Quella notte, la prima del blocco, a Cuba c’erano 482.560 automobili, 343.300 frigoriferi, 549.700 radio, 303.500 televisori, 352.900 ferri da stiro elettrici, 286.400 ventilatori, 41.800 lavatrici automatiche, 3.500.000 orologi da polso, 63 locomotive 12 navi mercantili. Tutto questo, a parte gli orologi da polso che erano svizzeri, era stato fabbricato negli Stati Uniti.
Apparentemente doveva passare un certo tempo prima che la maggioranza dei cubani si rendesse contro di quello che significavano quei numeri mortali.
Dal punto di vista della produzione Cuba dovette riconoscersi prontamente non come un paese distinto, ma come una penisola commerciale degli Stati Uniti.
(…) L’Avana e due o tre altre città dell’interno davano l’impressione della felicità dell’abbondanza, ma in realtà non c’era nulla che non fosse estraneo, dallo spazzolino da denti agli alberghi con 20 piani di vetro del Malecón.
Cuba importava dagli Stati Uniti quasi 30.000 articoli utili e inutili per la vita quotidiana(…)
Nonostante un simile stato di dipendenza, gli abitanti continuavano a spendere senza misura quando già il blocco era una realtà brutale(…). Molti sogni rimandati per mezza vita e anche per vite intere si realizzavano rapidamente.
Solo che le cose che terminavano nel mercato non si riponevano immediatamente e alcune non sarebbero state poi riposte per molti anni, e i magazzini straripanti del mese precedente restavano senza rimedio come ossa ripulite.
Cuba in quegli anni iniziali fu il regno dell’improvvisazione e del disordine.
In mancanza di una nuova morale – che tarderà ancora molto per trasformarsi nella coscienza della popolazione – il machismo Caraibico aveva incontrato una ragione d’essere in quello stato generale d’emergenza.
Il sentimento nazionale era molto alterato con quel forte e incontenibile vento di novità e autonomia, e nello stesso tempo le minacce della reazione ferita erano così vere e imminenti che molta gente confondeva una cosa per l’altra e sembrava pensare che anche la mancanza di latte si poteva risolvere con una sparatoria (…)
In effetti io ero tornato a L’Avana per la seconda volta al principio del 1961, e la prima cosa che mi richiamò l’attenzione fu che l’aspetto visibile del paese era cambiato poco, ma in cambio la tensione sociale cominciava ad essere insostenibile.
(…) Nell’aeroporto de L’Avana, dov’era evidente che si facevano sforzi per non far notare l’ambiente di guerra, c’era un cartellone gigante da un estremo all’altro della cornice principale: «Cuba, territorio libero d’America».
Invece dei soldati barbuti d prima facevano la vigilanza miliziani più giovani con le uniformi verde olivo, tra loro alcune donne, e le loro armi erano ancora dei vecchi arsenali della dittatura.
Sino ad allora non ce n’’erano altre. Il primo carico di armi moderne che la Rivolzione riuscì a comprare nonostante le pressioni degli Stati Uniti era giunto dal Belgio il 4 marzo precedente a bordo della famosa nave francese Le Coubre, e questa esplose nel molo de L’Avana con 700 tonnellate di armi e munizioni nelle stive, per una sabotaggio provocato.
L’attentato provocò la morte di 75 persone e circa 20 feriti tra gli operai del porto, ma non fu rivendicato da nessuno e il governo cubano lo attribuì alla CIA. Nel funerale delle vittime Fidel Castro proclamò la consegna che doveva diventare il lemma della nuova Cuba : «Patria o Muerte».
Io l‘avevo letta per la prima volta per le strade di Santiago, l’avevo vista dipinta col pennello su enormi cartelli di propaganda delle imprese dell’aviazione e dei dentifrici nordamericani nelle strade polverose dell’aeroporto di Camagüey, e la vidi di nuovo ripetuta senza tregua in cartoline improvvisate nelle vetrine di un negozio per turisti dell’aeroporto de L’Avana, nelle sale d’aspetto, nelle vetrine, dipinta con la biacca sugli specchi dei parrucchieri e con rossetto sugli specchietti dei taxi.
Si era conseguito un grado tale di saturazione sociale, che non c’era un luogo, nè un istante nel quale quella consegna di rabbia non fosse scritta, dagli strumenti negli zuccherifici, al bordo dei documenti ufficiali, e la stampa, la radio e la televisione la ripetevano senza pietà per giorni interi e mesi interminabili, sino a che s’incorporò nella stessa essenza della vita cubana(…)
La cosa più notevole era la naturalezza con cui i poveri si erano seduti sulle sedie dei ricchi nei luoghi pubblici. (…) Il cancerbero biondo dell’hotel Habana Hilton, che cominciava a chiamarsi Habana Libre, era stato sostituito da miliziani servizievoli che passavano la giornata cercando di convincere i contadini che potevano entrare senza timore, indicando una porta d’ingresso e un’altra d’uscita(…).
(…) Le tariffe dell’elettricità, del teléfono, del trasporti e dei servizi pubblici in generale avevano subito drastiche riduzioni (…) D’altra parte la disoccupazione si stava riducendo a grandi passi e gli stipendi aumentavano; la Riforma Urbana aveva alleviato l’angosciai mensile degli affitti e l’educazione e gli accessori per la scuola erano gratuiti.
Le 20 leghe di farina d’avorio delle spiagge di Varadero, che prima avevano un solo padrone e il cui godimento era riservato ai ricchi troppo ricchi, furono aperte senza condizioni a tutto il mondo e anche per gli stessi ricchi (…)
Era evidente che mentre le condizioni cambiavano quelle —-golondrinas — solitarie diventavano lugubri e sempre più economiche. Ma comunque le notti a L’Avana e a Guantánamo erano sempre lunghe e insonni e la musica delle feste in affitto si prolungava sino all’alba.
Questi aspetti della vecchia vita mantenevano un’illusione di normalità e abbondanza che nemmeno le esplosioni notturne nè i rumori costanti d’infami aggressioni né la reale imminenza d’una guerra riuscivano a estinguere, ma che da molto tempo non erano più verità.
A volte nei ristoranti non c’era carne la notte, ma non c’importava perché a volte c’era pollo. (…) Nel centro commerciale apparivano le prima bibite e un mercato nero incipiente, ma molto attivo, cominciava a controllare gli articoli.
Io ho preso coscienza del blocco in un modo brutale (…). Dopo una notte di lavoro nell’ufficio di Prensa Latina uscii solo e intorpidito in cerca di qualcosa da mangiare. Era l’alba.
(…) Infine trovai un’osteria con la saracinesca chiusa, ma senza lucchetto, e cercai d’alzarla per entrare, perchè dentro c’era luce e un uomo stava pulendo dei bicchieri della vetrina.
Lo stavo tentando quando sentii alla mie spalle il rumore inconfondibile di un fucile caricato e una voce di donna molto dolce, ma decisa – Calma compagno- disse – alza le mani. – Ho fame – dissi io. Forse lo dissi con eccessiva convinzione perche solo allora comprese che io non avevo cercato d’entrare nell’osteria a forza e la sua sfiducia divenne compassione-
-È molto tardi- disse. – Al contrario il problema è che è troppo presto. Quello che voglio è fare colazione-. Allora fece dei segnali verso l’interno attraverso la vetrina e convinse l’uomo a servirmi qualcosa, anche se mancavano due ore all’apertura.
Ordinai uova fritte con prosciutto, caffè con latte, pane e burro e un succo di frutta qualsiasi. L’uomo mi disse con precisione sospetta che non aveva né uova, né prosciutto da un settimana, né latte da tre giorni e che la sola cosa che mi poteva servire era una tazza di caffè nero e pane senza burro e forse un poco di pasta riscaldata, della sera prima.
Sorpreso, gli chiesi che cosa succedeva con le cose da mangiare e la mia sorpresa era tanto innocente che allora fu lui a sorprendersi.
-Non succede niente, mi disse, nient’altro che questo paese è andato in malora-. (..) Fu un pronostico preciso. El 12 marzo del 1962, quando erano già trascorsi 322 giorni dall’inizio del blocco, s’impose il razionamento drastico delle cose da mangiare (…).
Il fatto più ammirabile era vedere sino a che punto quella scarsità imposta dal nemico incideva nella morale sociale. Nello stesso anno in cui si stablì il razionamento, avvenne la detta Crisi d’Ottobre che lo storiografo inglese
Hugo Thomas ha definito “la più grande della storia dell’umanità (…)
Nel mezzo di quella mobilitazione di massa che sarebbe bastata per esasperare qualsiasi economia ben solida, la produzione industriale raggiunse cifre insolite, terminò l’assenteismo nelle fabbriche e si superarono ostacoli che in circostanze meno drammatiche sarebbero stati fatali.
(…) Il paese produceva allora scarpe sufficienti perchè ogni abitante di Cuba ne potesse comprare un paio ogni anno, in modo che la distribuzione si canalizzò attraverso le scuole e i centri di lavoro.
Solo nell’agosto del 1963, quando già quasi tutti i magazzini erano chiusi perchè non c’era materialmente niente da vendere, si regolamentò la distribuzione dei vestiti (…).
Quel Natale fu il primo della Rivoluzione che si celebrò senza maiale arrosto e torroni, nel quale i giocattoli furono razionati.
Senza dubbi, grazie precisamente al razionamento, fu anche il primo Natale nella storia di Cuba nel quale tutti i bambini, senza distinzioni, ebbero almeno un giocattolo.
(…). Le comunicazioni con il resto del mondo si erano ridotte al minimo essenziale. I cinque voli quotidiani per Miami e i due settimanali della Cubana de Aviación per Nuova York furono interrotti dalla Crisi d’Ottobre.
Le poche linee dell’America Latina che avevano voli per Cuba, li cancellarono mentre i loro paesi interrompevano le relazioni diplomatiche e commerciali e restò un solo volo settimanale dal Messico, che per molti anni servì da cordone ombelicale con l’America, anche se come canale infiltrazione dei servizi di sovversione e spionaggio degli Stati Uniti.
La Cubana de Aviación, con la sua flotta ridotta agli epici Bristol Britannia che erano i soli il cui mantenimento era assicurato grazie ad accordi speciali con i fabbricanti inglesi, sostenne un volo quasi acrobatico attraverso la rotta polare verso Praga . (…) L’unica fonte d’energia erano i cinque milioni di tonnellate di petrolio che le cisterne sovietiche trasportavano ogni anno dai porti del Baltico, a 14 000 kilometri di distanza, e con la frequenza di una nave ogni 53 ore. Il Oxford, una nave della CIA equipaggiata con tutti gli elementi per lo spionaggio, pattugliò le acque territoriali cubane durante vari anni per vigilare che nessun paese capitalista, salvo i pochi che lo osarono, contrariasse la volontà degli Stati Uniti.
(…) Nessuno avrebbe potuto immaginare nell’incerto Anno Nuovo del 1964 che ancora non erano arrivati i tempi più duri di quel blocco ferreo e spietato e che si doveva arrivare agli estremi della mancanza di acqua da bere in molte case e in quasi tutti gli stabilimenti pubblici.
Pubblicato in Proceso No. 0090- 01. 24 luglio del 1978.