di Geraldina Colotti
“Rispetto, rispetto”, grida la storica dirigente femminista Maria Leon. “Rispetto, rispetto”, scandisce la sala convegni dell’Hotel Alba, gremita per il II Congresso venezuelano delle donne. Rispetto per il lavoro, e per la decisione sovrana delle donne sul proprio corpo, riconoscimento della violenza di genere come un dato strutturale della società capitalista e patriarcale, che va stroncato alla radice. Rifiuto dell’aggressione imperialista alla matria-patria venezuelana e a quelle del continente. “Saluto femminista e antimperialista”, scandisce la sala quando vengono presentate le ospiti internazionali. Il giorno dopo, tutte le delegazioni si trasferiranno al Cuartel de la Montaña, dove riposano i resti di Hugo Chavez, “il primo presidente femminista”.
Le donne, presenti a tutti i livelli di governo, e in maggioranza in quasi tutte le strutture organizzate della base, sono l’architrave del processo bolivariano. Lo si è visto anche in questo II Congresso, che ha riunito movimenti femministi e LGBTQI, associazioni, militanti del partito di governo (il PSUV) e del Gran Polo Patriotico, l’alleanza che lo accompagna in cui si situa anche il Partito Comunista venezuelano.
A introdurre il Congresso, insieme alla giovane Ministra della donna e dell’uguaglianza di genere, Caryl Bertho, a Tania Diaz, a Gladys Requena e a Maria Rosa Hernandez, c’era anche il ministro per l’Educazione Aristobulo Isturiz, “el profe”, vicepresidente per l’area sociale. Isturiz ha presentato il quadro politico di un paese sotto assedio dall’interno e dall’esterno, per l’attacco dei poteri forti intenzionati a stroncare il “laboratorio” bolivariano. Un paese, però, in “assemblea permanente”, come testimoniano i tanti congressi in corso: quello dei lavoratori e delle lavoratrici, dei popoli indigeni, delle comunas… L’espressione di quel potere popolare “esercitato dal basso” per costruire “il socialismo del XXI secolo”.
Le proposte delle donne, dal concreto al simbolico, dalla produzione alla riproduzione, verteranno sulla costruzione di un nuovo modello di società basato sul “socialismo femminista”. Il presidente Maduro le riceverà al Cuartel de la Montaña, dove proporrà anche una giornata in cui “il paese sarà interamente governato dalle donne e dal “socialismo femminista”. Sia Maduro, che il presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, Diosdado Cabello, hanno invitato i maschi a partire da sé, dalle proprie responsabilità nel patriarcato e nella violenza di genere, e assunto la questione di genere come una visione del mondo che attraversa l’intero arco di produzione e riproduzione della vita.
“Quello delle donne è un potere nuovo, di felicità, di vita, di pace con giustizia sociale – ha detto Maduro -, un potere che parte dal basso e per questo nel Plan de la Patria 2025 è declinato il potere della donna”. Le donne hanno risposto con uno slogan: “Alerta, alerta che cammina il socialismo femminista per l’America latina”. … “e per l’Europa e per la Cina”, ha aggiunto ridendo Gladys Requena.
Dal II Congresso venezuelano delle donne, intervista alla dirigente bolivariana Maria Rosa Jiménez
Maria Rosa Jiménez svolge un compito determinante, che le consente di sentire il polso della rivoluzione bolivariana e quello delle donne in particolare: è la Segretaria Esecutiva del sistema di Missioni e Grandi Missioni, i programmi sociali ideati da Hugo Chavez e applicati nei vari ambiti di competenza presieduti da diversi ministri. A capo del Sistema di Missioni e Grandi Missioni c’è il ministro dell’Educazione Aristobulo Isturiz, vicepresidente per l’area sociale. Inoltre, Maria Rosa è la Segretaria esecutiva del movimento Somos Venezuela, che organizza 287.000 giovani, in maggioranza donne, nelle brigate casa per casa dispiegate sul territorio. Giovani che visitano le famiglie per spiegare e mettere in pratica il sistema di protezione sociale voluto dal presidente Maduro e approvato dall’Esecutivo attraverso il Carnet della patria. Ed è anche la presidenta della Gran Mision Hogares de la patria, rivolta a 6 milioni di famiglie principalmente mediante l’erogazione di sussidi.
Un progetto – spiega Jiménez – basato sull’articolo 10 della Costituzione bolivariana approvata nel 1999 e che contempla il riconoscimento del lavoro domestico e di cura svolto dalla donna come lavoro sociale, che genera valore, e che dev’essere riconosciuto dallo Stato.
Come hai vissuto la questione di genere nel tuo percorso politico?
La rivoluzione ha assunto fin dall’inizio il tema di genere come asse centrale, come necessità di lottare per il rispetto dei diritti della donna, contro la violenza patriarcale e per l’equità di genere. Per Chavez, il socialismo per essere tale doveva essere femminista, e per ricordarlo ha stabilito il 25 ottobre come giornata nazionale del socialismo femminista. Il modello di società socialista implica la necessità che la produzione sociale si stabilisca nell’uguaglianza, e che il lavoro di cura sia considerato un fatto collettivo che deve assumersi l’intera comunità e non la donna da sola. Dalla mia prospettiva, ho visto quanto le donne siano cresciute politicamente in questo percorso rivoluzionario da quando Chavez ci ha invitato a uscire dall’ambito individuale per convertirci in soggetto politico impegnato a fare progetti, a difendere la rivoluzione e la patria (la matria) e a trasformare il paese, trasformando in ricchezza la nostra diversità. Una diversità che si può vedere in questo Congresso a cui partecipano diverse istanze e movimenti: dalla Piattaforma nazionale delle donne, al movimento Hogares de la Patria, alle strutture del Gran Polo Patriotico. Vi sono le donne dei partiti, dei collettivi, le giovani… Un soggetto ampio e plurale con una grande responsabilità alla base che, a dispetto delle diversità, sostiene la rivoluzione nelle comunità in modo permanente.
Questo è molto importante. E come soggetto siamo nel pieno di una battaglia delle idee per ripensarci, per continuare ad affrontare le grandi sfide che abbiamo di fronte. La lotta di genere è parte fondamentale della battaglia che quotidianamente portiamo avanti con la rivoluzione bolivariana. Scoprire che, pur essendo dirigenti politiche possiamo essere oggetto di violenza patriarcale, di maltrattamento e di femminicidio, ci porta a riflettere sulla natura sistemica della violenza contro le donne; sul fatto che la lotta politica che stiamo conducendo non è solo per garantire beni e servizi alla popolazione, ma per la liberazione dalle forme di dominio che produce la società capitalistica. Porta a ragionare e a trovare soluzioni perché questa violenza sia combattuta e disinnescata con una nuova maniera di fare le cose, un nuovo sguardo e una diversa posizione sulla società e sul genere.
Qual è stato il dibattito che ha portato a questo secondo Congresso e in quale contesto si è svolto?
Voglio parlarti di alcuni episodi tragici che ci hanno toccato direttamente. Nel movimento Hogares de la patria Eulalia Buroz abbiamo vissuto il femminicidio di Celia Silva, 22 ottobre dell’anno scorso, e più di recente quello di Mayell Hernandez. Due indicatori dell’equilibrio che si va costruendo tra la forza delle donne e la rivoluzione bolivariana. Il femminicidio di Celia ci ha colpito molto perché era con noi a lavorare nel movimento Hogares de la Patria, lottava per i diritti della donna, abbiamo pianto e accompagnato la famiglia. Possiamo dire che non c’è stata giustizia piena perché, anche se l’omicida è in carcere, non si è ancora svolto il processo che sancisca il femminicidio. Nel caso di Mayell, invece, il movimento delle donne si è mosso subito dopo il femminicidio e l’assassino, inizialmente lasciato libero, è stato arrestato. A dare visibilità al femminicidio ha però contribuito fortemente il movimento di artisti e intellettuali di cui lei faceva parte, che si è mobilitato insieme a quello delle donne: per far emergere che il colpevole aveva agito spinto dall’odio contro la donna e dall’imposizione della violenza su un corpo per renderlo vulnerabile e sottometterlo fino ad annientarlo. Un’assunzione di responsabilità da parte degli uomini che ha evidenziato un dato culturale e ha messo in moto il meccanismo legale, e provocato prese di posizioni. Dalla nostra parte abbiamo un presidente femminista, come Maduro, che sollecita progetti e contenuti a livello di movimento, di partito, di governo. Nella rivoluzione abbiamo la possibilità di organizzare movimenti di massa, di incidere con i nostri contenuti contro la violenza di genere e contro tutti i meccanismi di maltrattamento dei più deboli che il capitalismo genera. Il reato di femminicidio, da noi, esiste a livello giuridico da sei anni, ma i principi che regolano la lotta alla violenza patriarcale erano già inclusi nel processo costituente del 1999 e nella nostra Carta Magna. Articolando l’azione dello Stato con quella dei movimenti popolari dobbiamo convincere la società in una lotta costante per l’egemonia politica. Stiamo portando avanti le nostre battaglie in uno scenario politico complesso, nel pieno di un blocco economico-finanziario e di una guerra non convenzionale da parte dell’imperialismo. Per tutto il 2017 abbiamo dovuto impegnarci per l’Assemblea Nazionale Costituente, per le elezioni, senza un attimo di tregua.
La guerra economica ha cercato di riportare indietro le donne, obbligandole a occuparsi della sopravvivenza e non dell’attività politica. Come hanno reagito le comunità?
Da quando Chavez è partito fisicamente, non abbiamo ancora finito di elaborare il lutto per tutto quello che lui ha significato. Però sappiamo di avere una responsabilità che non possiamo tradire. Nel 2012, durante la sua ultima campagna elettorale, stavo partecipando a una manifestazione nello stato Aragua. Fu allora che lo sentii dire: Chavez non sono io, ma un popolo: un soggetto collettivo organizzato e cosciente a cui – oggi ci è chiaro – ci stava preparando da tempo. Per esempio mi ricordo quando è venuto a chiederci, a noi studenti, di dedicare un anno alla rivoluzione, sospendendo i nostri progetti individuali. Era il settembre 2003, dopo il golpe dell’anno precedente. Stavano nascendo le Missioni, nasceva il Frente Francisco de Miranda di cui faccio parte. Con un primo gruppo siamo partiti per Cuba, poi è stata la volta di un secondo gruppo. Fin dall’inizio cominciavamo a essere in maggioranza donne in questa forza sociale della rivoluzione. Chavez già iniziava a parlare del progetto di integrazione dell’America Latina, l’Alba. Chavez non si dedicò solo a gestire uno Stato, ma a convertire il popolo in forza di potere organizzata. Chi siamo noi? Siamo le figlie e i figli della impanadera che si sveglia alle quattro per fare le impanadas, le figlie e i figli degli operai, dei contadini, non siamo la borghesia, ma un popolo che Chavez ha preparato. Per questo, nella fase finale della sua vita, quando chiede ai medici di tornare da Cuba per consegnare un messaggio finale al suo popolo, dice: che nessuno, si illuda, oggi abbiamo una patria. Allora ero incinta di sette mesi. Ho chiamato mia figlia Alba Lucia. L’offensiva delle destre ha cercato di distruggere questa nostra forza, questa identità di popolo e di patria. Ma noi, dopo la vittoria delle destre in Parlamento nel 2015 abbiamo capito che dobbiamo continuare come popolo, con più coscienza. Abbiamo seguito e appoggiato le proposte di Nicolas Maduro e questo ha configurato una nuova realtà. Come viviamo la guerra? In resistenza. Abbiamo capito che dovevamo stare uniti con il progetto di Nicolas, un compagno conseguente che agisce in sintonia con un popolo coerente e con dirigenti conseguenti, ostinati nella convinzione di poter costruire un proprio modello alternativo al capitalismo.
Quali sono gli obiettivi e le sfide di questo congresso?
Prima di tutto guardare al modello di società che vogliamo costruire a fronte degli attacchi imperialisti ma anche dei limiti del sistema economico basato sulla rendita petrolifera. Un modello in cui la questione di genere declinata in tutti i suoi aspetti, la lotta al maschilismo e al sistema patriarcale, siano una forza centrale della rivoluzione. Le nostre lotte si vincono con il lavoro nelle comunità.