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José Steinsleger, giornalista storico del quotidiano messicano La Jornada, ma argentino di nascita, sull’onda delle molteplici e contraddittorie iniziative delle settimane scorse per ricordare il 50° anniversario dell’assassinio del Che, ripropone la storia –tergiversata e infangata- di uno degli uomini andati in Bolivia con il Che. Ciro Bustos, pittore argentino, arrestato insieme a Regis Debray, è stato insistentemente sospettato di aver rivelato la posizione del Che nella regione e dunque di averne favorito l’arresto.
Liberato dopo qualche anno, clandestino nella sua natia Argentina, ha poi chiesto asilo politico in Svezia dove ha vissuto molti anni e dove è morto il 1 gennaio 2017. Steinsleger nota che, nonostante Bustos avesse scritto in un libro la sua verità in occasione del 40° anniversario, la fama di essere stato lui il delatore, persiste. Per questo, da bravo giornalista di lungo corso, ritira fuori le carte ingiallite del suo archivio, le interviste e le testimonianze che ha raccolto e ci restituisce tutta l’etica del personaggio, in onore alla verità storica. (A.R.)
La sera del 21 dicembre 1970, il pittore argentino Ciro Bustos si getta sulla cuccetta con un libro che ha letto e riletto in più occasioni: Operación Masacre di Rodolfo Walsh. Magari, a un certo punto lo avrà passato al suo compagno di cella, anche se non se lo meritava. Perché l’intellettuale e avventuriero Regis Debray (francese di spirito e di cuore) non gli ha mai prestato i suoi libri.
Condannati a 30 anni di carcere per aver fatto parte della guerriglia del Che (1967), Bustos e Debray scontano la condanna in una cella progettata specialmente per loro nella caserma della IV Divisione dell’Esercito della Bolivia a Camiri, una piccola città subtropicale e petrolifera al sudest, a 1100 chilometri da La Paz.
In quel momento, Bustos sente il motore di un vecchio aereo DC-10 che, regolarmente, rifornisce i tecnici della Gulf Oil Co. nella regione. Solo che … a quest’ora di notte e con le difficoltà per atterrare in una valle stretta in mezzo alle montagne? Non è normale, ma non è un suo problema.
Qualche minuto dopo, un ufficiale che aveva con il pittore un certo rapporto di fiducia (il tenente Ortiz), gli mormora attraverso le sbarre: “Ciro … Ciro, sono io! … preparatevi che ve ne andate! … Siete liberi!” Nello stesso momento, senza sparare un colpo, un commando militare occupa la caserma in pochi secondi.
Ciro non ci pensa due volte. Getta in una borsa i pochi indumenti, le fotografie di famiglia incollate alla parete della gabbia, le sigarette, la radio, i libri e la giacca che il Che gli aveva regalato il giorno che avevano abbandonato la guerriglia. Invece, pensando che lo portavano fuori dalla prigione per ucciderlo, Debray si mette a discutere con il maggiore Rubén Sánchez, capo del commando liberatore.
I prigionieri vengono condotti nell’ufficio del comandate della IV Divisione che, messo al corrente dell’operazione e mezzo svestito, comunica loro che per ordine del presidente della repubblica e comandante in capo generale Juan José Torres, “… delle forze armate, in nome del popolo boliviano di cui sono al servizio, ha deciso di commutare la condanna all’ergastolo, di metterli in libertà e di espellerli dal paese”.
Il commando fa salire Bustos e Debray sull’aereo mentre nella prigione restano i guerriglieri Paco e León (José Castillo Chávez e Antonio Domínguez Flores). Nelle sue memorie Ciro Bustos scrive: “Loro non erano stati processati né condannati; erano semplicemente degli ostaggi a disposizione dell’esercito; non godevano di nessuna protezione e sapevano che, al minimo gesto, i piatti rotti li avrebbero pagati loro”.
I detenuti arrivano illesi a Iquique, una città del nord del Cile, paese in cui appena qualche mese prima (settembre 1970) il socialista Salvador Allende aveva vinto le elezioni presidenziali. Tuttavia, l’attenzione dei media informati si concentra sulla figura del francese, accolto da una comitiva euforica di giovani militanti del Movimiento de la Izquierda Revolucionaria (MIR).
Ciro scrive di essere stato condotto nell’edificio dei Carabineros (la polizia del Cile) e lì, inaspettatamente, si incontra con il misterioso giornalista anglo-cileno George Roth. Per suo conto Roth era penetrato in Bolivia con un salvacondotto dell’alto comando militare “per intervistare il Che”, ma era stato arrestato e liberato dalla guerriglia insieme a Bustos e Debray, per poi finire tutti e tre nelle mani dell’esercito (aprile 1967).
Ciro annota che Roth “… aveva già capito che c’era l’intenzione di scavarmi il terreno sotto i piedi”. E dunque, con un volo speciale, i prigionieri liberati arrivano a Santiago dove Debray è ricevuto ufficialmente da una delegazione. Invece “…poliziotti vestiti da civile si sono occupati di me portandomi direttamente nell’edificio centrale della polizia criminale, dove mi hanno sottoposto a un lungo interrogatorio da parte del capo in seconda dopo una lunga attesa seduto nel corridoio”.
Liberato una seconda volta, Bustos abbandona l’edificio della calle Teatinos e si siede sul bordo di un vaso ornamentale. Non sa che fare, dove andare, non ha un centesimo. Racconta: mi stavo pulendo le dita macchiate di inchiostro con della carta igienica gentilmente offertami dall’autorità nazionale, sul punto di svenire per la stanchezza, un taxi si è fermato all’angolo “… e fra voci e grida allegre, un paio di bambine correva saltando su una gamba verso di me, erano le mie figlie seguite dalla madre, Ana María, e da un felicissimo Gustavo Roca (avvocato della famiglia e amico d’infanzia del Che)”.
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“L’esercito della Bolivia ha confermato la morte di Guevara”. “La morte di Ernesto Guevara è stata confermata ufficialmente in Bolivia”.
Su otto e su sei colonne in prima pagina, “La Ragione” e “La Nazione” di Buenos Aires, e con lunghissimi testi a caratteri piccoli, intitolavano la notizia che nei giorni seguenti avrebbe fatto varie volte il giro del mondo (10/11 ottobre 1967).
Mezzo secolo dopo, con 25 chili in più sulle spalle, il giornalista riguarda quei ritagli di giornale che conservava nel suo incipiente archivio come un tesoro, come un atto di nascita. Ma anche di impegno rispetto agli ideali di quella morte annunciata.
Così pensava El Pelao Ciro Bustos (1932-2017), uomo chiave per il Che riguardo ai tentativi guerriglieri in Argentina e Bolivia negli anni sessanta. Eppure, quando nel 1987 ho chiesto al comandante Barbarroja (Manuel Piñero Losada, 1933-1998) [Capo del Dipartimento America del Partito Comunista di Cuba] la ragione per cui Cuba serbava il silenzio rispetto al quasi eroico mutismo volontario del Pelao, mi ha risposto che si trattava di una faccenda che non era conveniente smuovere.
Solamente alla vigilia del 40° anno dell’assassinio del Che, el Pelao, ruppe il silenzio con El Che quiere verte (Ed. Javier Vergara, 2007), un libro pieno di dignità, critico e doloroso. E allora la faccenda è stata nuovamente agitata e la palla di merda (Bustos dixit) che tiri e troiani avevano fatto rotolare e crescere per 30 anni (Ciro Bustos, il Giuda del Che), ha cominciato a sciogliersi poco a poco.
Ciò nonostante, a giudicare dagli omaggi tributati al Che a 50 anni dal suo assassinio (così come le miriadi di articoli e di saggi che suggeriscono di “essere come il Che”, anteponendo l’etica a ogni altra cosa), si direbbe che ancora non ci sia una volontà di dissolvere quella palla. Ritorniamo alla storia.
Nel marzo del 1958, l’argentino Jorge Masetti, militante del nazionalismo cattolico e giornalista di Radio El Mundo di Buenos Aires, riusciva a intervistare Fidel nella Sierra Maestra. Diffusa attraverso la precaria stazione trasmittente dell’Ejército Rebelde, fu la prima volta che Fidel parlava in diretta al popolo.
Ritrasmessa in Colombia e in Venezuela, l’intervista non poté essere ascoltata a Buenos Aires. Allora Masetti ha fatto quello che Rodolfo Walsh qualificherebbe come una impresa del giornalismo latinoamericano: torna sulla Sierra Maestra e rifà tutto il lavoro daccapo. Ciro Bustos l’ascolta a San Rafael (provincia di Mendoza), e sente che le sue inquietudini politiche (come quelle di Masetti), stanno arrivando a una svolta.
Il 15 aprile 1961 (il giorno dell’attacco aereo statunitense all’Avana, preambolo dell’invasione mercenaria di due giorni dopo a Playa Girón), Ciro Bustos arriva all’Avana dopo un viaggio avventuroso. Lì trova lavoro montando una piccola fabbrica artigianale di ceramica ad Holguín, una città della costa nord della provincia di Oriente, culla della rivoluzione.
In seguito, Bustos insegna alla Facoltà di Arte di Santiago de Cuba, dove diventa amico di Alberto Granados, medico patologo e compagno del Che nel suo viaggio in motocicletta attraverso l’America del Sud. Granados gli presenta il Che che lo incorpora nel suo gruppo, integrato da uomini di assoluta lealtà, fra questi, Masetti.
Un anno dopo, Ciro è ormai El Pelao e comincia a allenarsi militarmente con il gruppo di 30 guerriglieri che entreranno in Argentina agli ordini di Jorge Masetti, il comandate Segundo fino all’arrivo del Che. In quel gruppo ci sono ufficiali della Sierra come il giovane Abelardo Colomé Ibarra (Furry), capo della polizia rivoluzionaria dell’Avana. Con gli anni, Furry diventerà il generale di più alto rango e con più medaglie conquistate in combattimento. Nel 1976 sarà il comandante delle truppe cubane che in numero di 15 mila volontari, sbarcarono in Angola; nel 1989 è stato Ministro degli Interni.
Masetti incarica Bustos di studiare la provincia argentina di Salta, un territorio di 40 mila chilometri quadrati, più grande della Sierra Maestra e di tutta la provincia cubana di Oriente, il doppio dell’estensione di El Salvador. Furry è incaricato della retroguardia nella frontiera argentino-boliviana, e Ciro funge da collegamanto con i gruppi urbani di appoggio. E in due occasioni di grande rischio, in una strada della città di Salta e mentre guadava un fiume, dovrà occuparsi di Furry che soffre di epilessia.
Nel settembre del 1963, a migliaia di chilometri dalle città più popolate, l’Ejército Guerrillero del Pueblo (EGP) si mette in marcia. Ma “dopo sei mesi di cammino – racconta Ciro- abbiamo trovato una sola famiglia, difficilmente catalogabile come ‘contadina’ e meno ancora come ‘contadina povera’.”
Ma non basta. Nell’aprile del 1964, credendo che si trattasse di una delle tante bande di contrabbandieri che circolano in quella zona, la Gendarmeria Nazionale si impadronisce del terreno. Senza sparare un colpo, Masetti scompare nella selva per sempre mentre alcuni guerriglieri sono arrestati, processati e condannati.
Ciro era riuscito a salvarsi grazie alle reti urbane esistenti in varie città del paese, soprattutto a Cordoba. E lì, il Gruppo Passato e Presente (José Aricó, Oscar del Barco, Héctor Schmucler, Juan Carlos Portantiero e altri intellettuali che abbandonarono il Partito Comunista) gli fa capire che qualsiasi movimento rivoluzionario che in Argentina prescinda dal peronismo, avrà il destino segnato.
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Il fallimento del foco guerrigliero a Salta (1963-64) e la sconfitta militare in Congo (1965) raddoppiarono lo spirito rivoluzionario del Che. E così, a maggio de 1966 chiamò ancora una volta Ciro Bustos. In quel tempo, il Comandante era tornato all’Avana, anche se ufficialmente era scomparso (Lettera di addio letta da Fidel in una manifestazione pubblica il 3 ottobre 1965).
Sarebbe troppo, in queste condizioni, immaginare che il Che si sentisse stretto in una bottiglia? Che cose gli avrebbe riservato il destino? Forse, parte della risposta la possiamo trovare in una lettera a sua madre dal Messico, poco prima di unirsi alla spedizione del Granma: “E poi, è sicuro che dopo aver corretto torti a Cuba, me ne andrò in qualsiasi altro posto” (15 luglio 1956).
Fino a quando è stato possibile, Fidel ha appoggiato il Che per stabilire un foco guerrigliero in Bolivia. Un progetto che aveva fatto accendere tutti gli allarmi di nordamericani e russi. Fatto sta che il clima di quel tempo faceva pensare a migliaia di giovani latinoamericani disposti a seguire il guerrigliero eroico dovunque.
Il Che era il Che: niente e nessuno avrebbero potuto fermarlo. Volontà etica più che volontaristica o utopica, ma geopoliticamente travisata dal cannibalismo di russi, cinesi e trotzkisti, che si disputavano la rivoluzione mondiale. Travisamenti ideologici che solo la Rivoluzione Cubana e Fidel hanno potuto scongiurare, abbeverandosi al pensiero di José Martí.
Pensando all’Argentina, il Che ha inserito Bustos nel selezionatissimo gruppo di guerriglieri che poco dopo si sono ritrovati a Ñancahuzú nel sudest boliviano. Sarebbe troppo lungo dilungarci sui dettagli di questa storia. Chi fosse interessato potrebbe leggere lo stesso Diario del Che in Bolivia (1967), insieme al saggio “La guerrilla del Che” di Regis Debray (1975) e El Che quiere verte, le memorie che Ciro ha pubblicato 40 anni dopo (2007).
Tutto il resto, comprese le oneste e documentate biografie del Che (Paco Ignacio Taibo II, John Lee Anderson) si basano sui testi che ho indicato che sono come questi appunti: interpretazioni che, a tratti, si sintonizzano con un commento di Borges che Ciro include in epigrafe al suo libro: non sappiamo se l’universo appartiene al genere reale o al genere fantastico.
Il primo atto del dramma era cominciato il 31 dicembre 1966, quando, poco dopo il suo arrivo a Ñancahuzú, il Che sostiene una lunga discussione con Mario Monje, segretario generale del Partito Comunista della Bolivia (PCB). Uno scontro fatale e rivelatore, diciamo così, fra lo sciovinismo di sinistra e l’internazionalismo proletario: Monje esigeva la direzione politico-militare della guerriglia e il Che si è rifiutato. Per questo il PCB, che era prosovietico, lo ha abbandonato con una maledizione cinese: speriamo che ti tocchino tempi migliori.
[questo articolo è stato pubblicato in tre parti dal quotidiano La Jornada nel mese di ottobre 2017]