona il mondo e di porre limiti ai nostri sogni. Neppure il diritto, che si sono attribuiti, di costruire muri alle nostre speranze, d’imporre la paura al nostro futuro. I padroni del potere sanno che la storia la scrivono i cacciatori e non i leoni. Perciò si scandalizzano quando un leone gli scappa dalla gabbia. Si pisciano e cagano dalla paura. E così come stanno, così come sono, esseri umani che sembrano fogne, pieni di merda nei loro corpi e nelle loro anime vanno a caccia. I padroni del potere sanno che il più pericoloso che esiste è che qualcuno di quelli che nacquero per servire, per obbedire e, semplicemente, vivere di ciò che avanza, decida fare, costruire o scrivere la storia a suo modo. Quando ciò avviene i padroni del potere non perdonano.

In Brasile, per 500 anni, i padroni del potere regnarono gloriosi. Lo fecero quasi sempre difesi da brutali ed interminabili dittature o da brevi, fragili ed instabili democrazie. Mai immaginarono, i padroni del potere, che, in Brasile, sarebbe giunto alla presidenza della repubblica un Nordestino piccolo e corpulento, a malapena alfabetizzato. Un operaio siderurgico, della periferia di San Pablo. Un ignorante. Un emigrante. Uno che lasciò il suo posto. Uno che non esisteva ed era predestinato a non esistere.

Lula nacque in una famiglia contadina infinitamente povera, in una delle regioni più abbandonate e taciute del Brasile. Figlio di una madre piena di sapienza ed amore, fece crescere e si prese cura, da sola, di una montagna di figli, in una terra secca ed egoista, indifferente ed invecchiata. Un deserto di dolore e sofferenza, un deserto in cui regna la solitudine degli esseri umani che non sprecano acqua neppure per piangere. Lula è nato lì. E lì crebbe, facendo quello che facevano le famiglie ogni dannata domenica: seppellire coloro che erano morti durante la settimana, per lo più bambini/e o anziani, che in quel deserto di miseria e di oppressione erano soliti essere quelli che conseguivano passare i 50 anni di qualcosa di simile alla vita. Lì imparò ciò che non ha mai dimenticato: che mai si sarebbe lasciato sconfiggere dalla fame, dall’incomprensione e dal dolore. Né dalla prepotenza dei padroni del potere.

Un giorno, senza alcun annuncio o cerimonia, sua madre raggruppò i figli, li pettinò e vestì con abiti puliti, guardò per alcuni secondi la piccola casa che li aveva accolti per tanto tempo e caricò il poco che avevano su un carretto trainato da un asino, vecchio ed assetato. Partì per sempre, senza dire addio a quell’inferno. Percorse chilometri e chilometri, in un pellegrinaggio di incertezza e speranza, aggrappata a questa montagna di figli. I poveri, come la maggior parte degli esseri umani, hanno due braccia. E solo con due braccia conseguono, allo stesso tempo, abbracciare una dozzina di figli. E accarezzarli. E baciarli. E prendersi cura di loro, dandogli protezione, trasmettendogli sicurezza e conforto. I padroni del potere hanno paura dei leoni. Ma molto di più delle leonesse. Perché sanno che è nel misterioso silenzio di quelle carezze che si può generare il più pericoloso fermento di emancipazione, il più incontrollabile impulso della rivoluzione.

Quello che segue di questa storia è più o meno noto.

Lula continuò a crescere e si salvò, a differenza di molti altri, dal morire di fame, o di febbre gialla o di colera o di difterite, o di una semplice diarrea. Lula continuò a crescere e comprendere il significato di quell’interminabile viaggio dall’inferno all’inferno, dal deserto alla favela, dall’oppressione alla lotta.

Il giorno che assunse la presidenza del Brasile, ricordò sua madre, come ogni giorno, e disse quello che alcuni avrebbero inteso come una molto semplice e quasi banale aspirazione, anche se era una vera e propria promessa di trasformazione:nel Brasile che stava nascendo, nel paese che avrebbe stabilito una democrazia dei cittadini/e con diritti effettivi, mai più alcuno sarebbe morto di fame. Mai più. I padroni del potere tremarono quando lo ascoltarono. Ma tremarono molto di più quando cominciò a realizzarla.

Il Brasile fu eliminato dalla Mappa delle Fame dell’ONU. Ma questo era solo l’inizio. I ricchi credono che quando i poveri hanno quella che viene chiamata la fame, tutto si risolve con un po’ di avanzi di cibo che gli riempia le pance e gli neutralizzi il cervello. I ricchi non capiscono la fame, perché i ricchi, quasi mai, capiscono la vita. Ed, in Brasile, i diritti, come il pane, cominciarono a moltiplicarsi. Il paese, per la prima volta, sembrò una nazione popolata da esseri umani la cui libertà non dipendeva dal continuare ad essere schiavi, di esseri umani la cui dignità non dipendeva dal continuare ad essere maltrattati, ignorati, disprezzati.

Mentre il Brasile guadagnava il riconoscimento ed il rispetto internazionale, diventando Lula uno dei più grandi leader mondiali del nuovo secolo, i padroni del potere maturavano, moltiplicavano e nutrivano, ogni secondo, il loro odio di classe. Come se presenziassero ad una tragedia destinata a svolgere il suo inevitabile destino di fallimento, vedevano che quella che noi chiamiamo patria, e loro credono che sia loro proprietà, loro eredità o loro privilegi, cominciava a scorrergli come acqua tra le grassottelle dita e le loro unghie smerigliate.

La vendetta sarebbe brutale ed istruttiva. La vendetta doveva porre in evidenza che questo non poteva tornare ad accadere poiché non si può torcere il corso alla natura: i poveri nacquero per essere poveri ed i padroni del potere per essere i padroni di quello che rubarono, espropriarono o colonizzarono, facendoci credere che lo ottennero grazie alla loro intelligenza, capacità, sforzo ed abilità. Ognuno ha ciò che merita ed è padrone di ciò che gli appartiene. Questo dissero.

E i padroni del potere fanno ciò che dicono.

Poche ore fa, Lula è stato condannato a nove anni e mezzo di prigione per un crimine che non ha commesso. Ma questo, al potere, non importa. Per i padroni del potere la giustizia è un alibi per riprodurre, moltiplicare e amplificare le ingiustizie, senza che si noti. Loro sanno che il segreto di criminalizzare la politica è politicizzando la giustizia, manipolando giudici e codardi, affinché ristabiliscano l’ordine, affinché pongano i poveri al loro posto.

La condanna di Lula e la reale possibilità di inabilitarlo politicamente per il resto della sua vita cerca, naturalmente, di impedire che Lula ritorni alla presidenza del paese, proscriverlo, umiliarlo, neutralizzarlo. Ma cerca molto più di questo. La sua condanna, come è stato il golpe che destituì Dilma Rousseff, cerca di istruire, insegnare. La condanna di Lula è una lezione destinata ad educare le madri che ancora non sono salite, con i loro figli, su un carro trainato da un asino, vecchio ed assetato. Una pedagogia politica della paura e della sottomissione per coloro che vivono dall’altra parte del muro. Una  magistrale lezione di opprimente saggezza per coloro che hanno l’impertinenza di lottare per destituire i padroni del potere dai loro privilegi ed immunità. La sentenza è stata, più che altro, una semplice, chiara e diretta minaccia. I padroni del potere sanno che il miglior apprendimento per demoralizzare e smobilitare quelli che lottano per un mondo più giusto, è produrre timore e frustrazione, l’implacabile sensazione che tutto sia perduto.

Non hanno condannato Lula. Hanno condannato i tanti Lula che ancora stanno per nascere.

Ciò che i padroni del potere non sanno e che si rifiutano di imparare, è che coloro che sopravvivono alla fame, sopravvivono anche ai loro attacchi e non si lasciano sconfiggere così facilmente, anche quando gli applicano pene “esemplari” per crimini che non hanno commesso. Per bandire, umiliare e neutralizzare chi sopravvisse alla fame, fu un operaio siderurgico alla periferia di San Pablo e giunse alla presidenza di una delle dieci nazioni più potenti del mondo, ci vuole molto di più di una condanna. Bisogno che smetta di essere un esempio, un simbolo di dignità e di lotta. Ciò che i padroni del potere non sanno e si rifiutano di imparare è che c’è un Lula piccolo e corpulento, ma che si specchia in migliaia, in milioni di Lula, che neppure si arrenderanno così facilmente. Milioni di Lula che si moltiplicano e crescono. Milioni di Lula che nasceranno, anche se i padroni del potere sognano di estinguerli ed eliminarli. Milioni di Lula che rafforzano in un grido di indignazione che esige giustizia. La tragedia dei padroni del potere è sapere che mai otterranno di farla finita con Lula. Perché Lula siamo tutti. E lo continueremo ad essere.

Milioni di Lula, ogni giorno sempre più.


Millones de Lulas ¿A quién condenaron?

Por: Pablo Gentili

Los dueños del poder no perdonan. Especialmente, cuando pierden. Los dueños del poder saben el riesgo que corren. Y no se andan con vueltas. Embisten con todas sus fuerzas, no desperdician la oportunidad, se organizan y despliegan todas sus estrategias de guerra y manipulación. Nunca se defienden, siempre atacan. Los dueños del poder no descansan, aunque a veces parecen desorientados, sin rumbo, a la deriva. Aunque a veces se mantienen en silencio y aparentemente inofensivos, derrotados. Cuando esto ocurre, los que combaten a los dueños del poder corren un serio peligro. Porque los dueños del poder no descansan ni se rinden tan fácilmente. Algunas veces, inclusive, cuando no aciertan sus municiones contra los defensores de la democracia y de la igualdad, los dueños del poder simplemente están practicando cómo errarles. Como tienen buen pulso, practican su falta de puntería, haciéndonos creer que no nos aciertan porque somos más listos o más rápidos que ellos.

La metamorfosis es el estado natural de los dueños del poder: se trasmutan, cambian, se adaptan, rejuvenecen, renacen. Y lo hacen porque saben que de eso depende la dominación y la explotación humana: de parecer natural, de volverse una parte constitutiva del funcionamiento del mundo y de las cosas. El secreto de los dueños del poder está en convencernos de que no son ellos los verdaderos dueños del poder, sino los que sufren sus consecuencias, los que soportan con su sufrimiento y con su dolor la arbitrariedad, la prepotencia y la supuesta superioridad intelectual y moral de los que tienen el dinero suficiente como para comprar nuestros derechos y nuestra dignidad, transformándolos en una montaña de escombros.

Los dueños del poder no perdonan cuando pierden. Por eso, cuando les arrebatamos aunque sea un pedacito de su poder, debemos andar con cuidado. Porque es en ese momento que los dueños del poder se dan cuenta que podemos ser más peligrosos de lo que parecemos. Y se prepararán para destrozarnos. Los dueños del poder no aceptan perder. Especialmente, su privilegio de ponerle nombre a las cosas, de explicar cómo funciona el mundo y de trazarle límites a nuestros sueños. Tampoco el derecho que se han atribuido de construirle muros a nuestras esperanzas, de imponer el miedo a nuestro futuro. Los dueños del poder saben que la historia la escriben los cazadores y no los leones. Por eso, se estremecen cuando un león se les escapa de la jaula. Se mean y se cagan de miedo. Y así como están, así como son, seres humanos que parecen cloacas, llenos de mierda en sus cuerpos y en sus almas, salen de cacería. Los dueños del poder saben que lo más peligroso que existe es que alguno de los que nacieron para servir, para obedecer y simplemente para vivir de lo que sobra, decida hacer, construir o escribir la historia a su manera. Cuando esto ocurre, los dueños del poder no perdonan.

En Brasil, durante 500 años, los dueños del poder reinaron gloriosos. Lo hicieron casi siempre amparados en brutales e interminables dictaduras o en breves, frágiles e inestables democracias. Nunca imaginaron los dueños del poder que, en Brasil, podría llegar a la presidencia de la república un nordestino bajito y fortachón, apenas alfabetizado. Un obrero metalúrgico de la periferia de San Pablo. Un ignorante. Un retirante. Uno que salió de su lugar. Uno que no existía y que estaba predestinado a no existir.

Lula nació en una familia campesina infinitamente pobre, en una de las regiones más abandonadas y silenciadas de Brasil. Hijo de una madre que llena de sabiduría y amor, crio y cuidó solita una montaña de hijos, en una tierra seca y egoísta, indiferente y envejecida. Un páramo de dolor y sufrimiento, un desierto donde reina la soledad de seres humanos que no desperdician agua ni siquiera para llorar. Lula nació allí. Y allí creció, haciendo lo que hacían las familias cada maldito domingo: enterrar a los que habían muerto durante la semana, casi siempre niños y niñas o los más viejos, que en ese desierto de miseria y de opresión solían ser los que conseguían pasar los 50 años de algo parecido a la vida. Allí aprendió lo que nunca olvidó: que jamás se dejaría derrotar por el hambre, por la incomprensión y el dolor. Ni por la prepotencia de los dueños del poder.

Un día, sin ningún anuncio o ceremonia, su madre agrupó a los hijos, los peinó y vistió con ropa limpia, miró durante algunos segundos la pequeña casa que los había cobijado durante tanto tiempo y montó lo poco que tenían en un carro tirado por un burro viejo y sediento. Partió para siempre, sin despedirse de ese infierno. Recorrió kilómetros y kilómetros, en una peregrinación de incertidumbre y esperanza, abrazada a esa montaña de hijos. Los pobres, como casi todos los seres humanos, tienen dos brazos. Y sólo con dos brazos consiguen al mismo tiempo abrazar una docena de hijos. Y acariciarlos. Y besarlos. Y cuidarlos, dándoles protección, transmitiéndoles seguridad y consuelo. Los dueños del poder les temen a los leones. Pero mucho más a las leonas. Porque saben que es en el silencio misterioso de esas caricias que puede engendrarse el más peligroso fermento de la emancipación, el más incontrolable impulso de la revolución.

Lo que sigue de esta historia es más o menos conocido.

Lula continuó creciendo y se salvó, a diferencia de tantos otros, de morir de hambre, o de fiebre amarilla, o de cólera, o de difteria, o de una simple diarrea. Lula siguió creciendo y entendiendo el significado de ese interminable viaje del infierno al infierno, del desierto a la favela, de la opresión a la lucha.

El día que asumió la presidencia de Brasil, recordó a su madre, como todos los días, y dijo lo que algunos entenderían como una muy simple y casi banal aspiración, aunque era una verdadera promesa de transformación: en el Brasil que estaba naciendo, en el país que establecería una democracia de ciudadanos y ciudadanas con derechos efectivos, nunca más nadie se moriría de hambre. Nunca más. Los dueños del poder temblaron cuando lo escucharon. Pero mucho más temblaron cuando comenzó a cumplirlo.

Brasil fue eliminado del Mapa del Hambre de las Naciones Unidas. Pero ese era sólo el comienzo. Los ricos creen que cuando los pobres tienen eso que se llama hambre, todo se resuelve con algunos restos de comida que les llenen las barrigas y les neutralicen el cerebro. Los ricos no entienden el hambre, porque los ricos, casi nunca, entienden la vida. Y, en Brasil, los derechos, como los panes, comenzaron a multiplicarse. El país, por primera vez, se pareció a una nación poblada por seres humanos cuya libertad no dependía de seguir siendo esclavos, de seres humanos cuya dignidad no dependía de seguir siendo maltratados, ignorados, despreciados.

Mientras Brasil ganaba reconocimiento y respeto internacional, volviéndose Lula uno de los más grandes líderes globales del nuevo siglo, los dueños del poder gestaban, multiplicaban y alimentaban, a cada segundo, su odio de clase. Como si presenciaran una tragedia que estaba destinada a cumplir su inevitable destino de fracaso, veían que eso que nosotros llamamos patria, y ellos creen que es su propiedad, su herencia o sus privilegios, comenzaba a escurrírseles como el agua entre sus dedos rechonchos y sus uñas esmeriladas.

La venganza sería brutal y aleccionadora. La venganza debía dejar en evidencia que esto no podía volver a ocurrir porque a la naturaleza no se le tuerce el rumbo: los pobres nacieron para ser pobres y los dueños del poder para ser los dueños de lo que robaron, expropiaron o colonizaron, haciéndonos creer que lo obtuvieron gracias a su inteligencia, su capacidad, su esfuerzo o su habilidad. Cada uno tiene lo que merece y es dueño de lo que le pertenece. Eso dijeron.

Y los dueños del poder hacen lo que dicen.

Hace algunas horas, Lula fue condenado a nueve años y medio de prisión por un delito que no cometió. Pero eso, al poder, no le importa. Para los dueños del poder la justicia es una coartada para reproducir, multiplicar y amplificar las injusticias, sin que se note. Ellos saben que el secreto de judicializar la política está en poder politizar la justicia, manipulando jueces y cobardes, para que restablezcan el orden, para que pongan a los pobres en su debido sitio.

La condena de Lula y la posibilidad real de inhabilitarlo políticamente por el resto de su vida busca, naturalmente, impedir que Lula vuelva a la presidencia del país, proscribirlo, humillarlo, neutralizarlo. Pero busca mucho más que eso. Su condena, como lo fue el golpe que destituyó a Dilma Rousseff, busca instruir, enseñar. La condena de Lula es una lección destinada a educar a las madres que aún no se subieron con sus hijos a un carro tirado por un burro viejo y sediento. Una pedagogía política del miedo y la sumisión para los que viven del otro lado del muro. Una clase magistral de sabiduría opresora para los que tengan la impertinencia de luchar para destituir a los dueños del poder de sus privilegios e inmunidades. La sentencia ha sido, más bien, una simple, clara y directa amenaza. Los dueños del poder saben que el mejor aprendizaje para desmoralizar y desmovilizar a los que luchan por un mundo más justo, es producir temor y frustración, la implacable sensación de que todo está perdido.

No condenaron a Lula. Condenaron a los Lulas que aún están por nacer.

Los que los dueños del poder no saben y se resisten a aprender, es que los que sobreviven al hambre, sobreviven también a sus ataques y no se dejan derrotar tan fácilmente, ni siquiera cuando les aplican penas “ejemplares” por delitos que no han cometido. Para proscribir, humillar y neutralizar a quien sobrevivió al hambre, fue obrero metalúrgico en la periferia de San Pablo y llegó a la presidencia de una de las diez naciones más poderosas del mundo, hace falta mucho más que una condena. Hace falta que deje de ser un ejemplo, un símbolo de dignidad y de lucha. Lo que los dueños del poder no saben y se resisten a aprender es que hay un Lula bajito y fortachón, pero que se espeja en miles, en millones de Lulas que tampoco se rendirán tan fácilmente. Millones de Lulas que se multiplican y crecen. Millones de Lulas que van a nacer, aunque los dueños del poder sueñen con extinguirlos y eliminarlos. Millones de Lulas que se fortalecen en un grito de indignación que exige justicia. La tragedia de los dueños del poder es saber que nunca conseguirán acabar con Lula. Porque Lula somos todos. Y lo seguiremos siendo.

Millones de Lulas, cada día más.

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