di Geraldina Colotti
In tempo di crisi, quando ci sarebbe bisogno di serrare le fila contro le difficoltà e il nemico, i tradimenti risultano ancora più odiosi. Quasi per mitigarne il peso, si discute allora su quali fossero, se c’erano, i segnali che potevano far prevedere il tradimento e perché non siano stati avvertiti in tempo. Un esercizio che, certo, si può fare, tanto più se a tradire è la persona situata al vertice di un progetto collettivo. Più proficuo è, però, analizzare il contesto, i pregressi, le scelte, le linee politiche che hanno fatto apparire più adatta quella persona a occupare quel posto, quell’incarico, e a scivolare poi – lentamente o d’un colpo – dall’altra parte della barricata.
Cosa ha portato Lenin Moreno, attuale presidente dell’Ecuador ad abbracciare il campo avverso, voltando le spalle alle conquiste della Revolucion Ciudadana? A sentire quella parte di opposizione che si definisce la più a sinistra di tutte, ma non al punto da rifiutare le alleanze con le destre ecuadoriane, la svolta era nelle cose, perché è avvenuta molto prima: con Rafael Correa, che ha – seppur con qualche esitazione – proposto e sostenuto la candidatura di quel Moreno che oggi lo vorrebbe mettere in galera.
Dice, quella “sinistra indigenista”, che “la contrazione della spesa pubblica a vantaggio dei grandi gruppi economici, la politica monetaria al servizio della banca privata, la firma del trattato di libero commercio con l’Europa” sono avvenuti già prima. Per questo, non c’è da stupirsi che Moreno sia “un neoliberista” in più, appena mascherato da una politica del contagocce con la quale cerca di imporre le ricette del Fondo monetario internazionale e di riportare l’Ecuador nel cortile di casa degli Stati uniti.
Fermo restando le differenze di storia e contesto, vero è, però, che – nell’onda del “rinascimento latinoamericano”, iniziato con la vittoria di Chavez in Venezuela – la Revolucion Ciudadana in Ecuador è stata quella che, tra i paesi dell’Alba (e lasciando per un momento di lato il caso del Nicaragua, tornato a respirare dopo essere sprofondato nell’abisso per anni), ha messo meno l’accento su un cambiamento strutturale dei rapporti di proprietà e molto più – per semplificare – sull’evocazione di una prospettiva ambientale e sui diritti civili.
Ovviamente, i cambiamenti nella vita dei settori popolari ci sono stati, eccome, e oggi sono nuovamente messi a rischio dal voltafaccia di Lenin Moreno. L’Ecuador, però, è sempre rimasto un paese “dollarizzato”, ancora molto dipendente dai rapporti commerciali con l’Europa con la quale, effettivamente, ha firmato il Tlc nell’ultimo periodo di governo di Correa, quando già la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale avevano rifatto capolino dopo il terribile terremoto del 2016. E quali fossero gli effettivi rapporti di forza con i settori dominanti è parso chiaro quando Correa ha provato a proporre la tassa sul patrimonio, suscitando la reazione rabbiosa degli straricchi, che sono scesi in piazza… insieme a quelli che accusavano Correa di non aver fatto abbastanza.
Perché, allora, i Moreno di tutti i tempi, quando devono governare un equilibrio difficile, scivolano verso il manto chiodato della destra? A spiegarlo è, ancora oggi, un altro Lenin: il Lenin bolscevico, che ha speso l’intera vita per la rivoluzione. Gli insegnamenti contenuti nel suo libro Stato e rivoluzione sono ancora attuali. Valgono ancor di più quando le classi popolari trovano rappresentanza in un governo, e ci arrivano con gli strumenti della democrazia borghese, con le elezioni e non con una rivoluzione.
La lotta di classe continua allora anche in quel governo, tra i vari settori che cercano di far prevalere i propri interessi. E quando a prevalere sulla scena politica è il gioco delle alleanze istituzionali, capita che i margini si riducano e che le forze di progresso vengano scalzate, com’è accaduto in Brasile con Dilma Rousseff e ora con Lula: la borghesia sa usare la sua legalità di comodo meglio di chi vuole instaurarne una reale, quella basata sulla giustizia sociale. Quando gli equilibri di classe sono precari, basta uno scossone per far crollare i governi con un bel golpe istituzionale. Il primo esempio è stato quello di Lugo in Paraguay, a seguire l’Honduras… E non si sono viste sanzioni o “interventi umanitari” da parte di quei “sinceri democratici” che ora vorrebbero cancellare il governo bolivariano perché cerca una soluzione diversa da quella che sta affamando intere popolazioni in nome della “democrazia”.
L’esempio del Venezuela è, al riguardo, assai pertinente, presenta un interesse concreto e simbolico dentro e fuori il continente latinoamericano. Perché, nonostante attacchi di ogni tipo, debolezze strutturali e inevitabili errori, la rivoluzione bolivariana si avvia a festeggiare i suoi vent’anni? Interessano qui soprattutto alcuni elementi.
Il primo riguarda senz’altro il passaggio da un “nazionalismo senza aggettivi” a uno fortemente innervato nel socialismo e nella grande “lezione novecentesca”: che ha trasformato in nemici quanti volevano vedere in Chavez solo una forma “migliorata” del caudillo latinoamericano.
In questo contesto, con il proceso bolivariano, si è cercato di saldare il debito secolare nei confronti dei settori tradizionalmente esclusi: passando da una democrazia per le élite a una agorà in cui gli ultimi hanno preso davvero la parola (la democrazia partecipativa e il potere popolare).
Le compagne e i compagni che avevano combattuto con le armi lo Stato borghese durante la IV Repubblica avevano ben chiara la lezione di Lenin contenuta in Stato e rivoluzione, consapevoli delle trappole (anche inedite) che avrebbero dovuto affrontare. Una consapevolezza sempre più avvertita, come si è visto durante il IV congresso del partito, ancora in corso nella sua parte che guarda al futuro, quello giovanile del JPSUV.
La costituzione del PSUV, dieci anni fa, costituisce l’elemento di sostanza e di forza della rivoluzione bolivariana. Un elemento che la differenzia dai paesi come l’Ecuador, dove le forze della trasformazione sono rimaste deboli all’interno dell’alleanza – Alianza Pais – con cui è andato al governo Correa nell’ottobre del 2006, quando l’idea del PSUV era ancora in gestazione. E bene ha fatto il Comandante Hugo Chavez a proporre la discussione in un momento così effervescente per il paese e per il continente.
Formidabile anche la scelta di non rompere con gli alleati, né di costringerli a costituire correnti interne al PSUV che avrebbero portato subito a nuove scissioni, ma di raccoglierli in una conformazione – il Gran Polo Patriotico – che conserva l’identità delle singole formazioni o partiti, ma ne valorizza gli spunti comuni. Che gran lezione sarebbe, questa, anche per la rinascita di un blocco sociale anticapitalista che, in Europa, non annacquasse i propri principi, ma fosse anche capace di costruire alleanze sui contenuti…
Che a resistere – a fianco di Cuba e al Nicaragua, erede dell’ultima rivoluzione del Novecento – siano i due paesi che più hanno valorizzato la lezione del secolo scorso, rinnovandola nel presente con una visione marxista, siano Venezuela e Bolivia, non ci sembra affatto casuale. Due paesi che hanno declinato, con creatività e coraggio, il rapporto tra conflitto e consenso, ponendosi i problemi della transizione al socialismo senza ipocrisia.
Non a caso, fu proprio Chavez, e nel momento di massima crescita della rivoluzione bolivariana, a “bacchettare” l’uso costante della parola socialista (“arepa socialista” eccetera eccetera) che stava portando a banalizzare gli ostacoli esistenti sul cammino di una vera transizione al socialismo. Ostacoli ben presenti alla direzione politica del partito, che sta cercando di imprimere elementi per un cambiamento strutturale nelle scelte di governo, dove agiscono anche forze portatrici di spinte più moderate.
Si può depotenziare dall’interno lo Stato borghese senza farsi ingoiare dai vizi che inevitabilmente produce la gestione di un paese circondato da squali pronti a divorarlo? E’ questa la sfida, a volte difficile da assumere per i rivoluzionari coscienti dell’inevitabilità dei momenti di rottura, che vanno governati senza autoritarismi, ma anche affrontati con realismo e decisione. Il presidente Maduro – un operaio che si è formato alla scuola marxista del secolo scorso – ha piena coscienza del problema.
Il dibattito in corso nel PSUV sta dimostrando un livello di crescita e consapevolezza per navigare nei frangiflutti avversi senza perdere la rotta: forzando o organizzando “casematte” in quella “guerra di posizione” analizzata da Antonio Gramsci. La principale forza è l’organizzazione del potere popolare, che non è stata indirizzata verso falsi obiettivi, o sfinita nella ricerca di una improbabile “giustizia” che le istituzioni borghesi non potranno mai dare: com’è accaduto in Brasile e, per altri versi, nell’Ecuador di Lenin Moreno.
Il cedimento di Moreno non è di poco conto nell’attacco senza quartiere che l’imperialismo sta portando al Venezuela per riprendere il dominio del continente.
Suscita rabbia e tristezza quella riunione di 13 paesi latinoamericani che si è svolta a Quito per “analizzare la crisi migratoria venezuelana”, ma senza i rappresentanti del governo bolivariano. In molti, infatti, avrebbero dovuto abbassare lo sguardo e incassare la verità del Venezuela, sostenuta con passione e rigore – quello stesso che ha animato i discorsi internazionali del Che, di Fidel e poi di Chavez – dalle compagne e dai compagni venezuelani in tutti gli organismi internazionali. Succede tutte le volte che parlano Delcy Rodriguez, Jorge Arreaza, Simon Moncada, Jorge Valero… Succede nelle conferenze stampa internazionali, organizzate da Nicolas Maduro. Succede per le dichiarazioni contundenti di Diosdado Cabello, che colpiscono sempre nel segno. Per impedire che il mondo ascolti un’altra voce, l’imperialismo e i suoi Giuda usano l’esclusione, l’arroganza, la menzogna: le armi più insidiose della loro “legalità” borghese, quella che uccide con le mani pulite.