Ronald Suárez Rivas http://www.granma.cu
Carlos Manuel de Céspedes, «il padre della Patria»
Si dice che davanti alla domanda di alcuni patrioti, su come ottenere le armi per la lotta, Carlos Manuel de Céspedes rispose fulminante “le armi le hanno loro”, cioè, i soldati spagnoli, in un appello a strapparle al nemico.
Ed in effetti, quella sarebbe stata la strategia che le forze cubane avrebbero ripetutamente assunto nella lotta che stava per iniziare, e in quelle che sarebbero giunte posteriormente.
Il Comandante in Capo Fidel Castro, nella commemorazione del centenario del 10 Ottobre, ha sottolineato che quell’ “eroica guerra” si era iniziata “senza risorse di alcun tipo da parte di un popolo praticamente disarmato, che da allora ha adottato la classica strategia ed il classico metodo di rifornirsi di armi, che erano strappate al nemico”.
Nel 1868, tra tutti i cospiratori, Céspedes era il più deciso ad insorgere contro il potere spagnolo. Mentre altri propugnavano di aspettare un nuovo raccolto di zucchero, è riuscito a far prevalere il criterio che aspettare più a lungo avrebbe messo in pericolo la rivoluzione e durante le prime ore del 10 ottobre, nello zuccherificio La Demajagua, ha riunito i suoi schiavi, li ha dichiarati uomini liberi e li ha chiamati a lottare per l’indipendenza di Cuba.
A questo trascendentale episodio sarebbero seguiti il Grito de Yara, la presa di Bayamo e l’insediamento lì della prima capitale della Repubblica in Armi.
Dopo il sollevamento di Camagüey e Las Villas, è stato eletto Presidente, nell’Assemblea di Guaimaro.
In un momento in cui non pochi patrioti cercavano il sostegno USA, o erano inclini all’annessione, ha saputo avvertire delle intenzioni del nascente impero. “… Per quanto riguarda gli USA forse è sbagliato, ma a mio parere il suo governo aspira ad impossessarsi di Cuba senza complicazioni pericolose per la sua nazione e, nel frattempo, che non esca dal dominio della Spagna…”, ha scritto in una lettera a José Manuel Mestre, nel luglio 1870.
Il 27 ottobre 1873, in seguito a profonde contraddizioni con la Camera dei Rappresentanti, Cespedes fu deposto dai suoi incarichi.
Come la maggior parte dei proprietari terrieri che guidarono la guerra, morì in assoluta povertà il 27 febbraio 1874.
Per l’indipendenza di Cuba, più di 20 membri della sua famiglia hanno dato la vita. Tra questi, suo figlio Amado Oscar.
Il giovane era stato catturato dagli spagnoli e condannato a morte dopo un frettoloso Consiglio di Guerra.
Il Capitano Generale dell’isola, tuttavia, inviò una lettera a Carlos Manuel, incitandolo ad abbandonare il paese, in cambio della vita del figlio, che era già stato giustiziato.
Nonostante il dolore, la risposta del capo mambí fu ferma: “Difficile pensare che un militare degno e onorevole, come sua Eccellenza, possa permettere simile vendetta se non obbedisce alla sua volontà; ma se lo facesse, Oscar non è il mio unico figlio, lo sono tutti i cubani che muoiono per le nostre libertà patrie”.
Ignacio Agramonte, «il Maggiore»
L’11 maggio 1973, durante la cerimonia per il centenario della sua morte in combattimento, il Comandante in Capo Fidel Castro ha ricordato che il consolidamento della sollevazione armata a Camagüey, è stato un indiscutibile merito di Ignacio Agramonte.
Senza questo, “probabilmente la sollevazione di Las Villas non avrebbe potuto aver luogo, ed in tutta sicurezza la Spagna, concentrando le sue forze, avrebbe potuto schiacciare, in un tempo relativamente breve i patrioti orientali”, ha segnalato Fidel.
Così importante sarebbe stata la figura del Mayor (maggiore) -come, con rispetto, i suoi soldati lo chiamavano- per una guerra che sarebbe durata dieci anni.
Nacque a Port-au-Prince, il 23 dicembre 1841, nel seno di un’illustre e ricca famiglia creola, e studiò giurisprudenza all’Università dell’Avana.
Fu uno dei fondatori della giunta rivoluzionaria di Camagüey e partecipò al lavoro cospiratorio che portò alla sollevazione dei patrioti di quel territorio il 4 novembre 1868.
Agramonte ebbe un ruolo decisivo di fronte alle tendenze annessioniste che possedevano una grande forza nella sua regione. «Terminino, una volta pere tutte, le lobby, le turpi dilazioni, le richieste che umiliano: Cuba non ha altro cammino che conquistare la sua redenzione strappandola alla Spagna con la forza delle armi” avrebbe energicamente espresso il 26 novembre 1868 nel corso della riunione del Paradero de Minas.
Una volta, in mezzo a carenze di tutti i tipi imposte dalla guerra, gli fu chiesto su che cosa contava per continuare a combattere, e risposte con forza: “Con la vergogna dei cubani”
Al comando delle forze camagüeiane, eccelse nelle sue capacità organizzative. Sebbene non avesse formazione militare, seppe disciplinare ed addestrare le truppe sotto il suo comando, e contagiarle con il suo spirito ed il suo esempio.
Martí lo avrebbe definito come “quello che, senza altra scienza militare che il genio, organizza la cavalleria, rifà il Camagüey disfatto, mantiene nei boschi laboratori di guerra, combina e dirige attacchi vittoriosi, e usa la sua popolarità per servire, con esso, il prestigio della legge ».
Nei tre anni e mezzo che ha partecipato alla guerra, intervenne in oltre cento combattimenti.
Il più straordinario di tutti avrebbe avuto luogo per il riscatto del generale Julio Sanguily, l’8 ottobre 1871.
La caduta di Agramonte sarebbe stato un duro colpo per l’azione indipendentista, ma il suo esempio e la sua eredità sarebbe rimasta vigente tra i cubani, insieme con quelle immortali parole: “Che il nostro grido sia, per sempre, indipendenza o morte”.
Antonio Maceo, «il titano di bronzo»
Ad Antonio Maceo si stimano oltre 600 azioni combattive, di cui 200 di grande significato. Tuttavia, il fatto che più esalta la sua figura non ha avuto luogo sul campo di battaglia.
Era l’anno 1878 e mentre lui ed i suoi uomini ottenevano una clamorosa vittoria clamorosa contro il famoso battaglione di San Quintín nel combattimento del Camino de San Ulpiano, si firmava il patto di Zanjón.
Né Maceo né le sue truppe erano stati consultati per l’adozione di quell’accordo di pace senza indipendenza. Pertanto, dopo aver ascoltato la notizia, riunì i suoi ufficiali, ascoltò i loro giudizi, e decise di esprimere, formalmente, il suo disaccordo di fronte alle stesse autorità spagnole che era stato sottoscritto il Patto di Zanjón.
Poi si rende protagonista di ciò, che secondo Martí, sarebbe uno degli eventi più gloriosi della nostra storia: la protesta di Baraguá.
Con essa, Fidel avrebbe detto “giunse al suo apice, lo spirito patriottico e rivoluzionario del nostro popolo”, e aggiungeva che “senza Baraguá, Yara non sarebbe stata”.
Poi venne la feconda tregua e la lotta del ’95, in cui il Titano di Bronzo, insieme a Gomez, avrebbe condotto quella che sarebbe stata considerata l’azione militare più audace del secolo.
Nuove cicatrici sul suo corpo avrebbero attestato il coraggio del leggendario mambi, mentre si sarebbe consolidato come una delle figure più importanti della Rivoluzione.
Era un uomo d’armi, ma anche di idee. “Bisogna far attenzione a ciò che dice, perché Maceo ha, nella mente, la stessa forza che ha nel braccio”, avrebbe segnalato Martí.
Quella sua lettera, piena di lucidità, al Colonnello mambí Federico Pérez dal campo di El Roble, a Pinar del Río, lo dimostra eloquentemente: “Dalla Spagna giammai ho aspettato nulla; ci ha sempre disprezzato e sarebbe indegno che si pensasse ad altra cosa”, Maceo avverte il suo interlocutore.
“Neppure mi aspetto nulla dagli americani; tutti dobbiamo affidarci al nostro sforzo: meglio è vincere o cadere senza il loro aiuto, piuttosto che contrarre debiti di gratitudine con un vicino così potente”.
Come Marti, non pensava unicamente alla libertà di Cuba. Perciò assicurava che, una volta ottenuta l’indipendenza dell’isola, avrebbe chiesto permesso al governo per lottare per l’indipendenza di Portorico. “Non mi piacerebbe consegnare la spada, lasciando schiava quella porzione dell’America schiava”, affermava il Titano.
Massimo Gómez, “il Generalissimo”
Il 4 novembre 1868 non è una data molto menzionata nella storia di Cuba. Tuttavia, gli eventi di quel giorno avrebbero lasciato un segno profondo nelle nostre guerre di indipendenza.
Intorno a mezzogiorno, nel sito chiamato Tienda del Pino una truppa mambisa di circa 40 uomini, comandata dal domenicano Maximo Gomez, era protagonista della prima carica al machete di quelle gesta.
Più di 200 vittime nemiche si calcola che lasciò come saldo l’azione, ma il suo merito principale fu quello di confermare l’efficacia del machete come arma da combattimento.
Gómez, che era un militare e sapeva del suo uso per scopi bellici in terra dominicana, faceva, in tal modo, un contributo, di valore incalcolabile, alla causa mambisa. Da quel momento in poi, combinato con la cavalleria, il machete avrebbero causato grandi danni nelle file nemiche.
Data la scarsità di armi e munizioni, una costante durante le azioni indipendentiste, sarebbe stata l’arma che avrebbe simboleggiato la ribellione e il coraggio dei cubani.
Il “Generalissimo” avrebbe fatta sua la causa per la libertà dell’Isola.
Nella guerra del ’68, grazie alla sua astuzia ed al suo talento come stratega militare, avrebbe terminato per essere uno dei principali capi dell’Esercito di Liberazione, ed in quella del 95, sarebbe il Comandante in Capo del Comando Mambí.
Insieme a Maceo, fu uno degli artefici dell’Invasione. Si rese protagonista di trascendentali battaglie e ripudiò, nel più profondo, la situazione che soffriva il popolo cubano sotto il colonialismo spagnolo.
“Quando ho raggiunto il fondo, quando ho messo la mia mano sul cuore dolorante del popolo lavoratore e si lo ho sentito ferito e triste (…) mi sono sentito indignato e profondamente predisposto contro le classi superiori del paese …”, avrebbe scritto in una lettera al colonnello Andrés Moreno.
Non reclamò mai alcun vantaggio, né pose condizioni per combattere per Cuba libera.
Quando Martí lo convocò a far parte del Guerra Necessaria, lo fece nel modo più sincero ed umile: “Io offro a voi (…) questa nuova opera, ora che non ho altra remunerazione da offrirle che il piacere del suo sacrificio e la probabile ingratitudine degli uomini…».
“Da ora lei può contare sui miei servizi” gli rispose, Máximo Gómez, senza esitazione.
Mariana Grajales, «Madre della Patria»
Nel 1868, quando s’iniziò la guerra per l’indipendenza, due dei figli di Mariana Grajales erano già morti. Gli altri 12 sarebbero andati a combattere per la libertà di Cuba in quella lotta. Gli uomini, il campo di battaglia, le donne, in retroguardia, prendendosi cura dei bambini e curando i feriti.
Raccontano che prima che la famiglia completa partisse per la manigua (terreno paludoso ndt), Mariana prese un crocifisso dalla sua stanza e ordinò a tutti d’inginocchiarsi e giurare davanti l’immagine di Cristo che avrebbero liberato la Patria o sarebbero morti per essa.
Pochi mesi dopo, Marcos, suo marito, sarebbe stato il primo a cadere. Poi o avrebbero seguito, in quella stessa guerra di dieci anni, quattro dei suoi figli.
Nonostante il dolore, Mariana avrebbe continuato ad aiutare a salvare vite in improvvisati ospedali del sangue e facendo tutto ciò che era in suo potere per la causa.
Martí avrebbe sottolineato che “lei stette in piedi, per l’intera guerra”. “E se qualcuno tremava, quando si avvicinava al nemico del suo paese, vedeva la madre di Maceo con il suo fazzoletto in testa, e smetteva di tremare!” avrebbe aggiunto.
Gli storici concordano che la sua grandezza non risiede solo nell’aver “dato alla luce eroi”, ma nell’avergli saputo inculcare l’amore per la propria terra.
Dopo la fine della guerra parte per Kingston, Giamaica, dove la sua casa diventa un luogo di pellegrinaggio per i cubani.
In essa -avrebbe scritto Martí-, Mariana ‘raccontava, strappando le parole, gli anni di guerra ”e amava come i migliori della sua vita, i tempi di fame e di sete, in cui ogni uomo che arrivava alla sua porta di yaguas (foglia di palma ndt) poteva portargli la notizia della morte di uno dei suoi figli”.
Eusebio Leal dice che l’Apostolo la visitò due volte. Di quegli incontri -segnala Leal- avrebbe confessato che “fu impressionato dal carattere, la gentilezza, il brillio ardente degli occhi e come al raccontarle cose di Cuba si alzava dalla sedia e vagava per la casa ricordando i giorni di gloria, forse circondata dal ricordo di tutto ciò che, in quella lotta, aveva perso e per il fervido desiderio che si tornasse, ancora una volta, a lottare e combattere”.
José Martí, «l’apostolo»
Nel settembre 1953, durante il processo per gli eventi del 26 Luglio, il giovane Fidel Castro chiarì che nessuno dei politici dell’epoca aveva nulla a che fare con l’azione.
“Nessuno deve preoccuparsi che lo accusino di essere l’autore intellettuale della Rivoluzione, perché l’unico autore intellettuale (…) è José Martí”.
Era l’anno del centenario dell’Apostolo e le sue idee erano ancora valide. Il sogno di una Cuba libera, per la quale lavorò instancabilmente fino alla sua caduta a Dos Ríos, continuava ad ispirare i cubani per bene.
Martí era stato il legame tra gli uomini del ’68 e quella lotta che, nuovamente, li reclamava. Con il suo genio senza pari, sapeva come unire le volontà e convincere, coloro che erano già sopravvissuti agli orrori di una guerra, a impugnare, di nuovo, le armi e marciare alla manigua (terreno pantanoso ndt).
Per questo creò un giornale e fondò un partito, raccolse fondi, pronunciò discorsi.
“Prima di cedere nell’impegno di rendere libera e prospera la patria si unirà il mare del Sud col Mare del Nord e nascerà un serpente da un uovo d’aquila”, avrebbe espresso in uno di essi.
Cuba è la sua più grande passione, ma non pensa solo a questa terra. Alla base del Partito Rivoluzionario Cubano, prospetta la necessità di promuovere la libertà di Portorico.
Poco prima di morire, in una lettera a Manuel Mercado che non riesce a concludere va oltre, chiarendo la sua vocazione latinoamericanista e avvertendo su un nemico ancora più potente che il potere spagnolo, “ora sono tutti i giorni in pericolo di dare la mia vita per il mio paese, e per il mio dovere (…) di impedire per tempo con l’indipendenza di Cuba che si estendano per le Antille gli USA e cadano, con più forza, sulle nostre terre d’America».
Pertanto, Martí non solo simboleggia la continuità di un progetto che era stato troncato a Zanjón. È anche un riferimento per le lotte che ne sarebbero conseguite successivamente.
Il Che lo avrebbe riconosciuto nel 1960, per l’anniversario 107 della nascita dell’Apostolo: “Martí fu il mentore diretto della nostra Rivoluzione, l’uomo alla cui parola bisognava sempre ricorrere per dare la corretta interpretazione dei fenomeni storici che stavamo vivendo, e l’uomo la cui parola ed il cui esempio bisognava ricordare ogni volta che si volesse dire o fare qualcosa di trascendente in questa Patria”.
Los que abrieron el camino
Ronald Suárez Rivas
Carlos Manuel de Céspedes, «el Padre de la Patria»
Cuentan que ante la pregunta de algunos patriotas, sobre cómo conseguir las armas para la lucha, Carlos Manuel de Céspedes respondió fulminante: «las armas las tienen ellos», o sea, los soldados españoles, en un llamado a arrancárselas al enemigo.
Y en efecto, esa sería la estrategia que asumirían una y otra vez las fuerzas cubanas en la contienda que estaba por comenzar, y en las que vendrían posteriormente.
El Comandante en Jefe Fidel Castro, en la conmemoración del centenario del 10 de Octubre, destacó que aquella «heroica guerra» se había iniciado «sin recursos de ninguna clase por un pueblo prácticamente desarmado, que desde entonces adoptó la clásica estrategia y el clásico método para abastecerse de armas, que era arrebatándoselas al enemigo».
En 1868, entre todos los conspiradores, Céspedes era el más decidido a levantarse contra el poder español. Mientras otros abogaban por esperar una nueva zafra, logró que prevaleciera el criterio de que aguardar más tiempo ponía en peligro la revolución, y durante la madrugada del 10 de octubre, en el ingenio La Demajagua, reunió a sus esclavos, los declaró hombres libres y los convocó a luchar por la independencia de Cuba.
A este trascendental episodio le seguirían el Grito de Yara, la toma de Bayamo y el establecimiento allí de la primera capital de la República en Armas.
Tras los levantamientos del Camagüey y de Las Villas, fue elegido como Presidente, en la Asamblea de Guáimaro.
En una época en que no pocos patriotas recababan el apoyo de Estados Unidos, o se inclinaran por la anexión, supo advertir las intenciones del naciente imperio. «…Por lo que respecta a los Estados Unidos tal vez esté equivocado, pero en mi concepto su gobierno a lo que aspira es a apoderarse de Cuba sin complicaciones peligrosas para su nación y entretanto que no salga del dominio de España…», escribiría en carta a José Manuel Mestre, en julio de 1870.
El 27 de octubre de 1873, como resultado de profundas contradicciones con la Cámara de Representantes, Céspedes fue depuesto de su cargo.
Al igual que la mayoría de los hacendados que lideraron la Guerra, murió en la más absoluta pobreza, el 27 de febrero de 1874.
Por la independencia de Cuba entregaron la vida más de 20 miembros de su familia. Entre ellos, su hijo Amado Oscar.
El joven había sido capturado por los españoles y condenado a muerte tras un precipitado Consejo de Guerra.
El Capitán General de la Isla, sin embargo, le envió una misiva a Carlos Manuel, incitándolo a abandonar el país, a cambio de la vida del hijo, que ya había ejecutado.
A pesar del dolor, la respuesta del jefe mambí sería firme: «Duro se me hace pensar que un militar digno y pundonoroso como vuestra Excelencia, pueda permitir semejante venganza si no acato su voluntad; pero si así lo hiciere, Oscar no es mi único hijo, lo son todos los cubanos que mueren por nuestras libertades patrias».
Ignacio Agramonte, «el Mayor»
El 11 de mayo de 1973, durante el acto por el centenario de su caída en combate, el Comandante en Jefe Fidel Castro recordaría que la consolidación del levantamiento armado en Camagüey, constituyó un mérito incuestionable de Ignacio Agramonte.
Sin esto, «posiblemente no se habría producido el alzamiento en Las Villas, y con toda seguridad España, concentrando sus fuerzas, habría podido aplastar en un tiempo relativamente corto a los patriotas orientales», señalaría Fidel.
Así de relevante sería la figura del Mayor –como le llamaban con respeto sus soldados–, para una guerra que duraría diez años.
Había nacido en Puerto Príncipe, el 23 de diciembre de 1841, en el seno de una familia criolla ilustre y rica, y estudiado Derecho en la Universidad de La Habana.
Fue uno de los fundadores de la junta revolucionaria de Camagüey, y participó en las labores conspirativas que condujeron al alzamiento de los patriotas de ese territorio, el 4 de noviembre de 1868.
Agramonte tuvo un papel decisivo ante las tendencias anexionistas que poseían gran fuerza en su región. «¡Acaben de una vez los cabildeos, las torpes dilaciones, las demandas que humillan: Cuba no tiene más camino que conquistar su redención arrancándosela a España por la fuerza de las armas!», expresaría enérgicamente el 26 de noviembre de 1868 en la reunión del Paradero de Minas.
Una vez, en medio de la escasez de todo tipo que imponía la guerra, le preguntaron con qué contaba para seguir luchando, y respondió de manera contundente: «Con la vergüenza de los cubanos».
Al mando de las fuerzas camagüeyanas, sobresalió por sus dotes de organizador. Aunque no tenía una formación militar, supo disciplinar y entrenar a las tropas bajo su mando, y contagiarlas con su espíritu y su ejemplo.
Martí lo definiría como «aquél que, sin más ciencia militar que el genio, organiza la caballería, rehace el Camagüey deshecho, mantiene en los bosques talleres de guerra, combina y dirige ataques victoriosos, y se vale de su renombre para servir con él al prestigio de la ley».
En los tres años y medio que participó en la guerra, intervino en más de cien combates.
El más extraordinario de todos tendría lugar para el rescate del General Julio Sanguily, el 8 de octubre de 1871.
La caída de Agramonte sería un duro golpe para la gesta independentista, pero su ejemplo y su legado se mantendrían vigentes entre los cubanos, junto a aquellas inmortales palabras: «Que nuestro grito sea para siempre independencia o muerte».
Antonio Maceo,«el Titán de bronce»
A Antonio Maceo se le calculan más de 600 acciones combativas, entre ellas, unas 200 de gran significado. Sin embargo, el hecho que más enaltece su figura no tuvo lugar en el campo de batalla.
Corría el año 1878, y mientras él y sus hombres obtenían una contundente victoria ante el famoso Batallón de San Quintín en el combate de Camino de San Ulpiano, se firmaba en Camagüey el Pacto del Zanjón.
Ni Maceo ni sus tropas habían sido consultadas para la adopción de aquel acuerdo de paz sin independencia. Por eso, tras conocer la noticia, reunió a sus oficiales, escuchó sus criterios, y decidió expresar de manera formal su desacuerdo frente a las mismas autoridades españolas que se había rubricado el Pacto del Zanjón.
Entonces protagoniza el que según Martí sería uno de los hechos más gloriosos de nuestra historia: la Protesta de Baraguá.
Con ella, diría Fidel, «llegó a su cumbre, el espíritu patriótico y revolucionario de nuestro pueblo», y agregaría que «sin Baraguá, Yara no habría sido Yara».
Luego sobrevendrían la tregua fecunda y la contienda del 95, en la que el Titán de Bronce, junto a Gómez, lideraría la que sería considerada como la acción militar más audaz de la centuria.
Nuevas cicatrices en su cuerpo darían fe del arrojo del legendario mambí, al tiempo que se consolidaría como una de las figuras más importantes de la Revolución.
Era un hombre de armas, pero también de ideas. «Hay que poner asunto a lo que dice, porque Maceo tiene en la mente tanta fuerza como en el brazo», señalaría Martí.
Aquella carta suya llena de lucidez, al Coronel mambí Federico Pérez desde el campamento de El Roble, en Pinar del Río, lo prueba de manera elocuente: «De España jamás esperé nada; siempre nos ha despreciado y sería indigno que se pensase en otra cosa», le advierte Maceo a su interlocutor.
«Tampoco espero nada de los americanos; todos debemos fiarlo a nuestro esfuerzo: mejor es subir o caer sin su ayuda, que contraer deudas de gratitud con un vecino tan poderoso».
Al igual que Martí, no pensaba únicamente en la libertad de Cuba. Por ello aseguró que cuando se obtuviera la independencia de la Isla, le pediría permiso al gobierno para luchar por la de Puerto Rico. «No me gustaría entregar la espada dejando esclava esa porción de América», afirmaría el Titán.
Máximo Gómez, «el Generalísimo»
El 4 de noviembre de 1868 no es una fecha muy mencionada en la historia de Cuba. Sin embargo, los acontecimientos de ese día dejarían una profunda huella en nuestras guerras de independencia.
Cerca del mediodía, en el sitio llamado Tienda del Pino, una tropa mambisa de unos 40 hombres, comandada por el dominicano Máximo Gómez, protagonizaba la primera carga al machete de aquellas gestas.
Más de 200 bajas enemigas se calcula que dejó como saldo la acción, mas su mérito principal fue confirmar la eficacia del machete como arma de combate.
Gómez, que era militar y conoció de su uso con fines bélicos en tierra dominicana, hacía de esa manera un aporte de un valor incalculable a la causa mambisa. A partir de entonces, combinado con la caballería, el machete causaría grandes estragos en las filas enemigas.
Ante la escasez de armas y municiones, una constante a lo largo de las gestas independentistas, sería el arma que simbolizaría la rebeldía y el arrojo de los cubanos.
El «Generalísimo» haría suya la causa por la libertad de la Isla.
En la guerra del 68, gracias a su astucia y su talento como estratega militar, terminaría siendo uno de los jefes principales del Ejército Libertador, y en la del 95, sería el General en Jefe del mando mambí.
Junto a Maceo, fue uno de los artífices de la Invasión. Protagonizó trascendentales batallas, y repudió en lo más hondo la situación que padecía el pueblo cubano bajo el colonialismo español.
«Cuando llegué al fondo, cuando puse mi mano en el corazón adolorido del pueblo trabajador y lo sentí herido de tristeza, (…) yo me sentí indignado y profundamente predispuesto en contra de las clases elevadas del país…», escribiría en carta al Coronel Andrés Moreno.
Jamás reclamó beneficio alguno, ni puso condiciones para pelear por Cuba libre.
Cuando Martí lo convocó a sumarse a la Guerra Necesaria, lo hizo del modo más sincero y humilde: «Yo ofrezco a usted (…) este nuevo trabajo, hoy que no tengo más remuneración que brindarle que el placer de su sacrificio y la ingratitud probable de los hombres…».
«Desde ahora puede usted contar con mis servicios», le respondió sin vacilar Máximo Gómez.
Mariana Grajales, «madre de la Patria»
En 1868, cuando se inició la guerra por la independencia, dos de los hijos de Mariana Grajales ya habían muerto. Los otros 12 saldrían a luchar por la libertad de Cuba en aquella contienda. Los hombres, al campo de batalla, las mujeres, a la retaguardia, cuidando de los niños y curando los heridos.
Cuentan que antes de que la familia completa se hiciera a la manigua, Mariana tomó un crucifijo de su cuarto y les ordenó a todos hincarse de rodillas y jurar ante la imagen de Cristo, que libertarían a la Patria o morirían por ella.
Pocos meses después, Marcos, su esposo, sería el primero en caer. Luego le seguirían, en aquella misma guerra de diez años, cuatro de sus hijos.
A pesar del dolor, Mariana permanecería ayudando a salvar vidas en improvisados hospitales de sangre y haciendo cuanto estaba a su alcance por la causa.
Martí destacaría que «estuvo ella de pie, en la guerra entera». «¡Y si alguno temblaba, cuando iba a venirle al frente el enemigo de su país, veía a la madre de Maceo con su pañuelo a la cabeza, y se le acababa el temblor!», añadiría.
Los historiadores coinciden en que su grandeza no radica únicamente en haber «parido héroes», sino en haberles sabido inculcar el amor por su tierra.
Tras el fin de la guerra parte hacia Kingston, Jamaica, donde su casa se convierte en un centro de peregrinación de los cubanos.
En ella –escribiría Martí–, Mariana «contaba, arrebatando las palabras, los años de la guerra», «y amaba como los mejores de su vida, los tiempos de hambre y sed, en que cada hombre que llegaba a su puerta de yaguas, podía traerle la noticia de la muerte de uno de sus hijos».
Eusebio Leal asegura que el Apóstol la visitó dos veces. De aquellos encuentros –señala Leal– confesaría que «se impresionó por el carácter, la bondad, el brillo refulgente de los ojos y cómo al contársele cosas de Cuba se levantaba del sillón y vagaba por el hogar recordando los días de gloria, quizá rodeada de la memoria de todo lo que en esa lucha había perdido y por el deseo fervoroso de que se volviera una vez más a luchar y a combatir».
Nunca más regresó a la Isla. Falleció en 1893, en Jamaica, acariciando el sueño de una patria libre por la que varios de sus hijos empuñarían las armas nuevamente. Tenía 78 años.
Tras conocer la noticia de su muerte, Martí publica una hermosa semblanza en el periódico que había fundado para organizar la Revolución. «Patria en la corona que deja en la tumba de Mariana Maceo, pone una palabra: –¡Madre!». Así termina el texto.
José Martí, «el Apóstol»
En septiembre de 1953, durante el juicio por los sucesos del 26 de Julio, el joven Fidel Castro dejó bien claro que ninguno de los políticos de la época había tenido que ver con la acción.
«Nadie debe preocuparse de que lo acusen de ser autor intelectual de la Revolución, porque el único autor intelectual (…) es José Martí».
Era el año del centenario del Apóstol y sus ideas seguían vigentes. El sueño de una Cuba libre, por el que trabajó de manera incansable hasta su caída en Dos Ríos, continuaba inspirando a los cubanos de bien.
Martí había sido el nexo entre los hombres del 68 y aquella contienda que los reclamaba nuevamente. Con su genio inigualable, supo unir voluntades y convencer a quienes ya habían sobrevivido los horrores de una guerra, de volver a empuñar las armas y marchar a la manigua.
Para esto creó un periódico y fundó un partido, recaudó fondos, pronunció discursos.
«Antes que cejar en el empeño de hacer libre y próspera a la patria, se unirá el mar del Sur al mar del Norte, y nacerá una serpiente de un huevo de águila», expresaría en uno de ellos.
Cuba es su pasión más grande, pero no piensa solo en esta tierra. En las bases del Partido Revolucionario Cubano, plantea la necesidad de fomentar la libertad de Puerto Rico.
Poco antes de morir, en carta a Manuel Mercado que no alcanza a concluir, va más allá, dejando clara su vocación latinoamericanista y alertando sobre un enemigo aún más poderoso que el poder español: «ya estoy todos los días en peligro de dar mi vida por mi país, y por mi deber (…) de impedir a tiempo con la independencia de Cuba que se extiendan por las Antillas los Estados Unidos y caigan, con esa fuerza más, sobre nuestras tierras de América».
Por ello, Martí no solo simboliza la continuidad de un proyecto que había quedado trunco en el Zanjón. También es referente para las luchas que sobrevendrían después.
El Che lo reconocería en 1960, en ocasión del aniversario 107 del natalicio del Apóstol: «Martí fue el mentor directo de nuestra Revolución, el hombre a cuya palabra había que recurrir siempre para dar la interpretación justa de los fenómenos históricos que estábamos viviendo, y el hombre cuya palabra y cuyo ejemplo había que recordar cada vez que se quisiera decir o hacer algo trascendente en esta Patria».