Iroel Sánchez https://lapupilainsomne.wordpress.com
“In un mondo in cui la comunicazione è ogni volta maggiore … non viviamo né possiamo vivere come quegli indios Siboneyes e Tainos che abitavano la nostra terra 500 anni fa … viviamo nel mondo delle comunicazioni, della radio, della televisione, dei libri, dei telefoni a lunga distanza, e questa tendenza verso la comunicazione tra tutti i paesi è ogni volta maggiore, ed in questo mondo dobbiamo imparare a vivere, ogni volta più adattati e ogni volta meglio preparati”.
Fidel 7 novembre 1993
Benché solo in questi tempi di utilizzo sempre più diffuso di Internet si è reso popolare il termine che prima era comune solo tra sociologi e altri professionisti delle Scienze Sociali, le reti sociali esistono da che esistono i collettivi umani. Incluso altri collettivi non-umani funzionano anche come reti, basta semplicemente osservare un formicaio, un alveare, il modo in cui caccia un branco di lupi o leoni, o lo spostamento dei delfini e degli uccelli migratori per accorgercene. Il loro funzionamento è decisivo per l’accesso al cibo, alla protezione contro altre specie, alla riproduzione e per condividere informazioni essenziali relative a queste attività vitali.
Nelle società umane ogni individuo apparteneva già a reti familiari, di amicizie, di vicini di casa, di compagni di lavoro o di studio, professionali, spesso sovrapposte, da moltissimo prima che Facebook o Twitter diventassero quotidiani.
Tuttavia, l’arrivo di Internet ha reso tangibile, e persino capitalizzabile, ciò che prima era invisibile. Al rimanere registrate nelle memorie di potenti computer chiamati server ogni ricerca, ogni scambio, ogni pubblicazione di testo, video o foto e coloro che interagiscono con esse, così come i metadati che li accompagnano (data, ora, sesso, tema e posizione geografica dei partecipanti, tra altri), in uno spazio in cui ogni minuto si producono migliaia di milioni di queste azioni, l’attuale sviluppo di strumenti informatici per correlarli permette trovare e connettere affinità ad una velocità prima impensabile.
Così sono sorte le società conosciute come “giganti di internet” o della tecnologia il cui potenziale è basato proprio nel capitalizzare quelli intangibili. Offrendo i propri utenti come mercanzia per la pubblicità di altre società con una efficacia che pochi anni fa non era possibile immaginare, Facebook e Google sono giunte a quotarsi in borsa per centinaia di migliaia di milioni di $. Ora sono sempre meno coloro che giungono ad una informazione digitando l’indirizzo nel browser, il più comune è che si navighi attraverso quello che un motore di ricerca come Google o l’algoritmo di Facebook ci pongono davanti. Più che navigare, interagiamo con applicazioni di Internet che selezionano, per noi, risposte virtuali a partire da egemonie del mondo reale che hanno pagato per questo.
Per la maggioranza degli utenti Internet che utilizzano questi due strumenti la maggior parte del lotro tempo di connessione, Internet è Facebook e Google, come il sistema operativo è sinonimo di Android o Windows.
Il 18 maggio 2012 una dichiarazione congiunta di un gruppo di organizzazione della società civile davanti alla riunione delle Nazioni Unite, a Ginevra, per la “Migliorata cooperazione sulle questioni di politiche pubbliche relative ad Internet” osservava che “quella che fu una rete pubblica di milioni di spazi digitali, ora è, in gran misura, un conglomerato di spazi di pochi proprietari”. Sei anni più tardi, molti parlano di GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) come il gigante che controlla, da un solo paese, lo spazio digitale globale.
Al di là delle denunce circa il suo utilizzo a fini di dominio politico e militare in conseguenza di quanto già rivelato dall’ex analista della National Security Agency, Edward Snowden, l’efficacia che acquisiscono, nei mercati nazionali, le corporazioni transnazionali che possono pagare per essere pubblicizzate, microlocalizzando i pubblici, secondo le loro caratteristiche, gusti e necessità, attraversando i confini nazionali, è devastante. Con più di 4000 milioni di utenti Internet, la battaglia in atto tra Google e Facebook per gestire la connessione dei restanti 3000 milioni di terrestri con “internet.org” (cioè accesso gratuito ai servizi di tali società, ma pagando fuori da quegli spazi) è in pieno svolgimento. Le politiche che penalizzano, nella società di Mark Zuckerberg, i link esterni, rendendoli praticamente invisibili, mentre premiano i contenuti che non richiedono di lasciare il social network per accedervi sono una manifestazione di questa ossessione per avere gli utenti, tutto il tempo, nello spazio dove ogni azione produce metadati per la società.
La contraddizione tra la crescente socializzazione del lavoro e la crescente concentrazione del capitale propria della società contemporanea è ora espressa tra l’espansione inarrestabile del tempo nella rete delle reti e l’appropriazione, sempre più in meno mani, dei metadati che questo genera.
Indiscutibilmente, il divario digitale si sta chiudendo ad un ritmo molto più rapido rispetto a quello della radio o TV, ma questo, lungi dal significare una diversificazione del consumo culturale, ha approfondito il divario tra il nucleo della produzione di contenuti e servizi, in potere di poche società USA, ed il resto del pianeta, causando una crescente omogeneizzazione.
In America Latina, dei 100 siti più popolari, solo il 26% è di origine locale e meno del 30% è nella lingua locale, incluso buona parte di quest’ultimo, sebbene sia in spagnolo, è di origine USA.
È un fatto quotidiano che un inserzionista può oggi microlocalizzare, in una rete come Facebook o nei risultati di un motore di ricerca come Google, il destinatario di un messaggio in base all’età, al genere, alla posizione geografica ed al profilo professionale, sia per posizionare un prodotto o una notizia, indipendentemente dal fatto che sia vera o meno; deve solo avere il denaro per pagarlo. Si tratta di un qualcosa assolutamente legale e di uso molto comune che non ha nulla a che fare con i recenti scandali per l’utilizzo di dati derivati dall’attività personale su Facebook per creare profili politici degli utenti, associati alla società Cambridge Analytica.
Sono pochi i paesi la cui massa critica demografica e lingua propria permette loro di sviluppare alternative, come è il caso di Cina e la Russia. L’esperto e professore presso la Stanford University Evgenij Morozov, per nulla sospetto di ammirazione per uno di questi due paesi, ha osservato ironicamente nel 2015: “Si noti la differenza cruciale: la Russia e la Cina vogliono poter accedere ai dati generati dai loro cittadini nel loro stesso suolo, mentre gli USA vogliono accedere ai dati generati di qualsisi persona, in qualsiasi luogo e quando le società USA li gestiscano.”
Processi come la Brexit, l’elezione di Donald Trump o la risposta al referendum sulla pace in Colombia sono stati influenzati da queste realtà. Le guarimbas della prima metà del 2017, in Venezuela, la sconfitta della consultazione per la ri-elezione di Evo Morales in Bolivia, o il dispiegamento istantaneo della violenza in Nicaragua hanno contato su milioni di dollari investiti nelle reti sociali di Internet.
Ora non è più possibile dire che le bugie hanno le gambe corte, sarebbe più appropriato affermare che viaggiano alla velocità della luce, nella fibra ottica che collega i server Internet. Ai tempi in cui Joseph Goebbels si occupava della propaganda hitleriana soleva dire che una bugia ripetuta molte volte può convertirsi in verità, ma doveva aspettare che venisse messo in onda il prossimo notiziario radiofonico, si proiettasse il seguente sommario cinematografico di notizie o si stampassero i giornali mattutini o della sera per farlo. Oggi in un secondo i tweet del presidente USA raggiungono milioni di reiterazioni.
Internet non è il problema, ma la disuguaglianza economica e sociale con cui le egemonie del mondo reale vengono trasferite nello spazio virtuale, attraverso il denaro. Tim Berners Lee, creatore del World Wide Web, ha espresso in occasione dei 28 anni della sua invenzione, marzo 2017, di sentirsi “sempre più preoccupato per tre nuove tendenze” del web: Abbiamo perso il controllo delle nostre informazioni personali, è molto facile divulgare informazioni errate sul Web e la pubblicità politica online richiede trasparenza e comprensione.
Nel 2016, Jonathan Albright, professore alla Elon University in North Carolina, pubblicava una mappa che mostrava come a partire dal dominio dell’algoritmo delle ricerche di Google l’estrema destra ha colonizzato lo spazio digitale molto più efficacemente che la sinistra liberale negli USA. La mappa di Albright, che ha seguito 1 milione 300 mila collegamenti ipertestuali, dimostra come un sistema “satellite” di notizie e propaganda di destra (sagome scure sulla mappa) ha circondato il sistema di mezzi di comunicazione dominanti proprio nell’anno in cui Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca. Interrogato dal quotidiano The Guardian su come fermare quel processo, Albright ha risposto: “Non lo so, non sono sicuro che si riesca, è una rete, è molto più potente di qualsiasi attore”. “Allora ha quasi una vita propria?” gli chiesero, “Sì -rispose lo scienziato- e sta imparando. Ogni giorno diventa più forte”.
Applichiamo una mappa simile in cui sono presenti tutte le fonti che generano notizie false su Cuba e la stampa cubana, che riceve un dollaro di budget per ogni quattro che i primi investono. Che soluzione c’è di fronte a ciò per un piccolo paese che pretende non essere dominato dall’egemonia USA? Fuggire dai social network di Internet, che già fanno parte della vita quotidiana di miliardi di persone, della maggior parte dei giovani e di un numero crescente di cubani? Creare, senza massa critica demografica, spazi nazionali esclusivi come fa la Cina che ha più utentii della rete di USA ed Europa insieme? Non sembra essere praticabile, la nostra alternativa sembra essere quella di mettere in rete i nostri valori, nel chiederci se i cubani portatori di quei valori sono quelli che hanno più agevolazione per accedere ad Internet, nel far sì che i nostri media e le nostre scuole promuovano una cultura dell’utilizzo di quelle tecnologie che permetta di non essere manipolato e che le leadership istituzionali, politiche e sociali siano presenti e si articolino nella rete a partire da un’informazione opportuna e di qualità che abbia relazione con le aspettative ed i bisogni dei cubani. Forse così c’è un percorso coerente con quello che una volta Fidel ci ha detto: “Internet sembra inventata per noi”, con ciò che il nostro presidente Miguel Díaz Canel ha affermato nel giorno del suo insediamento: “È nostra responsabilità essere più creativi nella diffusione delle nostre verità” e con la sua concezione che “non possiamo temere le sfide che impone una rete come Internet; non possiamo rinunciare al progetto di una società più giusta, libera e democratica che sia il culto dei cubani alla piena dignità dell’uomo e che si faccia effettiva nel contesto in cui ci è toccato vivere”.
Redes sociales en Internet: ¿Qué hacer?
Por Iroel Sánchez
“En un mundo donde la comunicación es cada vez mayor…, no vivimos ni podemos vivir como aquellos indios siboneyes y taínos que habitaban nuestra tierra hace 500 años…, vivimos en el mundo de las comunicaciones, de la radio, de la televisión, de los libros, de los teléfonos a larga distancia, y esa tendencia hacia la comunicación entre todos los países será cada vez mayor, y en ese mundo tenemos que aprender a vivir cada vez más adaptados y cada vez mejor preparados”.
Fidel 7 de noviembre de 1993
Aunque sólo en estos tiempos de uso cada vez más generalizado de Internet se ha popularizado el término que antes era únicamente común entre sociólogos y otros profesionales de la Ciencias Sociales, las redes sociales existen desde que existen los colectivos humanos. Incluso, otros colectivos no humanos funcionan también como redes, basta observar un hormiguero, un panal de abejas, el modo en que caza una manada de lobos o leones, o el desplazamiento de de los delfines y las aves migratorias para percatarnos. Su funcionamiento resulta decisivo en el acceso a la alimentación, la protección contra otras especies, la reproducción y para compartir información imprescindible relacionada con esas actividades vitales.
En las sociedades humanas cada individuo pertenecía ya a redes familiares, de amistades, de vecinos, de compañeros trabajo o de estudio, de profesionales, muchas veces superpuestas, desde muchísimo antes que espacios como Facebook o Twitter se volvieran cotidianos.
Sin embargo, la llegada de Internet ha vuelto tangible, e incluso capitalizable, lo que antes era invisible. Al quedar registrados en las memorias de potentes computadoras llamadas servidores cada búsqueda, cada intercambio, cada publicación de texto, video o fotos y los que interactúan con ellas, así como los metadatos que las acompañan (fecha, hora, sexo, tema y ubicación geográfica de los participantes, entre otros), en un espacio donde cada minuto se producen miles de millones de esas acciones, el desarrollo actual de herramientas informáticas para correlacionarlos permite encontrar y conectar afinidades a una velocidad antes impensable.
Así han surgido las empresas conocidas como “gigantes de internet” o de la tecnología, cuyo potencial se apoya precisamente en capitalizar esos intangibles. Ofreciendo a sus usuarios como mercancía para la publicidad de otras empresas con una efectividad que hace pocos años no era posible imaginar, Facebook y Google han llegado a cotizarse en bolsa por cientos de miles de millones dólares. Ya son cada vez menos los que llegan a una información tecleando la dirección en el navegador, lo más común es que se navegue a través de lo que un buscador como Google o el algoritmo de Facebook nos ponen delante. Más que navegar nos relacionamos con aplicaciones de Internet que seleccionan para nosotros respuestas virtuales a partir de hegemonías del mundo real que pagaron por ello.
Para la mayoría de los internautas que usan esas dos herramientas la mayor parte de su tiempo de conexión, Internet es Facebook y Google, al igual que sistema operativo es sinónimo de Android o Windows.
El 18 de mayo de 2012 una declaración conjunta de un grupo de organizaciones de la sociedad civil de cara a la reunión de Naciones Unidas en Ginebra para la “Cooperación mejorada sobre cuestiones de políticas públicas relativas a Internet” apuntaba que “lo que fue una red pública de millones de espacios digitales, ahora es en gran medida un conglomerado de espacios de unos pocos propietarios”. Seis años después, muchos hablan de GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple y Microsoft) como el gigante que controla desde un solo país el espacio digital global.
Más allá de las denuncias sobre su uso con fines de dominación política y militar en consecuencia con lo que ya reveló el ex analista de la National Security Agency, Edward Snowden, la efectividad que adquieren en los mercados nacionales las empresas transnacionales que pueden pagar por ser publicitadas, microlocalizando los públicos de acuerdo a sus características, gustos y necesidades, traspasando las fronteras nacionales, es arrasadora. Con más de 4000 millones de usuarios de Internet, la batalla que se libra entre Google y Facebook por gestionar la conexión de los 3000 millones de terrícolas restantes con “internet.org” (entiendase acceso gratuito a los servicios de esas empresas pero cobrado al salir de esos espacios) está en pleno auge. Las políticas que penalizan en la corporación de Mark Zuckerberg los enlaces externos, volviéndolos prácticamente invisibles, mientras premian el contenido que no obliga a salir de la red social para accederlo son una manifestación de esa obsesión por tener a los usuarios todo el tiempo en el espacio donde cada acción produce metadatos para la empresa.
La contradicción entre la socialización cada vez mayor del trabajo y la concentración creciente del capital propia de la sociedad contemporánea se expresa ahora entre la expansión imparable del tiempo de permanencia en la red de redes y la apropiación cada vez por menos manos de los metadatos que esta genera.
Indiscutiblemente la brecha digital se ha venido cerrando a una velocidad mucho mayor que la radial o televisiva pero eso, lejos de significar una diversificación del consumo cultural, ha profundizado el abismo entre el núcleo de producción de contenidos y servicios en poder de unas pocas empresas estadounidenses y el resto del planeta, provocando una creciente homogeneización.
En América Latina, de los 100 sitios más populares sólo el 26% es de origen local y menos del 30% está en idioma local, incluso buena parte de este último aunque esté en castellano es de procedencia estadounidense.
Es un hecho cotidiano que un anunciante puede hoy microlocalizar en una red como Facebook o en los resultados de un buscador como Google el destinatario de un mensaje a partir de la edad, el sexo, la ubicación geográfica y perfil profesional, ya sea para posicionar un producto o una noticia, sin importar si es esta es veraz o no, sólo tiene que tener el dinero para pagar por ello. Se trata de algo absolutamente legal y de uso muy común que nada tiene nada que ver con los recientes escándalos por la utilización de datos derivados de la actividad personal en Facebook para crear perfiles políticos de los usuarios, asociados a la empresa Cambridge Analytica.
Son pocos los países cuya masa crítica demográfica y lengua propia les permite desarrollar alternativas, como es el caso de China y Rusia. El experto y profesor de la Universidad de Stanford Evgueny Morozov, para nada sospechoso de admiración por algunos de esos dos países, apuntaba con ironía en 2015: “Noten la diferencia crucial: Rusia y China quieren poder acceder a los datos generados por sus ciudadanos en su propio suelo, mientras que los EE.UU. quieren acceder a los datos generados por cualquier persona en cualquier lugar, siempre y cuando las empresas estadounidenses los manejen.”
Procesos como el Brexit, la elección de Donald Trump o la respuesta al referendum sobre la paz en Colombia han sido impactados por estas realidades. Las guarimbas del primer semestre de 2017 en Venezuela, la derrota de la consulta para la reelección de Evo Morales en Bolivia, o el despliegue instantáneo de la violencia en Nicaragua han contado con millones dólares invertidos en las redes sociales de Internet.
Ya no se puede decir que la mentira tiene las patas cortas, sería más apropiado plantear que viaja a la velocidad de la luz en la fibra óptica que enlaza los servidores de Internet. En los tiempos en que Joseph Goebbels se ocupaba de la propaganda hitleriana solía decir que una mentira repetida muchas veces puede convertirse en verdad pero debía esperar a que saliera al aire el próximo noticiero radial, se proyectara el siguiente resumen cinematográfico de noticias, o se imprimieran los periódicos matutinos o vespertinos para hacerlo. Hoy en un segundo los tuits del presidente de los Estados Unidos alcanzan millones de reiteraciones.
Internet no es el problema sino la desigualdad económica y social con que las hegemonías del mundo real se trasladan al espacio virtual, dinero mediante. Tim Berners Lee, creador de la world wide web, expresaba en ocasión de cumplirse 28 años de su invención en marzo de 2017 sentirse “cada vez más preocupado por tres nuevas tendencias” de la web: Hemos perdido control de nuestra información personal, es muy fácil difundir información errónea en la web y la publicidad política en línea necesita transparencia y entendimiento.
En 2016, Jonathan Albright, profesor de la Universidad de Elon en Carolina del Norte, publicaba un mapa en el que mostraba cómo a partir del dominio del algoritmo de las búsquedas de Google la extrema derecha colonizó el espacio digital mucho más efectivamente que la izquierda liberal en EE.UU. El mapa de Albright, que siguió un millón trecientos mil hipervínculos, muestra cómo un sistema “satelital” de noticias y propaganda de derecha (formas oscuras en el mapa) rodeó el sistema de medios de comunicación dominantes justo en el año en que Donald Trump llegó a la Casa Blanca. Preguntado por el diario The Guardian acerca de cómo detener ese proceso, Albright respondió: “No lo sé, no estoy seguro de que pueda ser, es una red, es mucho más poderoso que cualquier actor”. “¿Entonces casi tiene vida propia?”, le preguntaron, “Sí -respondió el científico- y está aprendiendo. Todos los días se hace más fuerte”.
Apliquémonos un mapa similar donde estén todas las fuentes que generan fake news hacia Cuba y la prensa cubana, que recibe un dólar de presupuesto por cada cuatro que invierten los primeros. ¿Qué solución hay ante eso para un país pequeño que pretende no ser dominado por la hegemonía estadounidense? ¿Huir de las redes sociales de Internet, que ya forman parte de la vida cotidiana de miles de millones de personas, de la mayoría de los jóvenes y de un creciente número de cubanos? ¿Crear, sin masa crítica demográfica espacios nacionales excluyentes como hace China que tiene más internautas que Estados Unidos y Europa juntos? No parece ser viable, nuestra alternativa pareciera estar en poner en red nuestros valores, en preguntarnos si los cubanos portadores de ellos son los que más facilidades tienen para acceder a Internet, en hacer que nuestros medios de comunicación y nuestras escuelas fomenten una cultura del uso de esas teconologías que permita no ser manipulado y que los liderazgos institucionales, políticos y sociales están presentes y se articulen en la red a partir de una información oportuna y de calidad que guarde relación con las expectativas y necesidades de los cubanos. Tal vez por ahí haya un camino consecuente con aquello que una vez nos dijo Fidel: “Internet parece inventada para nosotros”, con lo que afirmó nuestro Presidente Miguel Díaz Canel el día de su asunción: “Nos corresponde ser más creativos en la difusión de nuestras verdades” y con su concepción de que que “no podemos temer a los desafíos que impone una red como Internet; no podemos renunciar al proyecto de una sociedad más justa, libre y democrática que sea el culto de los cubanos a la dignidad plena del hombre y que se haga efectiva en el contexto que nos ha tocado vivir.”