All’Avana, come nelle altre città cubane, è esplosa la wi fi mania. Girando per la capitale cubana si incontrano spesso assembramenti di persone, giovani soprattutto, che, particolarmente nelle ore serali, telefonini e tablet (meno numerosi dei primi) alla mano, scambiano messaggi, navigano su internet, fanno chiamate semplici o video con altre persone nel Paese e all’estero.
Sono le vie e piazze nelle quale Etecsa, la compagnia telefonica nazionale, distribuisce gratuitamente la “rete” alla quale si può accedere digitando il codice di una scheda con la quale si parla un’ora al costo, tutto sommato modico, di un CUC (la moneta convertibile, pari al valore di un dollaro).
In questo modo e a dispetto delle diplomazie ufficiali, Cuba si apre al mondo e il mondo si apre a Cuba. Il wi fi è una delle riforme volute da Raul Castro, presidente dopo il ritiro e la morte del fratello Fidel, leader storico della “revolucion” (mai in contrasto con lui), assieme ad altre misure, come l’incentivazione delle piccole imprese “particulares”, cioè private, l’istituzione di aree di libero scambio e l’approvazione di una legge per favorire l’afflusso di capitali esteri.
L’Avana è migliorata. Paradossalmente il passaggio dell’uragano Irma, che è stato realmente devastante, ha avuto l’effetto di spingere a ricostruire in fretta e meglio di prima. Tutti i luoghi più fascinosi della città, il Malecon (lungomare), la “ciudad vieja” (lo splendido centro antico spagnolo sul porto) appaiono liberi da detriti, macerie e sporcizia, la strade e i vicoli sono stati ripiastrellati e tirati a lucido, gran parte se non la totalità delle facciate rifatte e riportate allo splendore della capitale di un Paese definito la Perla dei Caraibi, mentre nuovi negozi, anche con le “grandi firme” occidentali e ristoranti e locali sorgono in continuazione.
Certo, l’effetto delle riforme di Raul (che, credo, abbia in mente l’esperienza vietnamita di una apertura al mercato, controllata dallo Stato) non hanno ancora esaurito i loro effetti ed i risultati fin qui ottenuti possono essere stati inferiori alle attese. Ma il Pil cresce, ufficialmente, a buoni ritmi, anche se rimangono insoluti problemi vecchi come i salari troppo bassi (integrati però da una rete gratuita di servizi, dalla scuola alla sanità, alla casa, che garantiscono a tutti una condizione dignitosa) e un basso grado di produttività del lavoro che, pure se riflette forse una scelta politica e culturale prima ancora che materiale, va assolutamente aumentato.
Rimane la straordinaria dignità di un popolo e di una classe dirigente che può avere colpe soggettive, ma che, in cinquantanni ne ha subito, dalla maggiore potenza mondiale, gli USA, di cotte e di crude.
Trump sta tornando indietro rispetto alle scarse aperture di Obama che comunque avevano suscitato attese e speranze.
L’ambasciata americana a l’Avana è praticamente chiusa, è di nuovo ridotto l’importo dei trasferimenti dei fuoriusciti ai parenti in patria, rimane in vita il sussidio di ottocento dollari al mese (un tesoro a Cuba) che gli USA garantiscono a tutti i cubani che fuggono illegalmente dall’isola alla Florida.
Trump, al contrario di Obama che puntava ad una competizione democratica e culturale, torna a volere la resa della Rivoluzione. Se è così, non l’avrà, come non l’hanno avuta per decenni i suoi predecessori.
Lo stereotipo di una Cuba come galera a cielo aperto e di un popolo in attesa dei liberatori americani e del ritorno al capitalismo sono sciocchezze infondate, anche se campeggiano nei media europei.
I cubani, anche gli oppositori al “regime”, hanno ben conosciuto il colonialismo in salse diverse, e sanno che se tornano gli “americani” lo farebbero non da liberatori, ma da conquistatori. Per questo c’è da sperare davvero( i cubani non hanno dubbi sul loro futuro rivoluzionario), che il nuovo presidente americano non riesca a riportare indietro la storia.