“Bisogna essere obiettivi”, proclamano alcuni, nel tentativo di ammainare le vele dei nostri sogni, forse per innalzare quelle dei loro privilegi. E questa sarebbe la peggiore profanazione contro Che Guevara, dopo tanti anni dal suo vigliacco assassinio e dall’arrivo dei suoi resti e di quelli dei suoi compagni a Santa Clara.
Benché il momento ci persuade ad avere sufficiente senso pratico —quasi si potrebbe dire che perfino una certa dose di pragmatismo—non smette di spaventarci la intemperanza di un certo materialismo pedestre od oggettivismo sfrenato; come se riassestasse tra noi un’altra derivazione del realismo socialista, che si nasconde nelle carenze e nelle difficoltà materiali.
E nella delicata frontiera tra l’obiettività ed i sogni, forse stiamo decidendo “l’essere rivoluzionario”. Perché, arrivati a questo punto, è possibile presagire che una rivoluzione muore quando il romanticismo l’abbandona: “Siamo realistici, sogniamo l’impossibile”.
Cuba non avrebbe avuto un 1 Gennaio se Fidel e la Generazione “Martiana” che l’assecondò non avessero saltato il marxismo dei manuali e della mediocrità che sconsigliava la Rivoluzione. E neanche avrebbe potuto sopravvivere, se si avesse lasciato che la svogliatezza dominasse dopo la caduta dei modelli socialisti sovietico ed europeo, una situazione che si può superare solo con l’idealismo “martiano”: L’impossibile è possibile. Noi matti, siamo saggi.
Gli ideologi di “adesso non si può” e “bisogna aspettare il momento” non avrebbe preso mai il Palazzo di Inverno, né la Bastiglia; né si sarebbero lanciati al galoppo contro le pallottole a Dos Rios, e c’avrebbero lasciato per sempre senza apostoli…
La volontà e l’energia trasformatrici non devono essere accerchiate tra preconcezioni e dogmi, perché è certo che una semplice scintilla in fondo ad un’anima appassionata può provocare fuochi distruttori, quando interpreta ansie schiacciate o addormentate.
Per ciò, come ho detto anni fa in questo quotidiano, benché qualcuno possa accusarmi di essere eretico, sento che le tragiche morti di Cristo e del Che segnalano una stessa profezia. Questi due esseri sono uniti da uno stesso alone romantico.
Entrambi c’allertano, dai loro altari redentori, sull’impossibilità del paradiso della giustizia e dell’equità umane se l’uomo trasforma lo scetticismo in religione, e se non scatena i suoi sogni fino ad altezze celestiali.
I loro finali, secondo me, sono identici nel calvario ed impressionanti per la loro trascendenza, nonostante avrei voluto interrompere le ultime scene e trasformare i loro destini.
Perfino i volti di queste icone mi si confondono, a volte. Chi è il Che, chi è Cristo. Sono arrivato a credere che la casualità provvidenziale volle che nell’aspetto del Guerrigliero si materializzasse l’immagine tanto discussa di Gesù: se qualcuno dubitasse che il Nazareno abbia avuto un corpo, può vederlo ne La Higuera.
Credo che il mondo non ha conosciuto degli altri idoli superiori alla loro portata, né con tale disposizione al martirio con uno scopo identico: la salvezza umana. Benché uno faccia appello alla purificazione del peccato e l’altro alla creazione di un Uomo Nuovo.
Per caso non è romantico assumere che si può salvare l’uomo dalla morte, purificandolo con la propria sulla croce? O concedere la propria vita “nell’avventura” di liberarlo dalla croce dell’ingiustizia?
Del miracoloso potere di questi atti sono la dimostrazione alcuni fatti rivelatori, in una Bolivia governata, adesso, dalle idee “guevariane”.
Evo Morales ha assaporato la divinità di questi prodigi. Così lo riferiva in giugno del 2008, a proposito della presentazione di un libro che riassume una visita storica di Fidel nel cuore dell’America Latina, e che è stato presentato nel Palazzo delle Convenzioni de L’Avana.
Il viaggio del leader cubano riassunto nel testo è stato il centro di avvenimenti sommamente simbolici. Di quelli che, osservati romanticamente, quasi si possono considerare straordinari: 26 anni dopo la morte del Che, il popolo boliviano ha accolto Fidel come il suo eroe; e 13 anni più tardi il leader sindacale indigeno che ha continuato la visita, ansioso, nella distanza, si è trasformato nel primo presidente boliviano della sua etnia. Tre anni più tardi scriveva a Fidel per ricordargli gli incredibili cambi che le passioni e le interezze regalano alla storia.
Ma questo può succedere solo se, con le determinazioni e con i sogni, vinciamo l’inerzia e la negligenza; se non abbandoniamo i nostri eroi nel calvario, mentre Cuba o l’umanità aspettano il loro romantico miracolo.
di Ricardo Ronquillo Bello da Juventud Rebelde
traduzione di Ida Garberi