«Il Brasile deve tornare ad essere governato in funzione delle masse e non di pochi, per questo la prima cosa che voglio proporre è un referendum revocatorio di molte delle misure approvate da Michel Temer», questo è quanto dichiarato dall’ex presidente brasiliano Lula da Silva ai microfoni del quotidiano spagnolo El Mundo.
Lula ha inoltre denunciato che Temer vuole «privatizzare» il gigante sudamericano, «basta vedere quel che vogliono fare con Petrobras. Il petrolio è il nostro passaporto per il futuro, se lo vendono ci lasciano senza sovranità». Per questo è pronto a ricandidarsi nonostante sia in corso un’operazione studiata a tavolino per fermarlo attraverso la magistratura.
«La sentenza a cui sono sottoposto – spiega l’ex presidente – è una farsa. Né la polizia federale, né l’ufficio del Procuratore generale hanno trovato una sola prova per accusarmi, e per questo dico che la sentenza del giudice Sérgio Moro è politica. In un primo processo hanno etto che avevo un appartamento sulla spiaggia e soldi di Petrobras. In seguito al ricorso lo stesso giudice che mi ha condannato dice di non aver mai detto che l’appartamento e i soldi di Petrobras erano in mio possesso. Allora, perché mi condannano? L’unica risposta è che sono ostaggio della stampa. Oggi in Brasile i media hanno più potere dell’autorità giudiziaria. Hanno trovato del denaro in casa di Aécio Neves, del governatore di Rio de Janeiro, Sérgio Cabral, a casa dell’ex ministro Geddel Vieira Lima, ma a casa mia nulla. Hanno controllato i conti in banche in tutto il mondo per trovare qualche sottrazione di denaro, anche in questo caso nulla. Ma la stampa mi distrugge e rifiuta di pubblicare che non ci sono prove contro di me».
Facendo un passo indietro, Lula, indica il giugno 2013 come una data spartiacque nella storia recente del Brasile. Perché fino a quel momento «il paese cresceva, aveva piena occupazione, manteneva intatte le politiche sociali, preparava la coppa del mondo, i giochi olimpici, ma nel mese di giugno ci furono quelle manifestazioni che furono come una specie di Primavera Araba brasiliana».
Dunque una sorta di rivoluzione colorata in Brasile sostenuta dai mezzi di comunicazione di massa. A tal proposito Lula spiega che «accaddero cose che sfuggirono al nostro controllo come l’uso che fecero i media delle mobilitazioni. Le televisioni convocavano le manifestazioni, giunsero a cancellare la telenovela della sera per dare copertura in diretta alle mobilitazioni. In tutta la storia delle manifestazioni in Brasile non si erano mai comportati in questa maniera».
Chiamato poi a collocarsi tra i cosiddetti populismi latinoamericani e la socialdemocrazia europea, l’ex sindacalista risponde con chiarezza: «Rispetto la socialdemocrazia europea, è l’esempio dello Stato del benessere, della difesa dei diritti dei lavoratori, ma in Brasile abbiamo costruito uno Stato alla nostra maniera, né migliore né peggiore. Quella dei populismi latinoamericani mi sembra una sciocchezza. Che significa essere populista? Parlare la lingua del popolo e difenderlo? Non mi sono mai considerato un populista ma un presidente estremamente popolare sì».
Allargando lo sguardo dal Brasile al vicino Venezuela, Lula viene ‘accusato’ di aver espresso appoggio incondizionato al presidente venezuelano Nicolas Maduro. «Non offro alcun appoggio incondizionato. Ci sono molte cose sulle quali non sono d’accordo con Maduro, così come con presidenti di altri paesi. Pretendo per il Venezuela come per il Brasile che i propri affari interni non subiscano interferenze esterne. Non capisco perché l’Europa è tanto preoccupata da Maduro; è stato eletto democraticamente e i venezuelani risolveranno da soli i propri problemi».
Su Trump si dice «sorpreso che il presidente di un paese del calibro e dell’importanza degli Stati Uniti parli di tutto. Ci sono cose di cui può occuparsi un funzionario o un segretario. Non si può governare il mondo attraverso colpi di Twitter».