Palestinos (palestinesi)

Jorge Fornet http://lajiribilla.cu/articulo

È ben noto l’assioma De Quincey: “Se si comincia a permettersi un omicidio, improvvisamente non si dà importanza al rubare, dalla rapina passa al bere ed alla mancata osservanza del giorno del Signore, e si finisce per perdere la buona educazione e per lasciare le cose al giorno seguente. Una volta uno comincia a scivolare verso il basso non sa dove potrà fermarsi”.

Per qualche strana congiunzione di azzardi, la frase mi è tornata in mente durante la finale del baseball cubano. In mezzo alla festa, all’innegabile passione che ha sollevato la serie, sorse -confuso con il furore del classico nazionale- un Mister Hyde che si è imposto per la forza ed il volume del suo grido. Sappiamo già che lo sport -tale celebrato spazio dell’amicizia e dell’incontro- è anche la stilizzazione di una lotta, la continuazione della guerra con altri mezzi. Siamo stati testimoni (gli appassionati del calcio europei lo sanno meglio di chiunque altro) che, nonostante la sofisticazione dello scontro, spesso lo sport perde il suo carattere metaforico e gli stadi ed i loro dintorni diventano veri e propri campi di battaglia. Nel bel mezzo di questo panorama, la nostra Serie Nazionale ha dato un modesto contributo come spazio di confrontazione.

Non voglio lamentare, qui, una sconfitta linguistica approvata da migliaia di accalorate voci in tutto il paese: la scomparsa di una vecchia ed ingegnosa immagine, che aveva resistito per decenni, l’uso da parte di indignati spettatori (!Ampaya, chchillero! Arbitro assassino), travolto dal poco sottile, per niente fantasioso e già logorato: figlio di puttana! No, non mi riferirò alla dolorosa estinzione di una parola pugnalata dalla più prevedibile di tutte, ma alla travolgente espansione di un’altra.

E ‘impossibile sapere con certezza come e quando è entrato nel vocabolario nazionale il termine palestino per riferirsi, in modo dispregiato, agli immigrati dalla zona orientale del paese arrivati a L’Avana. Era un termine infelice perché usava in un tono di derisione o disprezzo il nome di un popolo sofferente, eroico e ammirevole come pochi. Ma la cosa certa è che ha avuto fortuna e si è incorporato, senza grandi inciampi, nel discorso quotidiano. La sua apoteosi, tuttavia, è giunta durante i giochi finali della serie tra Industriales e Santiago, quando decine di migliaia di voci si sono elevate nel Latino (stadio) e si sono lasciate ascoltare alla radio ed alla televisione come forma di insultare (e linciare moralmente) l’avversario . Lì si mescolavano la passione del gioco con una sorte di isterismo collettivo concentrato nel grido di palestinos, accompagnato da una vasta gamma di epiteti e raccomandazioni facili da immaginare. Nessuno me l’ha raccontato. Io ero nelle congestionate tribune del right field in uno di quei giochi.

Come avanero, nato a Bayamo -che per questo e per altri motivi si considera di entrambi i posti, anche se sostengo, senza complesso di colpa, gli Industriales-, la situazione mi sembrava particolarmente vergognosa. Le fotografie dei poster di strada o alcuni messaggi che sono circolati, in seguito, per via elettronica rivelano ancora più, addirittura, del molto che dicono.

Non commetterò la ridicolaggine di fare una lista di ciò che la storia e la cultura di Cuba devono agli orientali. Primo perché sarebbe infinita, e secondo, perché in fondo quel disprezzo non risponde a una fatalità geografica; non è l’orientale ciò che irrita, ma (come di solito accade) un determinato tipo di loro. A nessuno sembra molesti l’invisibile ed il costante arrivo di professionisti, ma a molti sì, per contro, l’arrivo di una colorata e ben visibile ondata di persone umili. Nessuno si è lamentato, per quanto ne so, della fuga di cervelli verso L’Avana, la persistente spoliazione che lei ha esercitato sul resto del paese, comprese, ovviamente, le province orientali. Tale visione aristocratizzante e selettiva è particolarmente patetica se si considera che la riproducono anche persone dei settori meno favoriti dell’Avana (bastava essere nelle tribune del right field per saperlo), che sembrano proiettare sull’altro le proprie frustrazioni.

Anche se ho la sensazione che il nostro immaginario culturale ha contribuito a dare una visione semplificata delle cose -ricordiamo, ad esempio, il contrasto tra le immagini dei barbudos e contadini che entrano all’Avana, da un lato, e quella degli alfabetizzatori e team di Cinema-mobile in partenza per l’oriente, dall’altra; cioè, loro ci mandavano la barbarie e noi gli abbiamo restituito la civiltà -penso che sia stato l’arrivo degli anni ’90 con le sue crisi, più di qualunque di quelle immagini, che hanno approfondito le differenze sociali ed i pregiudizi.

Improvvisamente sono affiorati, tra noi, mali che ci sembrano scandalosi quando si verificano in altri luoghi. E dopo lo shock degli anni ’90, la divisione del lavoro non si è fatta aspettare; la cosiddetta “Capitale di tutti i cubani” ha saputo assegnare agli immigrati, spontanei o diretti, certi compiti che i suoi stessi abitanti già non erano disposti (né avevano necessità) di fare. In due di essi è stato particolarmente evidente tale presenza che ha generato un copioso materiale umoristico e un curioso paradosso: mentre in realtà colpisce il ruolo degli immigrati nella polizia e nelle costruzioni, nella soggettività capitolina li si associa alla criminalità e li si considera la principale fonte di distruzione della città.

Ironia ce n’è, dal momento che chiunque appena arrivato alla sua stazione ferroviaria non deve camminare che per 200 metri per rendersi conto che l’Avana deve essere salvata, prima di tutto, dagli abitanti dell’Avana. D’altra parte, anche se non conosco le statistiche, non ho dubbi che tra gli immigrati orientali ci debba essere un numero sproporzionatamente elevato di reati, equivalente al grado di esclusione, povertà ed umiliazione sofferto da molti di loro. In ogni caso, la loro presenza nella capitale è essenziale. Alcuni anni fa, un regista ha immaginato come sarebbe la città di Los Angeles in ‘Un giorno senza messicani’. Inutile dire che neppure l’Avana potrebbe funzionare, non già senza immigranti -che rappresentano un’enorme percentuale della sua popolazione- ma anche senza quel gruppo meno prospero che si adatta alla designazione di palestino.

Lo sappiamo perfettamente: né una canzone de Los Van Van (che hanno musicalizzato l’idea che L’Avana non lo sopportava più), né un muro legale, né il grido di quasi tutti i sostenitori degli Industriales riuniti nel Latino (stadio), fermeranno il flusso di immigrati che credono di percepire nella capitale la loro terra di promessa. Scaricare su di loro i nostri pregiudizi non fa altro che alimentare il rancore sociale. Per non parlare del fatto che quel disprezzo mascherato da fervore sportivo, che lo stentoreo urlo di palestinos, è un’umiliazione per chi lo riceve e una vergogna per chiunque lo pronunci. La dignità non è un valore soggettivo; anche se coloro che fanno parte di questo circolo non sentono -a seconda del posto che occupano- che stanno offendendo qualcuno o che sono insultati; comunque è un oltraggio alla dignità di tutti.

Dove ci fermeremo? Cosa viene dopo le battute, le urla, i manifesti, le minacce? Ricordiamo la straordinaria logica di De Quincey: inizia uno a permettere un omicidio e si finisce per lasciare le cose per il giorno successivo.

(Tratto da La Gaceta de Cuba / La Jiribilla)


Palestinos

Por: Jorge Fornet

Es bien conocido el axioma de De Quincey: “Si uno empieza por permitirse un asesinato, pronto no le da importancia a robar, del robo pasa a la bebida y a la inobservancia del día del Señor, y se acaba por faltar a la buena educación y por dejar las cosas para el día siguiente. Una vez que empieza uno a deslizarse cuesta abajo ya no sabe dónde podrá detenerse”.

Por alguna extraña conjunción de azares, la frase volvió a mi mente durante la final de la pelota cubana. En medio de la fiesta, de la innegable pasión que levantó la serie, se irguió —confundido con el furor del clásico nacional— un Mister Hyde que se impuso por la fuerza y el volumen de su grito. Ya sabemos que el deporte —ese celebrado espacio de la amistad y el encuentro— es también la estilización de una pugna, la continuación de la guerra por otros medios. Hemos sido testigos (los seguidores del fútbol europeo lo saben mejor que nadie) de que a pesar de la sofisticación del enfrentamiento, con frecuencia el deporte pierde su carácter metafórico y los estadios y sus alrededores se convierten en verdaderos campos de batalla. En medio de ese panorama, nuestra Serie Nacional hizo un modesto aporte como espacio de confrontación.

No voy a lamentar aquí una derrota lingüística refrendada por miles de acaloradas voces en todo el país: la desaparición de una vieja e ingeniosa imagen que había resistido durante décadas el uso por parte de indignados espectadores (¡ampaya, cuchillero!), avasallada por la poco sutil, nada imaginativa y ya gastada de ¡hijoeputa! No, no voy a referirme a la dolorosa extinción de una palabra apuñalada por la más previsible de todas, sino a la abrumadora expansión de otra.

Es imposible saber a ciencia cierta cómo y en qué momento entró en el vocabulario nacional el término palestino para designar, despectivamente, a los inmigrantes de la zona oriental del país llegados a La Habana. Era un término poco feliz porque utilizaba en tono de burla o de desprecio el nombre de un pueblo sufrido, heroico y admirable como pocos. Pero lo cierto es que tuvo fortuna y se incorporó sin grandes tropiezos al habla cotidiana. Su apoteosis, sin embargo, llegó durante los juegos finales de la serie entre Industriales y Santiago, cuando decenas de miles de voces se elevaron en el Latino y se dejaron escuchar por radio y televisión, como forma de insultar (y linchar moralmente) al adversario. Allí se mezclaban la pasión del juego con una suerte de histerismo colectivo concentrado en el grito de palestinos, acompañado de una amplia gama de epítetos y recomendaciones fáciles de imaginar. Nadie me lo contó. Yo estuve en las congestionadas gradas del right field en uno de esos juegos.

Como habanero nacido en Bayamo —que por esa y otras razones se considera de ambos sitios aunque apoye sin complejo de culpa a los Industriales—, la situación me parecía especialmente vergonzosa. Las fotografías de carteles callejeros o algunos mensajes que han circulado después por vía electrónica revelan más, incluso, de lo mucho que dicen.

No voy a cometer la ridiculez de hacer una lista de lo que la historia y la cultura de Cuba deben a los orientales. Primero porque sería interminable, y segundo, porque en el fondo ese desprecio no responde a una fatalidad geográfica; no es el oriental lo que irrita, sino (como suele ocurrir) un determinado tipo de ellos. A nadie parecen molestar las invisibles y constantes llegadas de profesionales, pero a muchos sí, en cambio, el arribo de una colorida y bien visible oleada de gente humilde. Nadie ha lamentado, hasta donde sé, la fuga de cerebros hacia La Habana, la persistente expoliación que ella ha ejercido sobre el resto del país incluidas, naturalmente, las provincias orientales. Esa visión aristocratizante y selectiva es especialmente patética si se tiene en cuenta que la reproducen incluso personas de los sectores menos favorecidos de La Habana (no había más que estar en las gradas del right field para saberlo), quienes parecen proyectar sobre el otro sus propias frustraciones.

Aunque tengo la sensación de que nuestro imaginario cultural ha contribuido a dar una visión simplificada de las cosas —recordemos, por ejemplo, el contraste entre las imágenes de barbudos y campesinos entrando en La Habana, por un lado, y la de alfabetizadores y equipos de Cine-móvil saliendo para el oriente, por otro; es decir, ellos nos mandaban la barbarie y nosotros les devolvíamos la civilización—, creo que fue la llegada de los años 90 con sus crisis, más que cualquiera de aquellas imágenes, lo que ahondó las diferencias sociales y los prejuicios.

De pronto afloraron entre nosotros males que nos parecen escandalosos cuando ocurren en otros sitios. Y tras la sacudida de los 90, la división del trabajo no se hizo esperar; la llamada “Capital de todos los cubanos” supo destinar a los inmigrantes espontáneos o dirigidos, ciertas labores que sus propios habitantes ya no estaban dispuestos (ni necesitaban) hacer. En dos de ellas ha sido especialmente notoria esa presencia que ha generado un copioso material humorístico y una curiosa paradoja: mientras en la realidad es llamativo el desempeño de los inmigrantes en la policía y la construcción, en la subjetividad capitalina se les asocia con la delincuencia y se les considera la fuente principal de destrucción de la urbe.

Ironía si las hay, puesto que cualquier recién llegado a su Terminal de trenes no tiene más que caminar 200 metros para darse cuenta de que a La Habana hay que salvarla, en primerísimo lugar, de los habaneros. Por otra parte, aunque desconozco las estadísticas, no tengo la menor duda de que entre los inmigrantes orientales debe producirse un número desproporcionadamente alto de delitos, equivalente al grado de exclusión, pobreza y humillación que padecen muchos de ellos. En cualquier caso, su presencia en la capital es imprescindible. Hace unos años un cineasta imaginó cómo sería la ciudad de Los Ángeles en Un día sin mexicanos. Inútil decir que tampoco La Habana podría funcionar, no ya sin inmigrantes —que son un por ciento enorme de su población—, sino incluso sin ese grupo menos próspero que encaja en la designación de palestino.

Lo sabemos perfectamente: ni una canción de los Van Van (quienes musicalizaron la idea de que La Habana no aguantaba más), ni un muro legal, ni el grito de casi todos los industrialistas reunidos en el Latino, van a detener el flujo de inmigrantes que creen percibir en la capital su tierra de promisión. Volcar sobre ellos nuestros prejuicios no hace más que alimentar el encono social. Sin mencionar que ese desprecio disfrazado de fervor deportivo, que el estentóreo grito de palestinos, es una humillación para el que lo recibe y una vergüenza para quien lo profiere. La dignidad no es un valor subjetivo; aun si quienes forman parte de este círculo no sienten —en dependencia del lugar que ocupen— que están vejando a alguien o que están siendo injuriados, igual es un atropello a la dignidad de todos.

¿Dónde nos detendremos? ¿Qué viene después de los chistes, los gritos, los carteles, las amenazas? Recordemos la asombrosa lógica de De Quincey: empieza uno por permitirse un asesinato y acaba por dejar las cosas para el día siguiente.

(Tomado de La Gaceta de Cuba/ La Jiribilla)

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