Iniziate le 72 ore decisive per il futuro della Rivoluzione

di Gerladina Colotti, Caracas, 27 luglio

Nell’ascensore dalle porte capestro, un ragazzo dal sorriso aperto impedisce alla nuova venuta di rimetterci il naso. Scambio di battute. Dove sta andando, perché si trova qui? Quando si è da sole in Venezuela in un momento simile, un po’ di prudenza nelle risposte non guasta. La sera prima ci siamo incappate in un esagitato portoghese che guidava il taxi imprecando contro Maduro come si brontola contro il cambio del tempo: dava per scontato che un’europea dovesse essere d’accordo con lui a prescindere. Perciò ora restiamo nel vago.

Ribaltiamo la domanda: “Lei che fa?” “Operaio petrolifero – dice il ragazzo – vengo dal Zulia per presentare al presidente di Pdvsa un progetto di lavoro che la mia squadra ha messo a punto: si risparmia sui tempi, sui costi e con una miglior qualità di lavoro sulle piattaforme”.

La storia ci interessa. Siamo nelle 48 ore dello “sciopero generale” proclamato dall’opposizione che, secondo i media internazionali, avrebbe avuto un’adesione superiore al 90%. Qual è l’umore fra gli operai petroliferi, nerbatura della principale ricchezza del paese?

Il ragazzo racconta. Lavorare sulle piattaforme – spiega – è sempre stato il suo sogno. Prima di Chavez, però, era difficile accedere senza specializzazione per una famiglia povera, poi c’erano le mafie del lavoro, le tangenti, certe vie gerarchiche da seguire. Insomma, poche possibilità. Dopo la vittoria di Chavez, nel 1998, le cose cambiano. Il giovane si fa avanti, lo mettono alla prova: “Osservavo tutto e prendevo nota – dice ora – porto sempre con me un quaderno come questo. Gli operai più esperti sono stati i miei maestri. La storia del colpo di Stato e della serrata petrolifera padronale, mi ha insegnato il resto”.

Il golpe contro Chavez del 2002. Il giovane partecipa alla resistenza operaia contro il tentativo di ri-privatizzare la Pdvsa attraverso uno sciopero che metta in ginocchio il paese. “Abbiamo cacciato i sabotatori, imparato che si può fare da soli – racconta ancora – e ce l’abbiamo fatta. Ce la faremo anche ora”. I punti di forza? “Le possibilità di crescita, la progettualità, l’ambiente di lavoro, il rispetto per le donne che abbiamo imparato nei fatti. Prima, quasi non si erano viste donne nei lavori di massima competenza, che si pensava fossero riservati agli uomini. Oggi stanno con noi nelle piattaforme, spesso sono più brave. E’ normale che ci sia rispetto. E’ importante, questo: è la rivoluzione bolivariana”.

I punti di debolezza? “Il sabotaggio interno, la lentezza, certi leader sindacali da cui non ci sentiamo rappresentati. Per questo la classe operaia sta con Nicolas, sta con l’Assemblea nazionale Costituente. Le destre parlano di dittatura. Ma quale dittatore avrebbe messo nelle mani del popolo il destino del processo bolivariano? E guardiamo che succede in Brasile: la prima cosa che hanno azzerato è la legge del lavoro e delle pensioni”

Nella maggioranza della capitale, nella maggioranza del paese, tutto è aperto e si produce. Secondo il monitoraggio dei media indipendenti, anche negli Stati governati dall’opposizione la percentuale di chi ha scioperato nelle fabbriche è minima (tra il 10 e il 18%). Nelle zone agiate di Caracas, invece, continuano le violenze benché in proporzione più ridotta: anche grazie all’attivazione del Plan Zamora, il piano di prevenzione dispiegato dal governo per garantire il voto del 30 in sicurezza. Nel Merida vi sono stati scontri e un morto.

Ieri pomeriggio abbiamo partecipato alla presentazione del libro di Jorge Valero, poeta e politico di lungo corso, nel Teatro Carreno: un luogo di cultura partecipata, aperto a ogni tipo di espressione artistica. Nel parco adiacente, si svolge la Fiera del Libro. Il Difensore del Popolo, Tareck Saab ha annunciato l’arrivo di altre sanzioni provenienti da Trump e rivolte ai leader del chavismo.

Il presidente Maduro ha consegnato ai “sanzionati” la copia della spada di Bolivar. Eravamo insieme ai deputati spagnoli di Izquierda Unida. L’accoglienza dei compagni venezuelani riscalda: “Grazie di essere di nuovo qui”.

Poi si va tutti al bar del Teatro, luogo d’incontro e di cultura. Salutiamo una compagna del movimento Ni una menos che distribuisce inviti per una pièce teatrale contro la violenza di genere: “Siamo un gruppo di ragazze che ha vissuto un’esperienza di strada – spiega – e che ora portiamo in scena”. Il movimento delle donne, nelle sue diverse articolazioni, partecipa all’Assemblea costituente, spinge in avanti i contenuti più avanzati e le conquiste della rivoluzione bolivariana. Ci sono le candidate trans, l’attivissimo movimento Lgbtqi che tra un po’ conclude a Caracas la sua campagna elettorale.

Al nostro tavolo, ci sono anarchici internazionalisti e comunisti “spinti” che criticano “l’attendismo” del governo e “l’eccesso di moderatismo”. In qualche modo, riescono a intendersi: in ogni caso, mai con le oligarchie, mai con quegli ex funzionari come la Procuratrice generale, che ora chiedono sanzioni alla “comunità internazionale”. Ci sono palestinesi, siriani, baschi, svizzeri, colombiani. Si parla dei 100 anni della rivoluzione sovietica, dello Stato dei Soviet come prospettiva dell’Assemblea Costituente, dei problemi del socialismo, dei tradimenti, del disorientamento delle sinistre in Europa, della necessità di costruire un forte movimento internazionale. Si fa fatica a sentire, dal palco arriva il jazz cantato di un duo di ragazze. Notevole.

Il cellulare di un compagno squilla: “E’ la mia ragazza – dice – che vive nell’est di Caracas. Hanno minacciato la sua famiglia, non sa come andare a votare. Poco fa hanno sparato sulla polizia, che però ha risposto…” Facciamo un ultimo giro di “cocuy”, un liquore regionale, poi ci riaccompagnano in una macchina senza specchietti retrovisori. “Tranquilla – dice il guidatore – ho fatto un corso di garante di prossimità per la sicurezza alla Pdvsa”. Non abbiamo tempo di entrare nel merito. Prima, il compagno alla guida ci aveva raccontato la sua storia, che esemplifica un pezzetto di società venezuelana: famiglia ebraica sfuggita miracolosamente al nazismo, figlio di guerriglieri, ha un cognome spagnolo e origini jugoslave. Suo padre è un esempio, qui: come Jorge Rodriguez, padre della ex ministra degli Esteri Delcy Rodriguez, di cui ricorre l’uccisione in questi giorni. Rodriguez è stato torturato e ucciso in una caserma dei servizi di sicurezza durante gli anni della IV Repubblica, quella delle democrazie di Punto Fijo. Quella a cui le destre vorrebbero tornare.

Torniamo nella nostra abitazione. A poca distanza da noi, c’è l’ex presidente spagnolo Zapatero. Abbiamo visto un via-vai di dirigenti di opposizione. Ieri Zapatero è andato a trovare anche il leader di Voluntad Popular Leopoldo Lopez, agli arresti domiciliari. Il dialogo continua, per scongiurare la guerra civile. Ma la moglie di Lopez, Lilian Tintori, e il resto della famiglia è partita per Miami. Le prossime 72 ore – secondo Trump e le destre che ne eseguono gli ordini – saranno decisive. Ora sono le 9 di mattina. Ci affrettiamo a uscire. La città si muove.

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