di G. Colotti ww.farodiroma.it
Lawfare, un termine che sta entrando con frequenza nel dibattito internazionale sull’America Latina. Serve a indicare l’uso indebito di strumenti giuridici a fini politici, a fini destituenti.
Per Lawfare s’intende un insieme di azioni apparentemente legittime e legali, amplificate dai grandi media con l’aiuto di esperti che usano un linguaggio giuridico per screditare personaggi politici contrari agli interessi dominanti.
L’avversario deve perdere appoggio, e per questo la condanna viene anticipata da giornali e televisioni, che preparano quella dei tribunali: tribunali opportunamente diretti da giudici vincolati agli interessi di cui sopra. I processi si basano sulle dichiarazioni dei pentiti, sollecitate da apposite leggi “premiali” che favoriscono la delazione in cambio di vantaggi concreti.
Lawfare, ovvero giudiziarizzazione della politica: una gigantesca “strategia di distrazione di massa” che serve a distogliere i settori popolari dai loro veri interessi e dai loro veri nemici. Serve a costruire un racconto in cui, se tutti rubano, meglio mettere al comando chi è pieno di soldi, che per questo non avrebbe bisogno di rubare… E se “la politica è corrotta”, meglio affidarsi ai magistrati. Ma chi controlla i controllori?
Il Lawfare è una tendenza globale che, attraverso l’uso politico della magistratura mira a imporre nuove regole, un nuovo patto escludente contro i settori popolari. Magistratura e media egemonici preparano la gigantesca guerra contro i poveri per regolare la nuova divisione internazionale del lavoro. Sono gli artigli del condor per questo terzo millennio.
L’America Latina appare ora il nuovo campo di battaglia, ma è in Italia che ha preso forma la sperimentazione, nel corso di varie fasi in cui la magistratura ha avuto un ruolo di supplenza nei confronti dello Stato e della politica. Un laboratorio che viene da lontano, che si ripropone e si perfeziona da una “emergenza” all’altra: da quella “antimafia” all’operazione Mani Pulite, che non a caso viene richiamata a proposito di Lava Jato in Brasile, all’”emergenza migranti”.
All’origine di tutte, l’”emergenza” contro il tentativo rivoluzionario degli anni ’70, nato dal ciclo di lotta operaia e studentesca che ha messo in crisi gli assetti dominanti e fatto saltare le compatibilità con quel sistema di potere. L’uso della magistratura a fini politici ha forzato allora gli ambiti costituzionali per introdurre nuove figure da esaltare (i traditori dei propri compagni o degli ideali – i dissociati -) o da demonizzare (i rivoluzionari), nemici da rinchiudere e da annichilire anche con strumenti di tortura che il sistema politico si è premurato di approvare mediante apposite “leggi speciali”.
Una stortura neo-autoritaria avallata anche da una sinistra sempre più inginocchiata ai piedi del grande capitale. La logica dell’emergenza, che giustifica il ricompattarsi delle forze di sistema intorno all’”unità nazionale” e l’avvio di meccanismi di controllo rivolti in ultima istanza a prevenire il conflitto sociale, implica la costruzione di un “nemico interno” o di una minaccia che incomba dall’esterno. Oppure, come avviene adesso in gran parte dell’America Latina, l’emergenza si rappresenta nei termini di un gigantesco sistema di corruzione, che la magistratura deve incaricarsi di sgominare.
Sono moderne operazioni di trasformismo mediante le quali le classi dominanti cercano di riassestare il proprio potere, scegliendo il cavallo più adatto a vincere di nuovo. Come ha fatto notare opportunamente l’analista spagnolo Juan Carlos Monedero, gli Stati Uniti mettono nella formazione dei magistrati “ad hoc” la stessa cura che mettevano nel secolo scorso nell’addestramento dei gorilla torturatori della Escuela de las Americas.
Un’operazione su larga scala. Lo vediamo contro Lula in Brasile, contro Correa in Ecuador o contro Cristina Kirchner in Argentina. L’arresto in Brasile di Assad Ahmad Barakat, indicato da Washington come il tesoriere del partito libanese Hezbollah (considerato “terrorista” dagli Usa), riporta ora in primo piano un altro possibile processo contro Cristina: quello per la morte del giudice Alberto Nisman, che indagava sull’attentato alla mutua ebraica Amia (1994) per cui Israele accusa appunto Hezbollah.
Laddove la forza del potere popolare organizzato impedisce di scatenare il Lawfare dall’interno, si utilizzano gli organismi internazionali al soldo di Washington o si inventano tribunali fittizi all’estero. Il caso più eclatante è costituito dal Venezuela.
Contro il governo bolivariano e il suo presidente, è in corso un’offensiva internazionale che vede al centro l’OSA diretta da Luis Almagro, i paesi neoliberisti del Gruppo di Lima, e un “Tribunal Supremo in esilio” (TSJ), tanto grottesco quanto pericoloso. Ma scagliano macigni anche i paesi capitalisti dell’Unione Europea in cui l’Italia ha un ruolo di primo piano.
Il cosiddetto TSJ in esilio ha già “condannato” Maduro a oltre 18 anni per corruzione legata ai processi contro la firma Odebrecht in Brasile. Ora vorrebbe costituire, dalla Colombia dov’è basato, un “governo di transizione”.
Intanto, i paesi del Gruppo di Lima – Argentina, Colombia, Paraguay, Cile e Perù – chiederanno alla Corte Penale Internazionale (CPI) l’inizio di un procedimento preliminare contro Maduro per “crimini di lesa umanità” commessi dal suo governo. Una richiesta accompagnata da un rapporto dell’Alto Commissariato per i Diritti umani dell’Onu (OACDH) circa la “repressione” contro l’opposizione, le cui azioni destabilizzanti non vengono certo sanzionate.
La denuncia dei 5 paesi latinoamericani crea un precedente giuridico inedito nei 16 anni di esistenza della CPI. L’iniziativa azionerebbe l’articolo 14 dello Statuto di Roma, fondativo dell’organismo, che permette agli Stati membri di denunciare crimini di lesa umanità perpetrati in paesi terzi.
Un gesto che suona anche come un avvertimento nei confronti di Daniel Ortega il quale, dopo oltre 10 anni di assenza, si recherà domani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per parlare della situazione in Nicaragua, scenario di un attacco simile a quello portato nel 2017 dalle destre contro il Venezuela.
Ortega ha denunciato le manovre Usa contro il suo paese e contro il continente, e ha respinto i tentativi di ingerenza di una missione ONU, inviata per “vigilare sulle violazioni dei diritti umani”. All’ONU andrà anche il presidente cubano Miguel Diaz Canel, il cui paese continua a restare sotto il tallone del feroce bloqueo nordamericano.
A fronte delle minacce esplicite ricevute, sia da Bogotà che da rappresentanti dell’amministrazione Usa, Maduro forse non sarà presente domani a New York. Di sicuro, però, sono previsti vari incontri e dibattiti sulla situazione venezuelana nei quali Trump e i paesi vassalli cercheranno di far passare le loro politiche di aggressione, usando la questione dei “profughi venezuelani”.
Lawfare ma anche provocazioni militari per “saggiare” la possibilità di un incidente alla frontiera colombo-venezuelano che potrebbe innescare un conflitto armato. Con questo scopo – ha denunciato la FANB -, aerei spia degli Stati uniti hanno violato lo spazio aereo del Venezuela, mentre militari colombiani hanno compiuto un’incursione nell’isola venezuelana di Mantequero facendo salire ulteriormente la tensione.