di Geraldina Colotti* – La Città Futura
Nel discorso sullo stato dell’Unione, quel gran campione di diritti che risponde al nome di Donald Trump ha bollato il Venezuela come “dittatura socialista” e si è fatto un vanto di aver imposto altre pesanti sanzioni al paese bolivariano e a Cuba.
Al contempo, il direttore della CIA, Mike Pompeo, ha riconosciuto pubblicamente il ruolo dei servizi segreti nelle decisioni prese da Trump contro il governo Maduro: “La seconda o terza tornata di sanzioni – ha ammesso Pompeo – ha seguito i nostri suggerimenti”. Sanzioni ad personam e anche, da inizio gennaio, di tipo economico-finanziario, volte ad asfissiare il paese con un blocco simile a quello imposto a Cuba e ora riattizzato dopo le apparenti “aperture” di Obama. Privati e imprese statunitensi o di paesi soci non possono avere scambi commerciali con il Venezuela, altrimenti rischiano le ritorsioni del gendarme nordamericano.
La CIA spinge anche per la rottura degli accordi commerciali relativi all’acquisto di petrolio venezuelano. I paesi neoliberisti dell’America latina – dal Messico alla Colombia, dal Perù all’Honduras – si accodano e si adoperano all’interno del cosiddetto Gruppo di Lima per stringere ancora di più il cerchio. L’Europa è nella stessa linea degli Usa e gli accordi firmati con Cuba contro il bloqueo contengono il ricatto sui “diritti umani” e la possibilità di danneggiare, per questa via, l’asse tra Cuba e Venezuela.
I venezuelani di Miami parlano apertamente di “ingerenza umanitaria”, la chiedono alla “comunità internazionale” e spiegano di cosa si tratti: “L’ingerenza umanitaria – dicono – è un aiuto militare per disarmare un governo”. Cade l’ultimo velo di ipocrisia. L’obiettivo dei “pacifici manifestanti” è sempre stato solo quello: rimettere le mani sulle gigantesche risorse del Venezuela, abolire la costituzione che lo vieta e ricondurre il paese nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.
Nell’Europa del “dubbio e della complessità”, invece, “l’ingerenza umanitaria” viene mascherata da “intervento umanitario”, evocando l’immagine di un’assistenza filantropica a cui “gli umanitari” della CIA e i loro corifei non possono certo sottrarsi: come non si sono sottratti in Iraq, in Libia, in Siria… Men che meno potrebbero farlo se si trovano confrontati a una feroce dittatura caraibica, impersonata da un presidente ossessivamente descritto come incapace, illegittimo eccetera eccetera. Un uomo solo al comando. Per di più un ex operaio del metro. Ma vogliamo scherzare!?
Va da sé che per i cow-boys nordamericani come per i conquistadores europei le uniche istituzioni valide e legittimate siano quelle delle “democrazie rappresentative” dove al comando ci sono le cricche del grande capitale. Va da sé che ai “Ma-burro” [burro significa asino in spagnolo] che vogliono governare le proprie risorse, quelle “democrazie” vanno imposte con ogni mezzo: naturalmente “umanitari”… Va da sé che la Carta Magna bolivariana, nata dall’assemblea costituente del 1999, e i suoi principi – confermati da 24 elezioni in cui la partecipazione ha superato sempre il 60-70% – sono cosa da nulla: da cancellare senza infingimenti.
E dunque va bene presentare come eroi quelli che sganciano granate sulle istituzioni, e lasciare fuori dalla porta i familiari delle vittime delle violenze di estrema destra. Che il Parlamento europeo sia arrivato ad attribuire il premio Sacharov al neonazista Lorent Saleh e ai suoi compari golpisti la dice lunga sulla credibilità dei conquistadores, al cui interno vi è chi spinge per espellere dall’Europa tutti gli ambasciatori venezuelani. Quello di stanza in Spagna è già stato mandato via in base al criterio di “reciprocità”. Una “reciprocità” asimmetrica: perché Caracas aveva espulso il capo della diplomazia spagnola accusandolo di fomentare la destabilizzazione, mentre il governo bolivariano non ha mai finanziato chi volesse buttare bombe nelle piazze spagnole.
Che un golpista come l’ex sindaco della Gran Caracas, Antonio Ledezma, fuggito all’estero dopo essere stato liberato per “motivi di salute”, scorrazzi arzillo ai quattro angoli del pianeta per chiedere l’intervento armato contro il suo paese, indica con quante lingue biforcute parlino gli Usa e la vecchia Europa a proposito di “lotta al terrorismo”. Uno dei primi a esaltare Ledezma, in America latina, è stato un altro grande campione di etica e di diritti umani, il banchiere che governa il Perù, Pedro Pablo Kuczynski: quello che per salvarsi dalle inchieste per corruzione, ha negoziato l’indulto al dittatore Fujimori e che lascia marcire nelle galere prigionieri politici malati, di oltre ottant’anni.
L’ingerenza “umanitaria” potrebbe arrivare per mare e per terra. La Cia sa trovare buoni pretesti, come dimostra la lunga scia di sangue lasciata nel secolo scorso e rinnovata in questo nella guerra sporca in Colombia, nei massacri in Messico o nell’Honduras avviato verso una nuova dittatura. Dai confini con la Colombia, l’infiltrazione delle bande paramilitari in Venezuela, è continua. E ora si sta cercando di creare un ingombro di “profughi” per giustificare “l’intervento umanitario”. Le manovre congiunte in Amazzonia, a cui per la prima volta il Brasile di Temer ha consentito la partecipazione delle truppe Usa, ha già allestito il campo con il pretesto di prevenire “catastrofi”. E dalle basi militari Usa sulle isole di Curazao e Aruba, gli aerei spia sorvolano le grandi installazioni petrolifere del Venezuela nell’occidente del paese.
La Exxon Mobil ha da tempo iniziato le perforazioni nelle acque dell’Esequibo, contese tra Guyana e Venezuela. Dal 1 al 7 febbraio, il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, ex Ceo della multinazionale, sta viaggiando in Messico, Argentina, Perù e Colombia: “per aumentare la pressione sul Venezuela di Nicolas Maduro”. Intanto, con perfetta tempestività, è arrivata la decisione ONU sul contenzioso storico dell’Esequibo: che è stato rimandato alla decisione della Corte Penale Internazionale, anziché alla soluzione pacifica di un mediatore nominato dall’Onu, come prevede l’Accordo di Ginevra del 1966.
L’OSA di Luis Almagro e tutti gli accoliti degli Stati Uniti hanno già detto che non riconosceranno le elezioni presidenziali in Venezuela. Elezioni che le destre hanno chiesto costantemente di anticipare, ma che ora rifiutano. L’Assemblea Nazionale Costituente, massimo organo plenipotenziario, votato a luglio soprattutto per riportare la pace in Venezuela, ha invitato l’autorità elettorale (il Cne) a fissarle entro fine aprile. Le destre, però, sanno di non avere un candidato forte che ne unifichi tutte le componenti. Stanno aspettando che si decida il miliardario imprenditore Lorenzo Mendoza, per ripetere lo schema inaugurato in Italia con Berlusconi.
Per guadagnare tempo, cercano di menare il can per l’aia nella Repubblica Dominicana, dove si stanno svolgendo le trattative con il governo bolivariano. Dopo oltre 300 inviti al dialogo da parte di Maduro, le destre hanno accettato di sedersi a discutere, giocando però come sempre su più tavoli con un’opzione preferenziale per la violenza golpista. E perciò, vai con il balletto delle dichiarazioni: “firmiamo, non firmiamo, ci stiamo, ce ne andiamo…” e via cianciando.
Stessa solfa sulle candidature alle elezioni e sull’iscrizione al registro elettorale da parte delle loro formazioni. Secondo la legge, i partiti che non hanno partecipato a precedenti elezioni devono dimostrare la propria persistenza. L’Assemblea nazionale costituente ha pertanto ordinato alle sigle che hanno boicottato le precedenti elezioni di registrarsi nuovamente presso il Cne. E il percorso si è concluso a fine gennaio.
Alcuni, come Accion Democratica, lo hanno fatto, ma altri – gli oltranzisti di Voluntad Popular e Primero Justicia – avrebbero voluto giocare ancora una volta su più tavoli: invitando come singole formazioni al boicottaggio, ma iscrivendosi tutti insieme come Mesa de la Unidad Democratica (Mud). Il Tribunal Supremo de Justicia, massimo organo preposto all’equilibrio dei cinque poteri costituiti esistenti in Venezuela, ha pertanto decretato l’espulsione della sigla dalle prossime presidenziali.
La Mud – ha legiferato il Tsj – “raggruppa diverse organizzazioni politiche, alcune delle quali già convalidate e altre no”, e con la sua partecipazione violerebbe “apertamente il divieto della doppia militanza, stabilito nel dispositivo n° 4 della sentenza n° 1 del 5 gennaio del 2016 nell’articolo 32 della Ley de Partidos Politicos, Reuniones Publicas y Manifestaciones”.
Dai fautori dell’”intervento umanitario” o dai difensori delle democrazie procedurali sono già partiti gli attacchi al “dittatore Maduro”, che vuole aggiustarsi le cose ad ogni costo. Soprattutto perché i sondaggi dicono che sarebbe comunque il meglio piazzato nella corsa per le presidenziali, rispetto ad altri candidati delle destre – già annunciati – come Henry Falcon o Ramos Allup. Sui media italiani, è già partito un circo simile a quello che si scatenò dopo l’annuncio dell’Assemblea Nazionale Costituente, a cui anche adesso concorrono componenti schierate con quell’estrema sinistra che feticizza le procedure e non sa riconoscere i termini del conflitto di classe.
Com’è già successo in altri paesi d’Europa, il Venezuela entra nella campagna elettorale: in modo esplicito o indiretto, occorre dire che il socialismo è da buttare. Più si mostrifica il Venezuela, meno si vedono le piaghe del capitalismo. In Italia, oltre 5 milioni di persone vivono in povertà estrema e il 30% della popolazione è “a rischio”. In compenso – dice un’inchiesta della ong Oxfam – a metà del 2017 “il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, il successivo 20% ne controllava il 18,8%, lasciando al 60% più povero appena il 14,8% della ricchezza nazionale”. Ossia: “la quota di ricchezza dell’1% più ricco degli italiani superava di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione”.
Prima di intervenire su inesistenti “catastrofi umanitarie” in Venezuela – dove la crisi non pesa sui settori popolari – non sarebbe il caso di occuparsi di quelle, ben concrete, provocate dal capitalismo in casa nostra?