Lettera inviata dal Che a Carlos Quijano, editore del settimanale uruguaiano Marcha, e pubblicata il 12 marzo 1965
termino queste note mentre viaggio per l’Africa, animato dal desiderio di mantenere la mia promessa, sia pure con ritardo. Vorrei farlo affrontando il tema del titolo. Credo che possa essere interessante per i lettori uruguaiani.
Si ascolta spesso dalla bocca dei portavoce capitalistici, come argomento della lotta ideologica contro il socialismo, l’affermazione secondo cui questo sistema sociale, o il periodo di costruzione del socialismo nel quale siamo impegnati, sarebbe caratterizzato dalla negazione dell’individuo, sacrificato sull’altare dello Stato. Non cercherò di confutare questa affermazione su una base puramente teorica, ma di descrivere la realtà che oggi si vive a Cuba, aggiungendo qualche commento di carattere generale. In primo luogo, traccerò a grandi linee la storia della nostra lotta rivoluzionaria prima e dopo la presa del potere.
Come è noto, la data esatta in cui iniziarono le azioni rivoluzionarie, che dovevano culminare nel primo gennaio del 1959, fu il 26 luglio 1953. All’alba di quel giorno, un gruppo di uomini, guidati da Fidel Castro, attaccò la caserma Moncada nella provincia d’Oriente. L’azione fu un fallimento che si trasformò in disastro e i sopravvissuti finirono in carcere, per poi ricominciare, dopo essere stati amnistiati, la lotta rivoluzionaria.
Durante questa fase, nella quale esistevano soltanto dei germi di socialismo, l’uomo era il fattore fondamentale. Si faceva affidamento su di lui, come individuo, dotato di una sua specificità, con tanto di nome e cognome; e dalla sua capacità d’agire dipendeva il trionfo o il fallimento dell’azione intrapresa.
Venne poi la fase della lotta guerrigliera. Essa si sviluppò in due ambienti diversi: il popolo, massa ancora assopita che bisognava mobilitare, e la sua avanguardia, la guerriglia, motore propulsivo del movimento, generatore di coscienza rivoluzionaria e di entusiasmo combattivo. Questa avanguardia fu l’agente catalizzatore che creò le condizioni soggettive necessarie per la vittoria. Anche in questa fase, nel quadro del processo di proletarizzazione del nostro pensiero, della rivoluzione che si operava nelle nostre abitudini e nella nostra mente, l’individuo rimase il fattore fondamentale. Ognuno dei combattenti della Sierra Maestra, che abbia raggiunto un grado elevato tra le forze rivoluzionarie, ha al suo attivo una storia di fatti memorabili. E in base a questi conquistava i suoi gradi.
Fu questo il primo periodo eroico, in cui ci si batteva per ottenere incarichi di maggiore responsabilità e di maggior pericolo, senza altra soddisfazione che l’adempimento del proprio dovere.
Nel nostro lavoro di educazione rivoluzionaria, torniamo spesso su questo tema formativo. Nell’atteggiamento dei nostri combattenti già si delineava l’uomo del futuro.
In altri momenti della nostra storia si sono ripresentate le occasioni per un impegno totale nella causa rivoluzionaria. Durante la crisi di ottobre o nei giorni del ciclone «Flora» abbiamo visto atti di valore e di sacrificio eccezionali, compiuti da tutto un popolo. Trovare il modo di perpetuare nella vita quotidiana questo atteggiamento eroico è uno dei nostri compiti fondamentali dal punto di vista ideologico.
Nel gennaio 1959 si costituì il governo rivoluzionario con la partecipazione al suo interno di vari esponenti della borghesia filoimperialistica. La presenza dell’Esercito ribelle costituiva la garanzia per il mantenimento del potere, come fattore di forza fondamentale.
In seguito si produssero gravi contraddizioni, risolte in un primo momento nel febbraio 1959, quando Fidel Castro assunse la direzione del governo, con la carica di Primo ministro. Questo processo culminò nel luglio dello stesso anno, quando il presidente Urrutia si dimise sotto la pressione delle masse. Appariva così nella storia della rivoluzione cubana, ormai con caratteristiche nitide, un personaggio che si ripresenterà sistematicamente: le masse.
Questa entità multiforme non è, come si pensa, la somma di elementi di una medesima categoria (a ciò ridotti, tra l’altro, dal sistema imposto) che agisce come un gregge mansueto. E’ vero che segue senza esitare i propri dirigenti, in particolare Fidel Castro; ma il grado in cui questi si è guadagnato tale fiducia risponde precisamente al modo in cui egli interpreta i desideri del popolo, le sue aspirazioni, e alla lotta sincera per il mantenimento delle promesse fatte.
Le masse hanno partecipato alla Riforma agraria e al difficile compito dell’amministrazione delle imprese statali; sono passate attraverso l’esperienza eroica di Playa Girón, si sono forgiate nella lotta contro le varie bande armate dalla Cia; hanno vissuto uno dei momenti decisivi della storia moderna con la crisi di ottobre e oggi continuano a lavorare per la costruzione del socialismo.
Guardando ai fatti da un punto di vista superficiale, potrebbe sembrare che abbiano ragione coloro che parlano di sottomissione dell’individuo allo Stato; le masse realizzano, con entusiasmo e disciplina senza pari, i compiti che il governo affida loro, siano essi di tipo economico, culturale, sportivo o di difesa.
L’iniziativa, in genere, parte da Fidel Castro o dall’alto comando della rivoluzione e viene poi spiegata al popolo che la fa propria. Altre volte, le esperienze locali vengono riprese dal partito e dal governo per generalizzarle, seguendo lo stesso procedimento.
Lo Stato, tuttavia, a volte si sbaglia. Quando si verifica uno di questi errori, si nota un calo dell’entusiasmo collettivo, dovuto a una diminuzione di quello stesso entusiasmo in ciascuno degli individui che formano la massa; il lavoro si paralizza, fino a ridursi a livelli insignificanti: è il momento di rettificare. Così avvenne nel marzo del 1962, con la politica settaria imposta al partito da Anibal Escalante.
E’ ovvio che il meccanismo non è in grado di garantire una serie di misure adeguate e che occorre un legame più organico con le masse. Dobbiamo migliorare tale meccanismo nel corso dei prossimi anni; nel caso, comunque, di iniziative provenienti dai livelli elevati del governo, utilizziamo per ora il metodo quasi intuitivo di osservare le reazioni generali di fronte ai problemi sollevati. In ciò è maestro Fidel, il cui modo particolare di comunicazione col popolo si può apprezzare solo vedendolo direttamente. Nelle grandi manifestazioni pubbliche sembra di assistere quasi a un dialogo tra diapason, che pone in vibrazione reciproca gli interlocutori. Fidel e le masse cominciano a vibrare in un dialogo di intensità crescente fino a raggiungere l’apice in un finale improvviso, segnato dal nostro grido di lotta e di vittoria.
Ciò che è difficile comprendere, per chi non stia vivendo l’esperienza della rivoluzione, è questa stretta unità dialettica tra l’individuo e la massa, in cui entrambi interagiscono e la massa a sua volta, come insieme di individui, interagisce con i dirigenti.
Nel capitalismo si possono osservare fenomeni di questo tipo quando appaiono uomini politici capaci di spingere alla mobilitazione popolare; ma se non si tratta di un autentico movimento sociale nel qual caso non si può parlare pienamente di capitalismo esso durerà quanto la vita di chi lo ha messo in moto o fino al termine delle illusioni popolari imposto dalla rigidità della società capitalistica. All’interno di questa, l’uomo è guidato da un ordinamento impersonale che, in genere, sfugge alla sua comprensione. L’essere umano, alienato, ha un cordone ombelicale invisibile che lo lega alla società nel suo insieme: la legge del valore. Essa agisce in tutti gli aspetti della sua vita, modellandogli la strada e il destino.
Le leggi del capitalismo, cieche e invisibili per il senso comune della gente, agiscono sull’individuo senza che questi se ne accorga. Egli non vede altro che la vastità di un orizzonte che gli appare infinito. Così lo presenta la propaganda capitalistica che pretende di ricavare dal caso Rockefeller vero o falso che sia una lezione sulle possibilità di successo. La miseria che è necessario accumulare perché si realizzi un esempio del genere e la somma di iniquità che implica una fortuna di tali dimensioni non fanno parte del quadro, e non è sempre possibile per le forze popolari avere chiari simili concetti. (A questo punto sarebbe opportuna una disquisizione sul modo in cui gli operai dei paesi imperialisti vadano via via perdendo il proprio spirito internazionalistico di classe, sotto l’influenza di una certa complicità nello sfruttamento dei paesi dipendenti e come questo fatto attenui, contemporaneamente, lo spirito di lotta delle masse nel proprio paese; ma questo è un tema che esula dalle finalità di queste note.) ÀI massimo si mostra la strada con gli ostacoli che, apparentemente, un individuo dotato delle qualità necessarie potrebbe superare per giungere alla meta. Il premio si intravede in lontananza: il cammino è solitario. Si tratta, per giunta, di una corsa tra lupi: si può vincere solo grazie all’insuccesso degli altri.
Tenterò ora di definire l’individuo, attore di questo straordinario e appassionante dramma che è la costruzione del socialismo, nella sua duplice entità di singolo e membro della comunità. Credo che la cosa più semplice stia nel riconoscere la sua qualità di essere non-fatto, di prodotto non-termi-nato. Le tare del passato si trasmettono al presente nella coscienza individuale e c’è bisogno di un lavoro continuo per sradicarle. Il processo è duplice: da un lato è la società che agisce con l’educazione diretta e indiretta; dall’altro è l’individuo che si sottopone a un processo cosciente di autoeducazione.
La nuova società in formazione deve lottare molto duramente con il passato. Ciò si avverte non solo nella coscienza individuale, su cui pesano i residui di un’educazione orientata sistematicamente all’isolamento dell’individuo, ma anche per il carattere stesso di questo periodo di transizione, con il permanere di rapporti di mercato. La merce è la cellula economica della società capitalistica; finché esisterà, i suoi effetti si ripercuoteranno sull’organizzazione della produzione e conseguentemente sulla coscienza.
Nello schema di Marx, il periodo di transizione era concepito come il risultato della trasformazione esplosiva del sistema capitalistico soffocato dalle proprie contraddizioni; in seguito si è visto, nella realtà, che dall’albero imperialistico potevano staccarsi alcuni paesi che rappresentavano i rami deboli; un fenomeno previsto da Lenin. In essi il capitalismo si è sviluppato abbastanza da far sentire i propri effetti, in un modo o nell’altro, sul popolo; ma non sono le sue stesse contraddizioni che, esaurite tutte le possibilità, fanno saltare il sistema.
La lotta di liberazione contro un oppressore straniero, la miseria provocata da avvenimenti esterni come la guerra – le cui conseguenze vengono fatte ricadere dalle classi privilegiate sugli sfruttati – i movimenti di liberazione destinati a rovesciare i regimi neocoloniali: questi sono i fattori scatenanti più comuni. L’azione cosciente fa il resto.
In questi paesi non si è ancora prodotta un’educazione completa nei confronti del lavoro sociale e la ricchezza è lungi dall’essere alla portata delle masse attraverso un semplice processo di appropriazione. Il sottosviluppo, da un lato, e l’abituale fuga di capitali verso i paesi «civilizzati», dall’altro, rendono impossibile un cambiamento rapido e indolore. Resta un lungo tratto da percorrere per la costruzione della base economica e la tentazione di seguire le strade battute dell’interesse materiale, come leva propulsiva per uno sviluppo accelerato, è notevole.
Si corre il pericolo che gli alberi impediscano di vedere il bosco. Rincorrendo l’illusione di realizzare il socialismo con l’aiuto delle armi spuntate che ci lascia in eredità il capitalismo (la merce come cellula economica, il profitto, l’interesse materiale individuale come leva ecc.), si può imboccare un vicolo senza uscita. E vi si arriva dopo aver percorso un lungo tratto in cui le strade si incrociano più volte e dove è difficile capire il punto in cui si è sbagliato strada. Frattanto, la base economica adottata ha compiuto il suo lavoro di scavo sullo sviluppo della coscienza. Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base materiale, bisogna creare l’uomo nuovo.
Di qui la grande importanza di scegliere correttamente lo strumento per mobilitare le masse. Questo deve essere fondamentalmente di natura morale, pur senza trascurare un corretto utilizzo degli incentivi materiali, soprattutto di natura sociale.
Come ho già detto, nei momenti di grave pericolo è facile potenziare gli incentivi morali; per mantenere la loro efficacia è necessario sviluppare una coscienza in cui i valori acquistino nuove caratteristiche. La società nel suo insieme deve trasformarsi in una gigantesca scuola.
Le grandi linee di questo fenomeno sono simili al processo di formazione della coscienza capitalistica nella sua prima fase. Il capitalismo ricorre alla forza, ma educa anche la gente all’interno del sistema. La propaganda diretta viene realizzata da coloro che sono incaricati di spiegare l’ineluttabilità di un regime di classe, sia esso d’origine divina o imposto dalla natura come entità meccanica. Ciò placa le masse che si vedono oppresse da un male contro il quale non è possibile lottare. In seguito subentra la speranza e in questo si differenzia dai precedenti regimi di casta che non offrivano via d’uscita.
Per alcuni, tuttavia, continuerà a vigere la formula di casta: il premio a chi obbedisce consiste nell’arrivo dopo la morte in altri mondi meravigliosi dove i buoni vengono premiati, secondo quanto afferma la vecchia tradizione. Per altri, c’è la novità: la distinzione in classi è fatale, ma gli individui possono uscire da quella cui appartengono mediante il lavoro, l’iniziativa, ecc. Questo processo e quello di autoeducazione al successo devono essere profondamente ipocriti; sono la dimostrazione interessata del fatto che una menzogna è verità.
Nel nostro caso l’educazione diretta acquista un’importanza molto maggiore. La spiegazione è convincente perché è vera; non ha bisogno di sotterfugi. Si esercita attraverso l’apparato educativo dello Stato in funzione della cultura generale, tecnica e ideologica, attraverso organismi quali il Ministero dell’educazione e l’apparato di propaganda del partito. L’educazione penetra tra le masse e il nuovo atteggiamento proposto tende a trasformarsi in abitudine; le masse lo vanno facendo proprio ed esercitano una pressione su coloro che non si sono ancora educati. Questa è la forma indiretta di educazione delle masse, potente tanto quanto l’altra.
Il processo, tuttavia, è cosciente: l’individuo riceve continuamente l’impatto del nuovo potere sociale e si rende conto di non essersi ancora completamente adeguato ad esso. Sotto la pressione prodotta dall’educazione indiretta, cerca di adattarsi a una situazione che ritiene giusta e alla quale la sua mancanza di sviluppo gli ha impedito di adeguarsi finora. Si autoeduca.
In questa fase di costruzione del socialismo possiamo vedere l’uomo nuovo che sta nascendo. La sua immagine non è ancora definita; né potrebbe esserlo, giacché il processo marcia parallelo allo sviluppo di nuove forme economiche. Tralasciando coloro la cui mancata educazione li spinge verso un cammino solitario, verso l’autosoddisfacimento delle proprie ambizioni, vi sono altri che, all’interno di questo nuovo quadro di avanzamento collettivo, tendono a camminare isolati dalla massa che accompagnano. L’importante è che gli uomini vanno acquistando ogni giorno di più coscienza della necessità della propria integrazione nella società e, allo stesso tempo, della propria importanza come motori di essa.
Ormai non marciano più soli, per sentieri sperduti, verso brame lontane. Seguono la loro avanguardia, costituita dal partito, dagli operai più avanzati che camminano legati alle masse e in stretto collegamento con loro. Le avanguardie hanno lo sguardo rivolto al futuro e alla sua ricompensa, che non appare però come qualcosa di individuale; il premio è la nuova società in cui gli uomini avranno caratteristiche diverse: è la società dell’uomo comunista.
La strada è lunga e piena di difficoltà. A volte, per avere smarrito la strada si deve retrocedere; altre volte, camminando troppo in fretta, ci separiamo dalle masse; in qualche caso, per troppa lentezza, sentiamo vicino il fiato di coloro che ci pestano i talloni. Nella nostra ambizione di rivoluzionari, cerchiamo di camminare il più velocemente possibile, aprendo nuove strade, ma sappiamo che dobbiamo trarre nutrimento dalle masse e che queste potranno avanzare più rapidamente solo se le stimoliamo con il nostro esempio.
Indipendentemente dall’importanza data agli incentivi morali, il fatto che esista la divisione in due gruppi principali (escludendo naturalmente la frazione minoritaria di coloro che non prendono parte per una ragione o per l’altra alla costruzione del socialismo) dimostra la relativa mancanza di sviluppo della coscienza morale. Il gruppo d’avanguardia è ideologicamente più avanzato delle masse: queste conoscono i nuovi valori, ma in modo parziale. Mentre tra i primi si produce un cambiamento qualitativo che permette loro di andare incontro al sacrificio nella loro funzione di avanguardia, i secondi hanno solo una visione parziale e devono essere sottoposti a stimoli e pressioni di una certa intensità; è la dittatura del proletariato che si esercita non solo sulla classe sconfitta, ma anche, a livello individuale, sulla classe vincitrice.
Tutto ciò implica, per la sua vittoria totale, l’esistenza di una serie di meccanismi: le istituzioni rivoluzionarie. Nell’immagine delle folle che marciano verso il futuro, è implicito il concetto di istituzionalizzazione, inteso come un insieme armonico di canali, gradini, barriere, apparati ben collaudati che permettono questa marcia e la selezione naturale di coloro che sono destinati a camminare tra l’avanguardia e che stabiliscono il premio o il castigo, rispettivamente per chi compie il proprio dovere e per chi trama contro la società in costruzione.
Questa istituzionalizzazione della rivoluzione non si è ancora attuata. Stiamo cercando qualcosa di nuovo che permetta un’identificazione perfetta tra il governo e la comunità nel suo insieme, adeguata alle particolari condizioni della costruzione del socialismo e che rifugga al massimo dai luoghi comuni della democrazia borghese trapiantati nella società in formazione (come le camere legislative, per esempio). Sono state fatte alcune esperienze volte a creare poco a poco l’istituzionalizzazione della rivoluzione, ma senza eccessiva fretta. Il freno maggiore che abbiamo avuto è stato il timore che un qualsiasi aspetto formale potesse separarci sia dalle masse sia dall’individuo, facendoci perdere di vista la più importante e decisiva ambizione rivoluzionaria, che è quella di vedere l’uomo liberato dalla sua alienazione.
Nonostante la carenza di istituzioni, che deve essere superata gradualmente, ora sono le masse a fare la storia, come insieme cosciente di individui che lottano per una causa comune. L’uomo nel socialismo, malgrado la sua apparente standardizzazione, è più completo e benché non disponga di un meccanismo perfettamente adeguato allo scopo, la sua possibilità di esprimersi e farsi ascoltare nell’apparato sociale è infinitamente maggiore. Tuttavia è necessario accentuare la sua partecipazione cosciente, individuale e collettiva, in tutti i meccanismi direttivi e produttivi e legarla all’idea della necessità dell’educazione tecnica e ideologica, in modo che avverta come questi processi siano strettamente interdipendenti e i loro progressi paralleli.
L’uomo acquisterà così la piena coscienza del proprio essere sociale, il che equivale alla sua completa realizzazione come creatura umana, una volta spezzate le catene dell’alienazione. Ciò si tradurrà concretamente nella riappropriazione della propria natura attraverso il lavoro liberato e l’espressione della propria condizione umana attraverso la cultura e l’arte.
Perché l’uomo si sviluppi nel primo aspetto, il lavoro deve acquistare un carattere nuovo; la merce-uomo cessa di esistere e si instaura un sistema che assegna una quota in cambio dell’adempimento del dovere sociale. I mezzi di produzione appartengono alla società e la macchina è solo la trincea dove si compie il proprio dovere. L’uomo comincia a liberare la propria mente dal pensiero sgradevole di dover necessariamente soddisfare i propri bisogni animali attraverso il lavoro. Comincia a vedersi realizzato nella propria opera e a cogliere la propria grandezza umana attraverso l’oggetto creato, il lavoro compiuto.
Ciò non implica la perdita di una parte del suo essere sotto forma di forza-lavoro venduta, che non gli appartiene più, ma significa un’emanazione di se stesso, un contributo alla vita comune nella quale egli si riflette: l’adempimento del proprio dovere sociale. Stiamo facendo il possibile per dare al lavoro questa nuova categoria di dovere sociale e per collegarlo allo sviluppo tecnologico da un lato il che determinerà nuove condizioni per una maggiore libertà e al lavoro volontario dall’altro, fondandoci sulla concezione marxista secondo cui l’uomo realizza pienamente la propria condizione umana quando produce senza la costrizione della necessità fisica di vendersi come merce.
E’ ovvio che esistono ancora aspetti coattivi nel lavoro, anche quando esso è volontario; l’uomo non ha ancora trasformato tutta la coercizione che lo circonda in un riflesso condizionato di natura sociale, e in molti casi produce ancora sotto la pressione dell’ambiente («costrizione morale» la definisce Fidel). Gli resta ancora da conquistare il piacere di un completo godimento spirituale del proprio lavoro, senza la pressione diretta dell’ambiente sociale, ma vincolato ad esso dalle nuove abitudini. Questo sarà il comunismo. Il mutamento non avviene automaticamente nella coscienza, così come non avviene nell’economia. Le variazioni sono lente e irregolari: ci sono periodi di accelerazione, altri di pausa e persino di regresso.
Dobbiamo inoltre considerare, come abbiamo notato prima, che non siamo di fronte a un periodo di transizione puro e semplice, quale lo vedeva Marx nella Critica del programma di Gotha, ma a una nuova fase da lui non prevista: il primo periodo di transizione al comunismo o di costruzione del socialismo. Ciò avviene in mezzo a violente lotte di classe con elementi di capitalismo nel proprio seno, che rendono difficile una comprensione globale.
Se a ciò si aggiunge lo scolasticismo che ha frenato lo sviluppo della filosofia marxista e impedito l’analisi sistematica del periodo, la cui economia politica non si è sviluppata, dobbiamo riconoscere che siamo ancora in fasce e che è giusto dedicarsi allo studio di tutte le caratteristiche fondamentali di tale periodo, prima di elaborare una teoria economica e politica di maggior respiro.
La teoria che ne scaturirà darà inevitabilmente la preminenza ai due pilastri della costruzione: la formazione dell’uomo nuovo e lo sviluppo tecnologico. In entrambi gli aspetti ci resta molto da fare, ma è meno grave il ritardo per quanto riguarda la concezione della tecnica come base fondamentale, giacché non si tratta in questo caso di andare avanti alla cieca, ma di seguire per un buon tratto la strada aperta dai paesi più evoluti del mondo. E’ per questo che Fidel batte con tanta insistenza sulla necessità della formazione tecnica e scientifica del nostro popolo e in particolare della sua avanguardia.
Nel campo delle idee che riguardano attività non-produttive è più facile cogliere la divisione tra necessità materiale e spirituale. Da molto tempo l’uomo cerca di liberarsi dell’alienazione mediante la cultura e l’arte. Muore quotidianamente durante le otto e più ore in cui funge da merce, per rinascere poi attraverso la sua creatività spirituale. Ma questo rimedio ha in sé i germi della stessa malattia: è un essere solitario che cerca la comunione con la natura. Difende la propria individualità oppressa dall’ambiente e reagisce di fronte alle idee estetiche come un essere isolato, la cui aspirazione è rimanere immacolato.
Si tratta solo di un tentativo di fuga. La legge del valore non è il semplice riflesso dei rapporti di produzione; i capitalisti monopolistici la circondano di una complicata impalcatura che la trasforma in una schiava docile, anche quando i metodi che usano sono esclusivamente empirici. La sovrastruttura impone un tipo di arte in cui bisogna educare gli artisti. I ribelli vengono dominati dal meccanismo e solo i talenti eccezionali potranno creare opere proprie. Gli altri diventano vili salariati oppure vengono schiacciati.
Si inventa la ricerca artistica, intesa come sinonimo di libertà; ma questa «ricerca» ha i suoi limiti, impercettibili fino al momento in cui non ci si scontra, vale a dire fino a quando non si affrontano i problemi reali dell’uomo e della sua alienazione. L’angoscia irrazionale o il volgare passatempo rappresentano delle comode valvole di sfogo per l’inquietudine umana; si combatte l’idea di rendere l’arte un’arma di denuncia. Se si rispettano le regole del gioco, si ottengono tutti gli onori; quegli stessi che otterrebbe una scimmia esibendosi in piroette. L’accordo è di non cercare di fuggire dalla gabbia invisibile.
Quando la rivoluzione prese il potere, ci fu l’esodo di coloro che erano completamente addomesticati; gli altri, rivoluzionari o no, videro di fronte a sé nuove strade. La ricerca artistica ebbe un nuovo impulso. Senza dubbio le strade erano più o meno tracciate e il significato del concetto di fuga si mascherò dietro la parola «libertà». Gli stessi rivoluzionari ebbero molto spesso questo atteggiamento, riflesso dell’idealismo borghese nella coscienza.
Nei paesi in cui si è verificato un processo analogo, si è cercato di combattere queste tendenze con un esagerato dogmatismo. La cultura in generale si trasformò praticamente in un tabù e si proclamò come massima aspirazione culturale la rappresentazione formalmente esatta della natura, trasformandosi poi questa in una rappresentazione meccanica della realtà sociale che si voleva mostrare: la società ideale, quasi senza conflitti né contraddizioni, che si voleva creare.
Il socialismo è giovane e compie degli errori. Noi rivoluzionari, a volte, siamo privi delle conoscenze e dell’audacia intellettuale necessarie per affrontare il compito di sviluppare l’uomo nuovo con metodi diversi da quelli tradizionali che, a loro volta, subiscono l’influenza della società che li ha creati. (Ancora una volta si pone il problema del rapporto tra forma e contenuto.) Il disorientamento è grande e siamo assorbiti dai problemi della costruzione materiale. Non ci sono artisti di grande valore che abbiano, a loro volta, un grande prestigio rivoluzionario. Sono gli uomini del partito che devono assumere questo compito e cercare di raggiungere l’obiettivo principale: l’educazione del popolo.
Si cerca allora la semplificazione; ciò che è alla portata di tutti, che è poi alla portata dei funzionari. La ricerca artistica autentica viene annullata e il problema della cultura generale si riduce a una riappropriazione del presente socialista e del passato morto (e quindi non più pericoloso). Così nasce il realismo socialista, sulle basi dell’arte del secolo scorso. Ma l’arte realista del secolo XIX è anch’essa di classe, capitalistica forse in una forma più pura di questa arte decadente del XX secolo, da cui traspare l’angoscia dell’uomo alienato.
Nella cultura il capitalismo ha dato tutto se stesso e di esso non rimane altro che la presenza di un cadavere maleodorante; in arte, la sua decadenza attuale. Perché tentare, allora, di cercare nelle forme congelate del realismo socialista l’unica ricetta valida? Non si può opporre al realismo socialista «la libertà», perché questa ancora non esiste, né esisterà sino al completo sviluppo della nuova società: non si pretenda neppure di condannare tutte le forme artistiche successive alla prima metà del secolo XIX dall’alto del trono pontificio del realismo ad oltranza, perché si cadrebbe in un errore proudhoniano di ritorno al passato, mettendo una camicia di forza all’espressione artistica dell’uomo che nasce e si forma attualmente. Manca lo sviluppo di un meccanismo ideologico culturale che permetta la ricerca e distrugga le erbacce che così facilmente si moltiplicano sul terreno concimato delle sovvenzioni statali.
Nel nostro paese non si è verificalo l’errore del meccanicismo realista, ma uno di segno contrario. E ciò è accaduto perché non è stata compresa la necessità di creare l’uomo nuovo; un uomo che non sia più il portavoce delle idee del secolo XIX, ma neppure di quelle del nostro secolo decadente e morboso. E’ l’uomo del XXI secolo quello che dobbiamo creare, benché si tratti ancora di un’aspirazione soggettiva e non sistematizzata. Proprio questo è uno dei punti fondamentali del nostro studio e del nostro lavoro e nella misura in cui otterremo risultati concreti su una base teorica o, viceversa, ricaveremo conclusioni teoriche di carattere generale dalla nostra ricerca concreta, avremo dato un valido apporto al marxismo-leninismo e alla causa dell’umanità.
La reazione contro l’uomo del XIX secolo ci ha portato a una ricaduta nel decadentismo del XX secolo; non è un errore troppo grave, però dobbiamo superarlo, se non vogliamo aprire un ampio arco al revisionismo. Le grandi masse si vanno sviluppando, le nuove idee stanno acquistando un naturale impeto in seno alla società, le possibilità materiali di sviluppo integrale di tutti i suoi membri in assoluto rendono più produttiva la fatica. E’ un presente di lotta, ma il futuro è nostro.
Riassumendo, la colpa di molti nostri intellettuali e artisti risiede nel loro peccato originale; non sono autenticamente rivoluzionari. Possiamo cercare di innestare un olmo perché dia pere, ma contemporaneamente bisogna piantar peri. Le nuove generazioni saranno libere dal peccato originale. Le probabilità che compaiano artisti eccezionali saranno tanto maggiori quanto più si saranno ampliati il campo della cultura e le possibilità di espressione. Il nostro compito consiste nell’impedire che la generazione odierna, fuorviata dai suoi stessi conflitti, si perverta e perverta le generazioni future. Non dobbiamo creare docili salariati del pensiero ufficiale, né «borsisti» che vivano al riparo dei finanziamenti statali, beneficiando di una libertà tra virgolette. E’ tempo ormai che siano i rivoluzionari a intonare il canto del popolo. E’ un processo lungo.
Nella nostra società svolgono un ruolo enorme la gioventù e il partito. Particolarmente importante è la prima, perché è l’argilla malleabile con cui si può costruire l’uomo nuovo, senza alcuna delle tare del passato. Essa riceve un trattamento corrispondente alle nostre ambizioni. La sua educazione è sempre più completa e non trascuriamo di integrarla nel lavoro sin dal primo momento. I nostri studenti fanno un lavoro manuale durante le vacanze o contemporaneamente allo studio. Il lavoro è un premio in certi casi, uno strumento educativo in altri, mai un castigo. Una nuova generazione sta nascendo.
Il partito è un’organizzazione d’avanguardia. I lavoratori migliori vengono proposti dai loro compagni per farne parte. E’ minoritario, ma dotato di grande prestigio per la qualità dei suoi quadri. La nostra aspirazione è che il partito sia di massa, quando però le masse avranno raggiunto il livello di sviluppo dell’avanguardia, vale a dire quando saranno state educate per il comunismo. E verso questa formazione va indirizzato il lavoro. Il partito è l’esempio vivente; i suoi quadri devono essere modelli di laboriosità e sacrificio; con la loro azione devono portare le masse al compimento degli obiettivi rivoluzionari e ciò implica anni di dura lotta contro le difficoltà della costruzione, i nemici di classe, le piaghe del passato, l’imperialismo…
Vorrei spiegare ora il ruolo che svolge la personalità umana, l’uomo come individuo dirigente delle masse che fanno la storia. E’ la nostra esperienza diretta, non una ricetta. Fidel ha dato alla rivoluzione l’impulso nei primi anni e il tono sempre; ma oggi esiste un buon gruppo di rivoluzionari che si sviluppa all’unisono con il nostro massimo dirigente e una gran massa che segue i propri capi perché ha fiducia in loro; e ha fiducia perché questi dirigenti hanno saputo interpretare le loro aspirazioni.
Non si tratta di sapere quanti chili di carne si mangino o quante volte l’anno ognuno possa andarsene a passeggiare sulla spiaggia, e neppure quante belle cose provenienti dall’estero si possano acquistare con gli attuali salari. Si tratta, piuttosto, di far sì che l’individuo si senta più completo, con molta maggiore ricchezza interiore e senso di responsabilità. Il cittadino nel nostro paese sa bene che l’epoca gloriosa che sta vivendo è fatta di sacrifici; e sa bene che cosa sia il sacrificio. I primi impararono a conoscerlo sulla Sierra Maestra e ovunque si è combattuto; e poi lo abbiamo conosciuto in tutto il paese. Cuba è l’avanguardia dell’America e deve fare dei sacrifici perché sta in prima linea, perché indica alle masse latinoamericane il cammino verso la completa libertà. All’interno del paese, i dirigenti hanno il dovere di assolvere il proprio ruolo di avanguardia; ed è bene dirlo in tutta sincerità, in una vera rivoluzione alla quale si consacra tutto, dalla quale non ci si attende alcuna ricompensa materiale, il compito del rivoluzionario di avanguardia è a un tempo magnifico e angoscioso,
Mi permetta di dirle, a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidalo da grandi sentimenti d’amore. E’ impossibile concepire un rivoluzionario autentico privo di tale qualità. E questo è forse uno dei grandi drammi del dirigente: egli deve unire a uno spirito appassionato una mente fredda, e prendere decisioni dolorose senza contrarre un muscolo. I nostri rivoluzionari d’avanguardia devono idealizzare questo amore per i popoli, per le cause più sacre e renderlo unico, indivisibile. Non possono scendere con la loro piccola dose di affetto quotidiano nei luoghi in cui lo esercita l’uomo comune.
I dirigenti della rivoluzione hanno figli che nei loro primi balbettii non imparano a nominare il padre; mogli che devono partecipare al sacrificio della loro vita, al fine di condurre la rivoluzione verso il suo destino; la cerchia dei loro amici coincide con quella dei compagni della rivoluzione. Non c’è vita al di fuori di questa.
In tali condizioni, bisogna avere una grande dose di umanità, un gran senso di giustizia e di verità per non cadere in eccessi di dogmatismo, in freddo scolasticismo, nell’isolamento dalle masse. Bisogna lottare ogni giorno perché questo amore per l’umanità vivente si trasformi in fatti concreti, in atti che servano di esempio, di mobilitazione.
Il rivoluzionario, motore ideologico della rivoluzione in. seno al partito, si consuma in questa attività ininterrotta, che finisce solo con la morte, a meno che il processo non si estenda su scala mondiale. Se il suo impegno rivoluzionario si affievolisce quando i compiti più urgenti vengono realizzati su scala locale e l’internazionalismo proletario viene dimenticato, la rivoluzione che egli dirige cessa di essere una forza propulsiva e affonda in un tranquillo letargo, di cui approfitta il nostro inconciliabile nemico, l’imperialismo, per riguadagnare terreno. L’internazionalismo proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria. Così educhiamo il nostro popolo.
E’ chiaro che nella situazione attuale vi sono pericoli. Non solo quello di dogmatismo, e non solo quello di congelare i rapporti con le masse proprio a metà della grande impresa. C’è anche il pericolo delle debolezze in cui si può cadere. Se un uomo pensa che per dedicare tutta la propria vita alla rivoluzione non può permettere che la propria mente sia distratta dalla preoccupazione che a un figlio manchi un determinato prodotto, che le scarpe dei bambini siano rotte, che la sua famiglia sia priva di certi beni indispensabili, allora egli con questo ragionamento lascia infiltrare i germi della futura corruzione.
Per quanto ci riguarda, abbiamo stabilito che i nostri figli debbano avere o essere privi di ciò che hanno o di cui mancano i figli dell’uomo comune; e la nostra famiglia deve comprenderlo e lottare per questo. La rivoluzione si fa attraverso l’uomo, però l’uomo deve forgiare giorno dopo giorno il proprio spirito rivoluzionario.
Così marciamo. Alla testa dell’immensa colonna non ci vergogniamo e non esitiamo a dirlo c’è Fidel; poi i migliori quadri del partito e subito dopo così vicino che si avverte la sua forza enorme viene il popolo nel suo insieme: una solida struttura di personalità che avanzano verso un fine comune; individui che hanno preso coscienza di ciò che è necessario fare; uomini che lottano per uscire dal regno della necessità ed entrare in quello della libertà.
Questa immensa moltitudine si dispone in un certo ordine che corrisponde alla consapevolezza della sua necessità; non è una forza dispersa in migliaia di frazioni disseminate nello spazio come frammenti di una granata, che cercano di raggiungere con qualsiasi mezzo, in una lotta accanita contro i propri simili, una posizione, qualcosa che sia di sostegno per l’incerto futuro.
Sappiamo che ci attendono dei sacrifici e di dover pagare un prezzo per il fatto eroico di rappresentare un’avanguardia come nazione. Noi dirigenti siamo consapevoli di dover pagare un prezzo per avere il diritto di dire che siamo alla testa di un popolo che è a sua volta alla testa dell’America. Ognuno di noi, indistintamente, offre la sua parte di sacrificio, cosciente di ricevere in cambio la soddisfazione del dovere compiuto, coscienti di avanzare insieme a tutti gli altri, verso l’uomo nuovo che si intravede all’orizzonte.
Mi sia consentito trarre qualche conclusione.
Noi socialisti siamo più liberi perché siamo più completi, siamo più completi perché siamo più liberi.
Lo scheletro della nostra libertà è ormai formato, mancano la sostanza proteica e il rivestimento: li creeremo.
La nostra libertà e il suo supporto quotidiano hanno il colore del sangue e sono gonfi di sacrificio.
Il nostro sacrificio è cosciente; è un tributo da pagare per la libertà che stiamo costruendo. La strada è lunga e in parte ignota; conosciamo bene i nostri limiti. Ma faremo l’uomo del XXI secolo: noi stessi.
Ci forgeremo con l’azione quotidiana, creando un uomo nuovo con una nuova tecnica.
La personalità svolge un ruolo di mobilitazione e direzione per il fatto di incarnare le più alte virtù e aspirazioni del popolo e non si allontana dal cammino.
Chi apre la strada è il gruppo di avanguardia, scelto tra i migliori, il partito.
L’argilla fondamentale del nostro lavoro è la gioventù: in essa riponiamo le nostre speranze e la prepariamo perché un giorno prenda la bandiera dalle nostre mani.
Se questa lettera balbettante chiarisce qualcosa, ho raggiunto l’obiettivo per il quale la invio.
Riceva il nostro saluto di rito, come una stretta di mano o un’«Ave Maria Purissima».
Patria o morte!
Note:
1) «El socialismo y el hombre a Cuba», in Marcha (Montevideo) 12 marzo 1965, e in Verde Olivo, aprile 1965. L’articolo, in forma di lettera, è indirizzato al giornalista Carlos Quijano direttore del settimanale uruguaiano Morena.
da Ernesto Che Guevara, Scritti scelti, a cura di Roberto Massari, Erre Emme, 1993