una riconfigurazione concettuale dell’emigrazione venezuelana
Ana Cristina Bracho http://misionverdad.com
Facciamo un piccolo viaggio nel tempo. Spostiamo all’indietro il calendario di un decennio ed andiamo a guardare una mappa africana sino ad incontrare un paese al di sotto della Libia e dell’Egitto. Benvenuti in Sudan. Questo paese che è in qualche posto della mappa, si è inserito nelle notizie, con molto rumore, quando alcune delle figure più famose di Hollywood, tra cui George Clooney, hanno alzato la loro voce per parlare dell’orrore che lì avviene.
Questo remoto paese vive una crisi, nota come il conflitto del Darfur, che va a meritare che la Corte Penale Internazionale giudichi il Presidente, le Nazioni Unite intervengano e che i media spostino persone a questa poco rilevante regione. Quello che succede lì, che informano ha avuto inizio nel 2003, è stato catalogato dal governo USA come un genocidio della popolazione nera, e benché le Nazioni Unite non abbiano accettato la denominazione, hanno applaudito l’invio di truppe USA, nel 2007, presumibilmente per fermare la crisi.
Dopo diversi anni in quel conflitto ed essere stato posto come tema dell’ONU, il 9 luglio 2011 il territorio del paese è stato diviso in due ed è nata una nuova Repubblica: Sudan del Sud. Questo piccolo stato, concordato da un referendum, è nato con la promessa di raggiungere la pace. È un territorio incredibilmente ricco di petrolio e anche una delle aree di maggior conflitto del pianeta.
Dividere il paese in due, non ha risolto il conflitto, la nascente Repubblica di poco più di 10 milioni di abitanti, nel 2015, ora ha solo 9 milioni di persone, ed è spesso indicata come uno stato fallito.
Con l’inadempimento della promessa, la crisi politica e la continuazione della guerra, il Sudan del Sud ha, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’ONU, 1752014 emigranti, che rappresenta il 13,93% della sua popolazione. I suoi emigranti si dirigono specialmente verso l’Uganda, dove va il 51.55%, seguito da lontano dall’Etiopia, 23.81% e Sudan, 17.23%. Questa popolazione disperata che fugge anche attraverso la Libia è stata segnalata tra i casi che hanno ammutolito il mondo nello scoprire nuove rotte di schiavitù che offrono immagini di una situazione simile a ciò che si stimava superata.
Perché ne parliamo? Perché una delle cause dell’intervento militare straniero in Sudan è stata la disperazione della popolazione e la sua emigrazione causata dalla guerra. Le misure adottate, che sono state così radicali come sostenere la disgregazione di un paese, non hanno ottenuto risolvere la situazione e queste persone, in fuga da un contesto di estrema violenza, si inquadrano nella tradizionale descrizione che il Diritto Internazionale fa dei rifugiati.
In un lavoro speciale pubblicato su questo portale, prendiamo classiche definizioni che determinano la classificazione delle persone che si muovono oltre i loro confini. Oggi, non vogliamo tornare a questo bensì pensare a come ritornano.
Ritorno in Patria
Questa frase, che si è appropriata delle notizie da quando il Presidente Nicolas Maduro ha così chiamato una missione destinata a fornire i mezzi per il ritorno delle persone che se ne sono andate, appartiene alla nostra letteratura. E’ il titolo di una poesia che Juan Antonio Pérez Bonalde ha incluso nel suo libro ‘Strofe’ pubblicato a New York, nel 1877, e dedicato a sua madre che morì durante la sua assenza.
A grandi linee, osserviamo che il piano è in fase di sviluppo nel continente americano e consiste nell’invio di aerei, disposti dal Governo nazionale, per cercare quelle persone che manifestano, alle missioni diplomatiche del paese, il loro desiderio di ritornare. È stata notizia che ci sono richieste in Perù, Ecuador, Brasile, Argentina e Panama.
Costituisce una reazione del Governo venezuelano non al fatto dell’emigrazione ma alle continue denunce di azioni contrarie ai diritti fondamentali di nostri connazionali in paesi stranieri ed anche un modo per demolire un mito che, dalla Commissione Inter-Americana dei Diritti Umani (CIDH), si incoraggiava.
Come si produce un rifugiato?
Giuridicamente, tutto ciò che ha a che vedere con i rifugiati si trova ancorato ai concetti che ha dettato l’ONU, nella Convenzione relativa allo status di rifugiati, del 1951.
L’articolo 1 della Convenzione, emendato dal Protocollo del 1967 fornisce la definizione di rifugiato dicendo che è “una persona che, a causa di un fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o di opinione politica in particolare, si trova fuori dal suo paese di nascita ed è incapace o, a causa di tale timore, non è disposto ad avvalersi della protezione di quel paese; o di chi, non avendo una nazionalità e trovandosi fuori del paese della sua precedente residenza abituale a seguito di tali eventi, è incapace, a causa di tale timore, di essere disposto a ritornare a questo”.
Da un lato, la posizione che ha un rifugiato è prodotto che la sua situazione di origine è compatibile con una crisi umanitaria e, certamente, è contraria allo stato di cose che dovrebbe darsi se i termini dei diritti umani fossero rispettati dal suo paese di origine
Ma è fondamentalmente il rifiuto del rifugiato, di fronte a tale commozione e situazione di rischio di ritorno, che definisce il suo status. Pertanto, la missione ‘Ritorno in Patria’ serve per incidere sulla costruzione concettuale dell’emigrazione venezuelana come una crisi generata da uno stato di anomia e dittatura (paradossalmente ci si accusa di entrambi) in Venezuela.
Pertanto si conferma che i venezuelani all’estero sono persone che si sono trasferite nella regione e nel mondo, facendo uso volontario delle clausole contenute nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per cercare di ottenere migliori condizioni di vita al di fuori del paese.
È davvero possibile? La vita migliore è un’obbligazione dello Stato ricevente? A tutti va ugualmente bene? Non solo non è vero, ma i governi che chiamano, dai media, i venezuelani nei loro paesi sono andati irrigidendo le condizioni di ingresso e permanenza nelle loro nazioni.
Due elementi di risposta. Il primo sono le cattive condizioni sofferte da alcuni venezuelani all’estero. Il secondo è che i paesi non li hanno trattati come rifugiati ma come transeunti o migranti ai quali può essere richiesto visti d’ingresso o permessi di lavoro e soggiorno.
L’OSA nel suo stesso labirinto
Nel marzo 2018, la CIDH ha adottato la Risoluzione 2/18, su quella che viene da essa definita “migrazione forzata di persone venezuelane nella regione”.
In questo documento, unilaterale di un’agenzia inter-americana, ha richiesto ai paesi “fornire protezione internazionale alle persone che ne richiedono, così come proteggerle dalla discriminazione e xenofobia, espressioni di odio, il rischio di apolidia, le minacce alla loro vita e integrità personale, la violenza sessuale e di genere, abusi e sfruttamento, il traffico di persone, la scomparsa, le esecuzioni extragiudiziali e la scoperta di fosse clandestine. Inoltre, la mancanza di documenti di identità e ostacoli all’accesso all’assistenza umanitaria, in particolare l’accesso all’alloggio, salute, alimentazione, istruzione e ad altri servizi di base. In questo senso, la Risoluzione che si pubblica oggi, cerca di fornire orientamenti agli Stati della regione sulle misure da adottare per rispondere alla situazione, in rispetto dei loro obblighi internazionali in materia di diritto internazionale dei diritti umani e di diritto internazionale dei rifugiati”.
Ciò che, come siamo venuti dimostrando, non si è verificato poiché i paesi vanno richiedendo maggiori requisiti da parte dei venezuelani, nelle decisioni che prendono all’interno delle loro competenze amministrative in materia di migrazione.
La questione è stata oggetto di una sessione straordinaria del Consiglio Permanente dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), il 5 settembre di quest’anno, senza che riuscissero ad adottare una risoluzione che desse a tale atto una naturalezza di decisione approvata dai paesi membri. Quindi i paesi non si trovano disposti a compromettere la loro sovranità e le loro risorse per l’imposizione della storia di una situazione straordinaria e spettacolare di rifugiati venezuelani.
Nonostante quanto sopra, e data l’intenzione di propaganda contro il governo di Nicolás Maduro Moros, con cui si è posta attenzione alla questione, abbiamo visto come, il 6 settembre, uno sconfitto segretario generale dell’OSA ha annunciato la sua intenzione di andare al confine colombiano per dimostrare che la situazione che lui denuncia esiste.
Questa è un ultimo importante tema, perché quando vediamo grandi flussi migratori come quello messicano e di altri paesi dell’America Centrale verso gli USA, le cause non hanno nomi ma si esauriscono nella violenza o nella povertà.
Solo due casi sono diversi: le popolazioni che hanno lasciato il Venezuela ed il Nicaragua. Non crediamo che questa sia una semplice coincidenza.
Vuelta a la Patria: una reconfiguración conceptual de la emigración venezolana
Ana Cristina Bracho
Hagamos un pequeño viaje en el tiempo. Vamos a retrasar una década el calendario y vamos a mirar un mapa africano hasta encontrar un país debajo de Libia y Egipto. Bienvenidos a Sudán. Este país que queda en algún lugar del mapa, ha ingresado a las noticias con mucho ruido cuando algunas de las más conocidas figuras de Hollywood, entre ellas George Clooney, han levantado su voz para hablar del horror que allí ocurre.
Este remoto país vive una crisis, conocida como el Conflicto del Darfur, que va a ameritar que la Corte Penal Internacional juzgue al Presidente, las Naciones Unidas intervengan y que los medios desplacen a la gente a esta poco noticiosa región. Lo que allí acontece, que reportan había iniciado en 2003, fue catalogado por el gobierno de los Estados Unidos como un genocidio de la población negra, y aunque las Naciones Unidas no aceptaron la denominación, aplaudieron el envío de tropas de los Estados Unidos en 2007 para supuestamente detener la crisis.
Tras varios años en ese conflicto y ser ubicado como un tema de las Naciones Unidas, el 9 de julio de 2011 el territorio del país se partió en dos y nació una nueva República: Sudán del Sur. Este pequeño Estado, acordado por un referendo, nació con la promesa de alcanzar la paz. Es un territorio increíblemente rico en petrolero y también una de las zonas de mayor conflicto del planeta.
Partir al país en dos no solucionó el conflicto, la naciente República de tan solo un poco más de 10 millones de habitantes en 2015 ya solo tiene 9 millones de pobladores, y suele ser referida como un Estado fallido.
Con el incumplimiento de la promesa, la crisis política y la continuidad de la guerra, Sudán del Sur tiene, según los últimos datos publicados por la ONU, 1 millón 752 mil 14 emigrantes, lo que supone un 13,93% de su población. Sus emigrantes se dirigen especialmente hacia Uganda, donde va el 51,55%, seguido de lejos por Etiopía, el 23,81%, y Sudán, el 17,23%. Esta población desesperada que huye también por Libia ha sido reportada entre los casos que enmudecieron al mundo al descubrir nuevas rutas de esclavitud que ofrecen imágenes de una situación parecida a la que se estimaba superada.
¿Por qué hablamos de esto? Porque una de las causas de la intervención militar extranjera en Sudán fue el desespero de la población y su emigración causada por la guerra. Las medidas adoptadas que fueron tan radicales como apoyar la ruptura de un país, no lograron solucionar la situación y estas personas, que huyen de un contexto de extrema violencia, encuadran en la descripción tradicional que el Derecho Internacional hace de los refugiados.
En un trabajo especial publicado en este portal, tomamos definiciones clásicas que determinan la clasificación de las personas que se desplazan mas allá de sus fronteras. Hoy, no queremos volver a ello sino pensar en cómo regresan.
Vuelta a la Patria
Esta frase, que se ha apropiado de las noticias desde que así denominó el presidente Nicolás Maduro a una misión destinada a proveer los medios para el retorno de las personas que se fueron, pertenece a nuestra literatura. Es el título de un poema que Juan Antonio Pérez Bonalde incluyó en su libro Estrofas publicado en Nueva York en 1877 y dedicado a su madre que murió mientras él se encontraba ausente.
En las líneas más gruesas, observamos que el plan se está desarrollando en el continente americano y consiste en el envío de aviones dispuestos por el Gobierno nacional a buscar a aquellas personas que manifiesten su deseo de retornar ante las sedes diplomáticas del país. Ha sido noticia que existen solicitudes en Perú, Ecuador, Brasil, Argentina y Panamá.
Constituye una reacción del Gobierno venezolano, no al hecho de la emigración sino a las continuas denuncias de actos contrarios a los derechos fundamentales de nuestros nacionales en países extranjeros, y también, una manera de derribar un mito que, desde la Comisión Interamericana de Derechos Humanos (CIDH), se alentaba.
¿Cómo se produce un refugiado?
Jurídicamente, todo lo que tiene que ver con los refugiados se encuentra anclado a los conceptos que dictó la ONU, en la Convención relacionada con el estatus de refugiados, de 1951.
El Artículo 1 de la Convención, enmendado por el Protocolo de 1967, provee la definición de refugiado diciendo que es “una persona que, debido a un miedo fundado de ser perseguido por razones de raza, religión, nacionalidad, membresía de un grupo social o de opinión política en particular, se encuentra fuera de su país de nacimiento y es incapaz, o, debido a tal miedo, no está dispuesto a servirse de la protección de aquel país; o de quien, por no tener nacionalidad y estar fuera del país de su antigua residencia habitual como resultado de tales eventos, es incapaz, debido a tal miedo, de estar dispuesto a volver a éste”.
Por un lado, la postura que tiene un refugiado es producto de que su situación de origen es compatible con una crisis humanitaria y, sin duda, es contraria al estado de las cosas que debería darse si los términos de los derechos humanos fuesen respetados por su país de origen.
Pero es fundamentalmente la negativa del refugiado, ante tal conmoción y situación de riesgo de volver, lo que define su estatus. Por ello, la misión Vuelta a la Patria sirve para incidir en la construcción conceptual de la emigración venezolana como una crisis originada por un estado de anomia y dictadura (paradójicamente se nos acusa de ambas) en Venezuela.
Por ello se confirma que los venezolanos en el extranjero son personas que se han desplazado por la región y el mundo, haciendo uso voluntario de las cláusulas consagradas en la Declaración Universal de los Derechos Humanos para intentar conseguir mejores condiciones de vida fuera del país.
¿Es esto realmente posible? ¿La mejor vida es una obligación del Estado receptor? ¿A todos les va igualmente bien? No es tan solo que esto no es cierto, sino que los gobiernos que llaman por los medios a los venezolanos a sus países, han venido endureciendo las condiciones de entrada y permanencia en sus naciones.
Dos elementos de respuesta. El primero, son las malas condiciones que han sufrido algunos venezolanos en el extranjero. El segundo, que los países no los han tratado como refugiados sino como transeúntes o migrantes a los que se les puede exigir visas de entrada o permisos de trabajo y estadía.
La OEA en su propio laberinto
En marzo de 2018, la CIDH adoptó la Resolución 2/18, sobre la por ella denominada “migración forzada de personas venezolanas en la región”.
En este documento, unilateral de una agencia interamericana, solicitó a los países “otorgar protección internacional a las personas que lo requieran, así como protegerlas de la discriminación y xenofobia, discursos de odio, el riesgo de apátrida, las amenazas a su vida e integridad personal, la violencia sexual y de género, los abusos y explotación, la trata de personas, la desaparición, las ejecuciones extrajudiciales y el descubrimiento de fosas clandestinas. Asimismo, la falta de documentos de identidad, y obstáculos en el acceso a asistencia humanitaria, particularmente acceso a vivienda, salud, alimentación, educación y otros servicios básicos. En este sentido, la Resolución que se publica el día de hoy, busca brindar orientaciones a los Estados de la región sobre las medidas a adoptar para responder a la situación, en cumplimiento con sus obligaciones internacionales en materia de derecho internacional de los derechos humanos y de derecho internacional de refugiados”.
Lo cual, como hemos venido evidenciando, no ha ocurrido cuando los países que vienen exigiendo mayores requisitos a los venezolanos, en las decisiones que toman dentro de sus competencias administrativas en materia de migración.
El tema fue objeto de una sesión extraordinaria del Consejo Permanente de la Organización de los Estados Americanos (OEA), el 5 de septiembre de este año, sin que lograran adoptar una resolución que le diera a ese acto una naturaleza de decisión refrendada por los países miembros. De modo que los países no se encuentran dispuestos a comprometer su soberanía y recursos por la imposición del relato de una situación extraordinaria y espectacular de refugiados venezolanos.
Pese a lo anterior, y habida cuenta de la intención de propaganda contra el gobierno de Nicolás Maduro Moros, con la que se le ha puesto atención al tema, vimos cómo el 6 de septiembre un derrotado Secretario General de la OEA anunciaba su intención de acudir a la frontera colombiana para demostrar que la situación que él denuncia existe.
Este es un último tema importante, porque cuando vemos grandes flujos migratorios como el mexicano y de los demás países de Centroamérica hacia Estados Unidos, las causas no tienen nombres sino que se agotan en la violencia o en la pobreza.
Solo dos casos son distintos: las poblaciones que han salido de Venezuela y de Nicaragua. No creamos que esto es una simple coincidencia.