Dal Brasile, lo spettro di un nuovo Hitler spaventa il continente

di Geraldina Colotti

Lo spettro del nazifascismo aleggia sul Brasile e ha le sembianze di Jair Bolsonaro, candidato per il PSL alle elezioni di domenica 7 ottobre. L’ex capitano dell’esercito a cui non dispiace essere paragonato a Hitler, mentre considera un insulto sanguinoso essere chiamato gay, è favorito nei sondaggi: ha tratto profitto anche dalle pugnalate ricevute l’8 settembre, durante un incontro di campagna elettorale. Ha soprattutto tratto vantaggio dalla messa fuori gioco di Lula, arrestato ad aprile e poi definitivamente inabilitato alla competizione elettorale. Al suo posto, il Partito dei Lavoratori (PT) ha candidato Fernando Haddad, subentrato troppo tardi per far fruttare al meglio il suo “pacchetto” di voti.


Dal carcere di Curutiba, dove sta scontando una condanna a 12 anni per corruzione, Lula ha inviato una lettera alla vigilia del voto, giorno del suo compleanno, chiedendo al popolo di eleggere Haddad. Se, come sembra probabile, né Bolsonaro né Haddad supereranno il 50%, si andrà al ballottaggio e la partita si definirà il 28 ottobre. L’elezione di Bolsonaro aprirebbe per il Brasile gli scenari più cupi, e rafforzerebbe il campo delle forze più conservatrici nel continente: quell’asse che sta picconando l’integrazione latinoamericana, e che agisce nell’orbita di Trump. La vittoria di Bolsonaro potrebbe avere il suo peso anche nelle elezioni di metà mandato che avranno luogo il 6 novembre negli Usa, e che rappresentano un test cruciale per il futuro politico del tycoon nordamericano.

Una vittoria di Haddad, invece, darebbe nuovo impulso al vento progressista annunciato dalla vittoria di Lopez Obrador, il quale assumerà l’incarico di presidente del Messico a dicembre.

Né Obrador né Haddad hanno spezzato lance a favore del socialismo bolivariano, la loro posizione non interventista allenterebbe però la morsa sul governo Maduro, ora minacciato anche dalle manovre militari in Amazzonia a cui partecipano gli Stati Uniti.

Un tema non di poco conto, che rimanda a una questione di sostanza: la possibilità che il socialismo, per quanto in forma diversa da quella dispiegata nel secolo delle rivoluzioni, torni a essere un’alternativa credibile e non contingente al capitalismo globalizzato.

Fino alla caduta del muro di Berlino, si dava per scontato che esistessero due alternative contrapposte, due possibilità diverse a cui l’umanità poteva affidare il proprio destino. Si sapeva che, per farsi strada, il mondo nuovo avrebbe dovuto sconfiggere quello vecchio, basato sullo sfruttamento del lavoro da parte del capitale e sulla società divisa in classi. Si sapeva che la partita sarebbe stata epocale e che i guardiani del capitalismo non avrebbero fatto sconti, né prigionieri. E così è stato.

Dalla caduta dell’Unione Sovietica, con il dilagare del neoliberismo e l’imposizione del capitalismo a livello mondiale si è instillata nei settori popolari una litania, tanto falsa quanto soffocante: “Non ci sono alternative”. Non ci sono alternative a un sistema predatore che consente a 264 famiglie di appropriarsi della ricchezza di 3 miliardi di persone. Non ci sono alternative alle ricette di un capitalismo che cerca di risolvere la crisi strutturale in cui si dibatte con l’aggressione ai popoli del sud, per appropriarsi delle loro ricchezze. In questo quadro, quello che una volta era il campo progressista moderato si è progressivamente allineato nella ricerca del “male minore”, finendo per coincidere con gli obiettivi del campo avverso, o per diventarne funzionale. Se “non ci sono alternative”, chiunque vada a governare dovrà restare nel campo di varianti compatibili a quel sistema-mondo che, mentre aumenta a dismisura le disuguaglianze, riduce a poca cosa le differenze politiche e le alternative rispetto al futuro dell’umanità.

Quest’assenza di prospettive provoca disorientamento nei settori popolari, che seguono false bandiere, idee irrazionali e vecchie, spacciate per nuove: lo abbiamo visto con Trump negli Usa, lo vediamo in Italia con Salvini, e adesso con Bolsonaro in Brasile. Vecchia paccottiglia xenofoba e misogina che canalizza malamente la rabbia dei settori popolari che il lungo balletto delle “compatibilità” con il sistema ha lasciato vagare come un boomerang.

E che il Venezuela socialista sia diventato sempre più lo spauracchio da agitare ai quattro venti, non è per nulla casuale. In Italia, se ne riempiono la bocca, come un esempio negativo, sia i seguaci di Berlusconi (centro-destra) che i Renzi, le cui politiche nefaste a favore delle banche e del gran capitale hanno spianato la strada alla xenofobia dei Salvini.

Tutti, per esempio, fanno a gara nel presentare il Venezuela come uno “stato fallito” da cui le imprese scappano.

Ma intanto, la rivista Forbes dice che il paese bolivariano si situa al 144° posto (su 153 paesi monitorati) come luogo favorito da chi fa affari. Tanto che, come conferma l’esperto di Ecoanalisis alla BBC, esiste un fenomeno di “cannibalizzazione del lavoro” da parte di grandi imprese straniere: che fanno a gara per “rubare” i tecnici qualificati alle imprese locali, pagandoli una miseria in dollari, che poi diventeranno un capitale se verranno scambiati al mercato nero.

Nessuno, però, rileva che quei tecnici così ambiti sono diventati tali grazie al formidabile piano di investimento del governo bolivariano a favore dell’istruzione pubblica che, nei paesi capitalisti, sarebbe stato considerato uno dei primi costi da tagliare. Le stesse politiche di “cannibalizzazione del lavoro” sono state messe in atto contro Cuba, a cui si è cercato di sottrarre il personale qualificato, attraendolo fuori dal paese con il miraggio di soldi in cambio di ideali.

Con il Venezuela che non ha messo fuori legge la borghesia parassitaria, si può agire nei due sensi: dall’interno esasperando la guerra economica, cannibalizzando il lavoro e lasciando che le mafie di confine agiscano per conto terzi, com’è accaduto nel recente massacro compiuto nel Zulia e rivendicato sfrontatamente su instagram dalla banda de Los Melean; e dall’esterno moltiplicando le azioni di killeraggio economico, finanziario e mediatico con la complicità delle grandi istituzioni internazionali.

Quel che si cerca di occultare è il fallimento conclamato delle ricette capitaliste, dagli Stati Uniti all’Europa, all’America latina.

I costi per contenere con la violenza i disastri provocati dalle politiche di esclusione sono enormemente più elevati di quelli per risolvere la causa delle storture. Ma se si è convinti che “non c’è alternativa”, si può sopportare che la giornata di lavoro continui ad aumentare insieme all’età per andare in pensione; che i salari stagnino mentre diminuiscono le coperture sociali; che enormi masse rimangano senza lavoro; e che una moltitudine di “scarti” sia obbligata a vagare per mendicare un posto nel mercato globale, diventando cibo per i pesci o carne da tortura.

Si può sopportare che, come ha scritto il New York Times, Donald Trump metta in galera 13.000 bambini migranti e ne trasferisca 1600 in una prigione a cielo aperto del Texas. Chi ulula, in Europa, contro il business dell’aiuto umanitario (che certamente serve al controllo sociale degli esclusi), non tuona però contro il business della sicurezza, che si espande a guardia del capitalismo a livello globale.

Il fallimento di Macri in Argentina è altrettanto evidente: la tanto decantata “crescita” modello FMI non c’è stata, e questo ha reso evidente la trappola in cui si sono fatti attrarre quei settori di classe media, pronti a togliere il consenso ai governi progressisti se vedono balenare il miraggio di guadagni maggiori.

A differenza di quanto accade in Italia o in Europa, dove la forza dell’ideologia dominante dissemina di trappole semantiche il terreno per mascherare la crisi, a differenza di quanto accade negli Usa, dove i meccanismi lobbistici non consentono ai settori popolari l’accesso alle leve del potere, in America latina le cose sono più chiare.

Laddove, come in Venezuela, si è costruito un partito che ha organizzato le masse popolari e ne ha fatto crescere il livello di coscienza mantenendole in permanente mobilitazione, le forze reazionarie non sono riuscite a passare. Laddove, invece, come in Brasile, si è fatto più affidamento sulle traballanti alleanze parlamentari, che sull’organizzazione politica delle masse popolari, il disorientamento si è fatto sentire. Ma il seme gettato da Cuba, dal Venezuela, dalla Bolivia e anche dai governi progressisti che hanno cambiato il volto del Brasile e dell’Argentina, continua a germogliare. Il Nicaragua resiste e fa ancora esperienza. Il Salvador prova a tenere alta la bandiera. In Costarica, Honduras, Guatemala, i popoli hanno capito l’antifona: bisogna cercare un’alternativa opposta al capitalismo.

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