di Geraldina Colotti
Un vergognoso articolo di “opinione”, comparso il 23 dicembre sul Panam Post, pronostica “L’ultimo Natale di Nicolás Maduro”. In un delirio di insulti e paranoia, il “giornalista” suggerisce apertamente varie modalità per portare a termine quel che già era stato tentato con i droni esplosivi del 4 agosto.
Scrive: “Appare sempre più evidente che Maduro è a malapena sopportato dai suoi alleati, non lo vogliono, però non lo vogliono neanche in carcere e per questo lo preferiscono morto. Un peggioramento di salute, un incidente, un attentato sotto falsa bandiera ben riuscito, una transizione interna e straordinaria, un fattore scatenante che finisca per chiudere la tomba nel quale già si trova”.
Si tratta di un “falso positivo” costruito ad arte, in puro “modello colombiano”, che suggerisce già un colpevole – Iván Hernández Dala, attualmente a capo di Casa Militar, uno degli ufficiali sanzionati dall’Unione Europea – e un manovratore, il governo cubano.
Propaganda di guerra che deve cambiare le carte in tavola, presentando una realtà capovolta in cui gli aguzzini risultano dei liberatori. E così, Ivan Duque, il burattino di Uribe che ora governa la Colombia per conto degli USA, viene definito “l’unico che vuole Maduro vivo: perché lo vuole mettere in galera. E lo vuole mettere in galera perché – udite, udite! – intende rafforzare il suo ideale di un mondo globalizzato nel segno di organizzazioni multilaterali come quella in cui il presidente colombiano ha lavorato da Washington, organizzazioni multilaterali come potrebbe diventare la Corte Penale Internazionale. Duque non solo cerca di mettere in galera un delinquente, ma cerca anche di dare un messaggio forte, ossia che nessun governante può mettersi al di sopra delle leggi internazionali”.
Sprechiamo spazio per questa informazione-spazzatura perché riassume bene, nel metodo e nel merito, la natura e la forma della guerra mediatica scatenata contro il governo bolivariano, e soprattutto contro il suo presidente legittimo, nel corso dell’anno che si conclude: in Venezuela e a livello internazionale. Una campagna di incitamento all’odio e all’omicidio, basata sul discredito e sui paradigmi che sempre hanno motivato le aggressioni imperialiste: attualizzate però a un presente in cui l’essenza dello scontro – la lotta di classe – viene diluita in un gioco di specchi per spingere nel labirinto chi potrebbe determinarne le sorti.
Come fischio d’inizio possiamo individuare la rottura del dialogo tra governo e opposizione, che si stava svolgendo nella Repubblica Dominicana, lo scorso febbraio. Quando il testo dell’accordo era già pronto per essere firmato, il richiamo del padrone – una telefonata dell’amministrazione Trump – ha riportato nel “cortile di casa” Julio Borges e gli altri rappresentanti dell’opposizione. I falchi del Pentagono avevano deciso di adottare la linea dura, questa volta non con le violenze finanziate nel 2017 (le guarimbas), ma con l’accerchiamento internazionale: senza trascurare, però, il colpo di mano, che si sarebbe puntualmente verificato con l’attentato ai droni esplosivi, il 4 agosto.
Una strategia che passava per il disconoscimento, punto per punto, dell’accordo già raggiunto nella Repubblica Dominicana: prima di tutto la data delle elezioni presidenziali, che era stata una delle principali richieste delle destre. Inizialmente fissate per aprile, le presidenziali vengono posticipate al 20 maggio, in un ennesimo gesto unilaterale di buona volontà, deciso dal governo bolivariano. La macchina del fango era però già stata messa in moto, con la complicità di alcuni attori, tanto solerti quanto impresentabili: il Segretario generale dell’OSA, Luis Almagro, alcuni ex presidenti dei paesi neoliberisti dell’America Latina, e i rappresentati di quelle grandi istituzioni internazionali che determinano le decisioni dell’Unione Europea.
A febbraio, il Consiglio Permanente dell’OSA approva una risoluzione contro il Venezuela in cui si evidenziano i termini dell’attacco, i cecchini, i traditori e i contendenti. Il ritornello principale è quello dei “diritti umani”, con cui si cerca di far condannare il Venezuela in tutti gli organismi internazionali. Dalla Colombia, agiscono per questo la ex Procuratrice generale Luisa Ortega, ricercata per corruzione, e il Tribunal Supremo de Justicia autoproclamatosi “in esilio”.
Altro fronte importante e insidioso è quello della cosiddetta crisi umanitaria determinata alle frontiere dai venezuelani che lasciano il paese, una partenza descritta come “un esodo biblico”, e presentata come un fattore di instabilità per i paesi interessati. Per questo, governi che finanziano politiche xenofobe e repressive contro i migranti economici nei loro paesi (dagli Usa all’Europa), diventano improvvisamente filantropi e stanziano a questo fine fiumi di dollari e euro.
Appare evidente il tentativo di creare una situazione di emergenza che giustifichi l’invasione militare e porti alla balcanizzazione del Venezuela, infiammando come già accaduto in precedenza, gli stati della cosiddetta “mezzaluna”. Contemporaneamente, si verifica un’escalation delle sanzioni, motivate con i classici pretesti: narcotraffico, corruzione, e anche finanziamento al terrorismo. Il solerte Almagro –che a dicembre è stato espulso dal suo partito, il Frente Amplio de Uruguay- è di recente arrivato a chiedere un’indagine per verificare se il Venezuela rispetta gli accordi sul nucleare, per ripetere lo schema sulle “armi di distruzione di massa” con cui è stato distrutto l’Iraq.
Vale qui ricordare alcune date. Il 29 gennaio, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, afferma: “La campagna di pressione contro il Venezuela sta dando i suoi frutti. Le sanzioni finanziarie che abbiamo imposto hanno obbligato il governo di quel paese a essere inadempiente, sia rispetto al debito sovrano sia a quello di Pdvsa. E stiamo assistendo a un collasso totale del Venezuela. Quindi la nostra politica funziona, la nostra strategia funziona e la manterremo”.
Il 2 febbraio, vengono ampliate le sanzioni finanziarie contro il Venezuela e le imprese venezuelane. Viene proibita la ristrutturazione del debito estero e quello di Pdvsa decise prima del 25 agosto del 2017. A marzo, 15 pugili venezuelani non possono partecipare alle finali dei Giochi Centroamericani e dei Caraibi perché non si raggiunge un accordo con le agenzie che aumentano smisuratamente il prezzo dei biglietti (da 300 a 2.100 dollari a persona), e anche perché, nonostante la disponibilità di una impresa privata a trasportare con un charter gli atleti, Colombia, Panama e Messico ne proibiscono il passaggio nel proprio spazio aereo.
Il 2 marzo, gli USA rinnovano per un anno il decreto 13692 (con cui Obama aveva definito il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”) e il decreto 13808 emesso da Trump, che stabilisce nuove misure coercitive contro la stabilità finanziaria del Venezuela. L’Ufficio per i delitti finanziari degli Stati Uniti (FinCen) avverte le istituzioni finanziarie globali che le transazioni con istituzioni pubbliche venezuelane verranno indagate per corruzione. Un’accusa – infondata e non provata – che ha l’obiettivo di limitare il pagamento alle compagnie alimentari e farmaceutiche per bloccare l’importazione di questi prodotti. E così vengono congelati 1.650 milioni di dollari dello Stato venezuelano diretti al pagamento di beni importati.
Il 19 marzo, Trump firma l’ordine esecutivo 13827 che proibisce a tutti i cittadini e alle istituzioni di realizzare transazioni finanziarie con la criptomoneta venezuelana Petro, prima che questa venga commercializzata nel mercato delle criptomonete. Una decisione unica nel suo genere. Il 27 marzo, il governo di Panama (paese dei paradisi fiscali…) pubblica una lista di 16 compagnie venezuelane accusate (senza prove) di lavare denaro sporco e di finanziare il terrorismo.
Il 19 aprile, Steven Mnuchin, Segretario del Tesoro statunitense, si riunisce con i rappresentanti di Argentina, Brasile, Canada, Colombia, Francia, Germania, Guatemala, Spagna, Italia, Giappone, Messico, Panama, Paraguay, Perù e Regno Unito, per “esigere azioni concrete atte a restringere la capacità dei funzionari venezuelani corrotti e delle loro reti di appoggio”. L’obiettivo è quello di bloccare finanziariamente il Venezuela, il cui presidente – dice l’amministrazione Usa – non ha la legittimità per chiedere crediti a nome del suo paese. A maggio vengono congelati 9 milioni di dollari, destinati dallo Stato venezuelano al trattamento dei pazienti in dialisi. Nello stesso mese, Banca Intesa San Paolo blocca il denaro per il padiglione venezuelano alla XVI Biennale di Architettura di Venezia.
Il 21 maggio, dopo l’elezione alla presidenza di Nicolas Maduro per un secondo mandato e la nuova vittoria del chavismo, Trump rincara la dose: proibisce ai cittadini statunitensi e alle imprese di acquistare proprietà appartenenti al governo bolivariano in territorio Usa. Il 25 giugno, il Consiglio Europeo approva la risoluzione 2018/901 che sanziona i membri dell’amministrazione venezuelana, inclusi quelli che operano nel settore alimentare, in linea con quella Usa del 9 novembre 2017, tesa a impedire l’acquisto di alimenti da parte del governo bolivariano.
L’11 novembre, Trump firma un nuovo decreto che autorizza il Dipartimento del Tesoro a confiscare le proprietà di quegli operatori del settore aurifero che agiscano in Venezuela, senza che vi siano accuse di illeciti. L’obiettivo è quello di impedire che l’arco minerario dell’Orinoco, dov’è custodita la seconda riserva di oro al mondo, serva al recupero dell’economia venezuelana.
Con la consueta cinica ipocrisia da parte di un governo che promuove il fracking e calpesta ogni giorno i diritti delle minoranze, il sottosegretario al Tesoro statunitense Marshall Billingslea, dice che, anziché protestare per questa misura, “bisognerebbe indignarsi per il danno causato all’ambiente e ai popoli indigeni”. L’11 settembre, la Banca Centrale del Regno Unito rifiuta di restituire al Venezuela 14 tonnellate di oro, sottraendo così al paese l’equivalente di 550 milioni di dollari: con l’arrogante movitazione coloniale che un “governo corrotto e narcotrafficante” potrebbe farne un uso improprio.
A dicembre, Maduro denuncia alla stampa internazionale un dettagliato piano, ideato dall’Assessore alla sicurezza USA, John Bolton, per assassinarlo, e mostra campi di addestramento mercenari allestiti in Colombia. Bolton, uno dei falchi del Pentagono, ha promesso più volte di voler cancellare la “troika dei governi dittatoriali di Cuba, Venezuela e Nicaragua”.
Da una parte le forze reazionarie, che cercano di impedire l’assunzione d’incarico di Maduro, il 10 gennaio, dall’altra le forze del potere popolare, che si sono manifestate per tutto l’anno nei vari congressi realizzati da tutti i settori in Venezuela: donne, operai, studenti, giovani, contadini, popoli indigeni… Una maturità dimostrata nel IV Congresso del PSUV, che ha messo al centro il rilancio politico, teorico, ideale della militanza bolivariana, e anche l’organizzazione della solidarietà internazionale.
A concludere l’anno (e in risposta alle critiche di quanti, nel Gran Polo Patriotico temono una deriva moderata del processo bolivariano), è arrivata l’occupazione della fabbrica di pneumatici Goodyear da parte degli operai, accompagnati dal ministro per il Processo sociale del Lavoro, Eduardo Piñate. La multinazionale aveva chiuso la sede di Valencia (nello Stato Carabobo) lo scorso 10 dicembre, ma la vicenda ha avuto un esito opposto a quello che avrebbe avuto in un paese capitalista d’Europa.
Di questo, però, la grande stampa mondiale non darà notizia, così come si è guardata bene dal diffondere una sentenza con la quale, pochi giorni fa, il quotidiano di opposizione El Nacional è stato obbligato a scusarsi con il presidente dell’Assemblea Nacional Constituyente, Diosdado Cabello, ingiustamente calunniato come “narcotrafficante”.
Insieme a Maduro, Cabello è intervenuto al Congreso bolivariano de los pueblos, mostrando quali siano i soggetti che accompagnano e sostengono il processo bolivariano nonostante i suoi inevitabili limiti, gli errori e le stanchezze. “Oggi – ha affermato Diosdado – possiamo dire al mondo che la rivoluzione si rafforza ogni giorno di più nel cuore del popolo”.
Quest’anno, il Venezuela ha raggiunto la meta di 3.000 comunas. E saranno proprio i comuneros che organizzeranno presto un congresso protettivo contro la corruzione e le ingerenze, negli Stati frontalieri di Tachira, Merida, Zulia, Amazonas e Bolivar.