Carlos Ávila Villamar https://lapupilainsomne.wordpress.com
Una delle poche cose che condivido con le idiosincrasie nordamericane è l’odio per il calcio. Mi sembra uno sport insopportabilmente noioso e monotono. Mi stupisce come la gente pensi che, solo perché in esso i giocatori si muovono in modo simultaneo per tutto il tempo, risulti più interessante del baseball, uno sport basato sulla tensione. È noto che la tensione è infinitamente più coinvolgente che l’azione in sé, ma suppongo che sia un concetto troppo sofisticato per certi spettatori che si legano alla pirotecnica più primitiva. Il motivo per cui la gente preferisce il calcio al baseball, sospetto, è lo stesso per cui un bambino può preferire un film di Michael Bay ad uno di Hitchcock.
Lo sport, come sostituto del combattimento, ha il fascino dell’eroismo, l’emergere tra un gruppo qualsiasi di uomini. Vedere uno sport, in gran parte, consiste nell’identificazione con una squadra od un giocatore. Più che il calcio o il baseball in sé, le persone godono l’aspettativa della vittoria delle loro squadre o giocatori preferiti. È vero che c’è anche un godimento nell’imparziale osservazione dei movimenti e delle tecniche, ma è un’abitudine tardiva e secondaria. Nessuno inizia a seguire uno sport per il solo piacere di analizzarlo, iniziamo a seguirlo perché vogliamo vedere qualcuno vincere. E di solito vogliamo che vinca quello che pensiamo sia più simile a noi. Le città tendono ad andare alle rispettive squadre perché c’è un effetto boomerang che riporta la gloria a se stessi. In realtà, l’origine di praticamente tutte le competizioni sportive è regionale ed è stato collegato con le segrete dimostrazioni di forza dei diversi poteri. Le sempre ostili città greche facevano i giochi olimpici pensando di dimostrare il loro valore sulle altre.
Tuttavia, alla fine del secolo scorso, cominciò ad accelerarsi il processo di globalizzazione e cominciarono ad emergere, prima volta in occidente, poteri che andavano oltre gli stati nazionali. Le grandi corporazioni dei nostri giorni forse possono solo essere paragonate, come forza, a ciò che il cristianesimo rappresentava nell’Europa medievale. La sua ascesa ha portato un cambio di pensiero in tutte le sfere della vita umana, compresi quella sportiva. Le squadre dei vari campionati mantengono il nome delle regioni, per consuetudine e comodità, tuttavia poco rimane dell’essenza sportiva greca, che esigeva che un atleta competesse esclusivamente per la propria regione. In definitiva gli atleti professionisti del baseball nordamericano o del campionato di calcio spagnolo competono per le corporazioni che stanno dietro le loro squadre. Con tutto questo voglio spiegare il cambio nella concezione dello sport a causa del quale molti bambini cubani non si sentono strani sostenendo una squadra di una regione di un altro paese che, come se non fosse abbastanza, è composta da giocatori provenienti da tutto il mondo.
Ciò si capisce, il curioso è che i cubani abbiano perso interesse per il baseball a favore del calcio. Non c’è modo che la globalizzazione spieghi pienamente ciò. Il più coerente, all’interno di quella logica, sarebbe che i bambini cubani iniziassero a seguire il baseball professionale nordamericano. Tuttavia, preferiscono il calcio.
Nel caso in cui il lettore non se ne fosse accorto, Cuba è stato, fino a poco più di venti anni fa, un paese latinoamericano atipico in tutti gli aspetti, ancor prima del trionfo rivoluzionario. La cultura cubana, tranne eccezioni come il gusto per il cinema messicano o per la letteratura del boom, praticamente non ha preso nulla dal resto dell’America Latina nel corso del XX secolo. Altri paesi dell’America Latina sì hanno preso da Cuba, ma Cuba non ha preso molto da loro. La nostra cultura del XX secolo, per incredibile possa sembrare, ha preso più a prestito dagli USA o dal Blocco Socialista che dalla vicina isola di Portorico. Tuttavia, a partire dagli anni ’90, non solo l’emigrazione crebbe verticosamente, ma crebbe anche verticosamente l’influenza degli emigrati sui cubani dell’isola.
I due maggiori centri di accoglienza di immigrati cubani sono ancora la Florida e la Spagna, che furono quei siti, e non altri, che hanno cambiato la nostra cultura per sempre. Negli ultimi decenni la Florida è stata la capitale culturale dell’America Latina, in essa i cubani emigrati hanno mescolato il loro modo di vedere il mondo con quello degli immigranti dominicani, colombiani o guatemaltechi. I cubani iniziarono ad ascoltare la musica che si sentiva in quei paesi, iniziarono a vestirsi come loro e, ad un certo punto, a pensare come loro: qualunque cosa ciò significhi. I cubani dell’isola hanno finito per farlo anche loro, così come finiamo per guardare serie televisive spagnole. Il baseball, che è un’eredità della fase di penetrazione nordamericana, è stato sostituito dal calcio, popolare in Florida ed in Spagna.
Molti credono che Cuba si stia permeando di simboli nordamericani, negli ultimi anni, ed è vero solo fino ad un certo punto. La realtà mi sembra peggiore: piuttosto si sta permeando dalla versione che le parti più arretrate dell’America Latina hanno fatto del sogno americano, lo stato multinazionale della Florida. Se fosse vero che la vera cultura nordamericana è quella che più sta entrando, ci piacerebbe il baseball, non il calcio. Per una volta nella vita, l’egemonia culturale nordamericana mi sarebbe sembrata preferibile.
El béisbol, el fútbol, los norteamericanos
Por Carlos Ávila Villamar
Una de las pocas cosas que comparto con la idiosincrasia norteamericana es el odio por el fútbol. Me parece un deporte insoportablemente aburrido y monótono. Me sorprende cómo la gente cree que, solo porque en él los jugadores estén moviéndose de manera simultánea todo el tiempo, resulta más interesante que el béisbol, un deporte basado en la tensión. Es sabido que la tensión es infinitamente más atrapante que la acción en sí, pero supongo que es un concepto demasiado sofisticado para ciertos espectadores, que se amarran a la pirotecnia más primitiva. La razón por la que la gente prefiere el fútbol al béisbol, sospecho, es la misma por la que un niño puede preferir una película de Michael Bay a una de Hitchcock.
El deporte, como sustituto del combate, tiene el encanto de la heroicidad, el sobresalir entre un grupo cualquiera de hombres. Ver un deporte en buena parte consiste en la identificación con un equipo o un jugador. Más que el fútbol o el béisbol en sí, las personas disfrutan la expectativa de la victoria de sus equipos o jugadores predilectos. Es cierto que también hay un disfrute en la imparcial observación de los movimientos y las técnicas, pero se trata de un hábito tardío y secundario. Nadie empieza a seguir un deporte por el mero disfrute de analizarlo, empezamos a seguirlo porque queremos ver a alguien ganar. Y normalmente queremos que gane lo que creemos que se parece más a nosotros. Las ciudades tienden a ir a sus respectivos equipos porque hay un efecto boomerang que les devuelve la gloria a sí mismas. De hecho, el origen de prácticamente todas las competiciones deportivas es regional, y ha estado vinculado con las encubiertas demostraciones de fuerza de diferentes poderes. Las siempre enemistadas ciudades griegas hacían los juegos olímpicos pensando en demostrar su valor sobre las otras.
Sin embargo, a finales del siglo pasado comenzó a acelerarse el proceso de globalización, y comenzaron a emerger primera vez en Occidente poderes que rebasaban los estados nacionales. Las grandes corporaciones de nuestros días tal vez solo puedan ser comparadas en fuerza con lo que representaba el cristianismo en la Europa medieval. Su auge ha traído un cambio de pensamiento en todas las esferas de la vida humana, incluida la deportiva. Los equipos de las diferentes ligas mantienen el nombre de las regiones por costumbre y comodidad, sin embargo poco queda de la esencia deportiva griega, que exigía que un atleta compitiera exclusivamente por su región. En última instancia los deportistas del béisbol profesional norteamericano o de la liga española de fútbol compiten por las corporaciones que están detrás de sus equipos. Con todo esto quiero explicar el cambio en la concepción del deporte a causa del cual muchos niños cubanos no se sienten extraños apoyando a un equipo de una región de otro país, que por si fuera poco está compuesto por jugadores de todas partes del mundo.
Eso se entiende, lo curioso es entonces que los cubanos hayan perdido el interés en el béisbol en favor del fútbol. No hay modo de que la globalización explique eso a cabalidad. Lo más coherente dentro de esa lógica sería que los niños cubanos comenzaran a seguir el béisbol profesional norteamericano. Sin embargo prefieren el fútbol.
En caso de que el lector no lo notara, Cuba fue hasta hace poco más de veinte años un país latinoamericano atípico en todos los aspectos, incluso antes del triunfo revolucionario. La cultura cubana, salvo excepciones como el gusto por el cine mexicano o por la literatura del boom, prácticamente no tomó nada del resto de América Latina en todo el siglo veinte. Otros países latinoamericanos sí tomaron de Cuba, pero Cuba no tomó mucho de ellos. Nuestra cultura del siglo veinte, por increíble que parezca, tomó más préstamos de Estados Unidos o del Bloque Socialista que de la cercana isla de Puerto Rico. Sin embargo a partir de los años noventa no solo la emigración se dispara, también se dispara la influencia de los emigrados en los cubanos de la isla.
Los dos mayores centros receptores de inmigrantes cubanos son todavía la Florida y España, que fueran esos sitios y no otros cambió nuestra cultura para siempre. La Florida ha sido la capital cultural de América Latina en las últimas décadas, en ella los cubanos emigrados mezclaron su modo de ver el mundo con el de los inmigrantes dominicanos, colombianos o guatemaltecos. Los cubanos empezaron a escuchar la música que se escuchaba en esos países, empezaron a vestirse como ellos y en algún punto a pensar como ellos, signifique eso lo que signifique. Los cubanos de la isla terminamos por hacerlo también, así como terminamos viendo series televisivas españolas. El béisbol, que es una herencia de la etapa de penetración norteamericana, fue sustituido por el fútbol, popular en la Florida y en España.
Muchos creen que Cuba está siendo permeada por símbolos norteamericanos en los últimos años, y es cierto solo hasta un punto. La realidad me parece peor: más que nada, está siendo permeada por la versión que las partes más atrasadas de América Latina hicieron del sueño americano, el estado multinacional de la Florida. Si fuera cierto que es la verdadera cultura norteamericana la que más está entrando, nos gustaría el béisbol, no el fútbol. Por una vez en la vida, la hegemonía cultural norteamericana me hubiera parecido preferible.