Discorso del Comandante in Capo Fidel Castro Ruz, Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba e Presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri, in occasione del quaranta anniversario del trionfo della Rivoluzione, al Parco Céspedes, Santiago de Cuba, il 1 gennaio 1999, “Anno del 40 anniversario del trionfo della Rivoluzione”
Compatrioti di tutta Cuba,Cerco di ricordare quella sera del Primo Gennaio 1959; riproduco e percepisco ancora una volta le impressioni e i particolari come se tutto accadesse in questo momento. Sembra irreale che il destino ci abbia concesso lo strano privilegio di tornare a parlare al popolo di Santiago de Cuba da questo stesso posto dopo quarant’ anni.
Prima dell’alba di quel giorno, quando ci è arrivata la notizia della fuga del tirano e dei principali capi del suo infame regime dinanzi all’avanzata delle nostre forze, ho avuto per alcuni secondi una strana sensazione di vuoto. Come era stata possibile quell’incredibile vittoria in poco più di 24 mesi dal momento in cui siamo riusciti a procurarci sette fucili – il 18 dicembre 1956, dopo la durissima sconfitta che praticamente annichilì il nostro distaccamento – per riprendere la lotta contro un insieme di forze militari che contava 80 000 uomini sulle armi, migliaia di capi formati militarmente nelle accademie, con un’alta morale e attraenti privilegi, con un indiscusso mito d’invincibilità, la consulenza infallibile e il rifornimento sicuro degli Stati Uniti? Le idee giuste, che un coraggioso popolo fece sue, operarono il miracolo militare e politico. I tentativi successivi, inutili e ridicoli, di salvare quel che rimaneva del sistema sfruttatore e oppressivo, furono spazzate via dall’Esercito Ribelle, i lavoratori e il resto del popolo in 24 ore.
La nostra fugace tristezza nella vittoria era motivata dalla nostalgia dell’esperienza vissuta, dal ricordo recente dei compagni caduti durante la lotta, dalla piena consapevolezza che quei anni così straordinariamente difficili e avversi ci avevano costretto ad essere migliori di quello che eravamo, diventandone i più proficui e creativi delle nostre vite. Dovevamo abbandonare le nostre montagne, le nostre campagne, le nostre abitudini di assoluta e obbligata austerità, la nostra vita tesa, di perenne sorveglianza sul nemico che poteva arrivare, per terra o per aria, in qualunque momento dei 761 giorni che è durata la guerra; la vita sana, dura, pura e di grandi sacrifici e pericoli condivisi che affratella gli uomini e fa fiorire le loro migliori virtù, l’infinito spirito di rinuncia, disinteresse ed altruismo che ogni essere umano può avere in sé.
L’enorme differenza nei confronti dei mezzi e delle forze tra il nemico e noi ci costrinse a fare l’impossibile. Basta dire che con fucili e mine anticarri vincemmo la guerra, lottando in ogni intervento importante contro l’artiglieria, i blindati e, soprattutto, contro l’aviazione nemica, sempre presente d’immediato in ogni azione di guerra.
I fucili e le altre armi semiautomatiche e automatiche di fanteria leggera erano quelle strappate al nemico durante il combattimento, e l’esplosivo per produrre in rudimentali officine le mine contro i blindati e contro la fanteria di scorta proveniva dalla pioggia di bombe lanciate contro di noi, alcune delle quali non scoppiavano. La tattica infallibile di attaccare il nemico in movimento fu un fattore chiave. L’arte di farlo spostarsi dalle sue ben fortificate e in genere invulnerabili posizioni, diventò una delle maggiori abilità dei nostri comandi.
Le unità nemiche di operazioni o le loro guarnigioni erano accerchiate, distrutti i rinforzi, e costrette ad arrendersi per fame e sete sotto il fuoco continuo dei nostri tiratori che, giorno dopo giorno, stringevano l’accerchiamento senza attacchi frontali, costosi in vite, giacché non avevano i mezzi e le armi giuste. Ciò ch’era stato imparato nelle montagne e nei boschi finì per applicarsi nella pianura, accanto alle strade pavimentate, all’ombra delle piantagioni di agrumi, degli alberi da frutta e persino delle piantagioni di canna da zucchero che servivano da mascheramento alle truppe – di solito inesperte a causa dell’accelerata crescita delle nostre file a mano a mano che si occupavano le armi, anche se guidati sempre dai più esperti – per assestare i colpi di sorpresa ai rinforzi. Alla fine si applicò lo stesso metodo nelle città, isolando le diverse posizioni della guarnigione.
Così, in solo tre giorni, fu occupata la città di Palma Soriano, e in questo modo fu concepito il piano di attaccare e di annientare la guarnigione di 5 000 uomini della piazza forte di Santiago de Cuba con 1 200 combattenti ribelli. Attraverso la baia di Santiago erano già entrate cento armi, di quelle occupate a Palma, per iniziare la sollevazione, cinque giorni dopo l’inizio delle operazioni che porterebbero all’accerchiamento successivo dei quattro battaglioni che difendevano la periferia. Lascio perdere i particolari più precisi dell’idea concepita. Voglio dire soltanto che c’era un combattente ribelle per ogni quattro soldati nemici. Non avevamo mai contato su una correlazione di forze più favorevole.
A Guisa, a pochi chilometri da Bayamo, si iniziarono i combattimenti con 180 uomini, che dovettero lottare contro i rinforzi inviati per una strada pavimentata e altre vie da quella città dove si trovava il comando dell’esercito nemico e migliaia dei suoi migliori soldati appoggiati da carri armati pesanti. Dopo undici giorni di duri combattimenti, durante i quali le nostre forze aumentarono grazie alle armi che venivano occupate e ad alcuni piccoli rinforzi, il 30 novembre 1958, Guisa cadde nelle le nostre mani.
Questa battaglia fu un’altra dimostrazione della straordinaria combattività acquisita dai nostri soldati e della loro prestezza. Cinque mesi prima, nel mese di giugno dello stesso anno, il nemico aveva lanciato l’ultima e apparentemente imbattibile offensiva contro il Comando Generale di La Plata, alla Sierra Maestra. Ma allora non eravamo più gli inesperti soldati sbarcati il 2 dicembre 1956. Non eravamo neanche tanto numerosi. La difesa ebbe inizio con 170 uomini circa. Quattro settimane più tardi, riunite le truppe, ancora molto ridotte, di Che, Camilo, Ramiro e Almeida, che ricevettero istruzioni previe di spostarsi verso le posizioni della Colonna 1, obiettivo strategico dell’offensiva nemica – ciò vuol dire tutte le nostre colonne tranne le forze del Secondo Fronte Orientale, capeggiate da Raúl, che erano molto distante dalle montagne del nordovest per appoggiare il nostro fronte – avevamo già 300 combattenti circa. Centinaia di giovani volontari senza armi si addestravano alla scuola di recluti di Minas del Frio.
Dopo 74 giorni d’intensi combattimenti, i battaglioni nemici subirono circa un migliaio di perdite tra soldati morti, feriti e prigionieri, di cui oltre 440 prigionieri rimasero nelle nostri mani e furono restituiti pochi giorni dopo tramite la Croce Rossa Internazionale. Scrivo quello che ricordo. Forse gli storici potranno precisare meglio questi dati a partire dai documenti nostri che si conservano e quelli successivamente ritrovati negli archivi nemici. Posso comunque affermare che furono occupate oltre 500 armi che erano consegnate agli allievi della scuola a mano a mano che venivano strappate ai nemici, in questo modo e conclusi i combattimenti, senza perdere tempo, le colonne ribelli, contando solo 900 uomini armati che avanzavano in diverse direzioni, invasero il territorio dominato dal nemico fino al centro del Paese, tranne la vasta regione orientale già controllata fermamente dal Secondo Fronte Orientale Frank País, e crearono i nuovi fronti di guerra che si svilupparono subito. Io rimasi al posto di comando con pochi uomini. Fu durante quelle operazioni che Che e Camilo, con 140 uomini circa il primo -secondo i miei ricordi e senza consultare alcun documento- e 100 uomini circa il secondo, eseguirono una delle più grosse prodezze delle varie che ne ho conosciuto nei libri di storia; andare avanti per più di 400 km dalla Sierra Maestra, dopo un uragano, fino all’Escambray, per terreni bassi e paludi infestate da zanzare e soldati nemici, sotto continua sorveglianza aerea, senza guida, senza alimenti né appoggio logistico dal nostro movimento clandestino, scarsamente organizzato nella zona del loro lungo tragitto. Eludendo gli assedi, gli agguati, le linee successive di rinforzo, i bombardamenti, arrivarono alla loro meta. Era tanta la nostra fiducia nei combattenti che sconfissero l’offensiva nemica; e la cosa più importante era l’infinita fiducia in loro stessi e nei loro mitici capi. Erano uomini di ferro. Raccomando ai giovani di leggere e rileggere i bei racconti contenuti nei Passaggi della guerra rivoluzionaria, scritti dal Che.
E adesso, giacché senza volerlo sono immerso in queste riflessioni sulle nostre lotte nella Sierra, per completare la storia degli avvenimenti che mi portarono a questa cara città quel Primo Gennaio, il cui quaranta anniversario commemoriamo oggi, vi dirò che l’11 novembre io partii da La Plata con 30 uomini armati e 1 000 reclute disarmati.
Quei coraggiosi e abnegati giovani erano più allenati nella fame, nei bombardamenti e in ogni tipo di carenza che nelle armi, giacché non c’era mai un proiettile disponibile per l’addestramento in tiro reale. Arrivavano in ondate entusiaste alla scuola, provenienti da tutti i luoghi; ma allora solo uno su dieci poteva sopportare quelle condizioni. Loro nutrivano le nostre file, erano più temerari dei nostri vecchi combattenti. Ispirati già alle tradizioni e alle storie che sentivano, volevano realizzare in un giorno quello che altri avevano fatto in anni.
Incorporando delle piccole unità ribelle lungo la marcia, e in aggiunta le armi di due plotoni dell’esercito nemico che passarono alle nostre file, convinti dall’allora comandante Quevedo che fu il nostro degno e coraggioso avversario nel combattimento del Jigue e con cui avevamo convenuto che non combatterebbe contro i suoi antichi compagni di armi, la nostra lunga colonna raggruppò un’avanguardia di 180 uomini con armi da guerra. A Guisa, Baire, Jiguaní, Maffo e Palma Soriano, scenari di numerose azioni, già con l’appoggio di altre forze che aderivano a mano a mano che andavamo avanti, i giovani recluti realizzavano i loro sogni di lotta. Coprendo a volte le perdite causate dalla morte, la ferita o la malattia di altri combattenti già equipaggiati e con le armi occupate, stimo circa 700 armi occupate a Palma, tutti i recluti che sei settimane prima partirono con me da La Plata erano già armati e costituivano una formidabile truppa. Soltanto a Palma furono occupate 350 armi.
Devo dire che non tutte le armi che aiutarono a trasformare in soldati di prima linea i giovani della nostra scuola di Minas del Frio, furono risultato esclusivo dei nostri trofei. A metà dicembre ricevemmo quello che a mio giudizio fu il più pregiato aiuto in armi proveniente dall’estero: 150 fucili semiautomatici e un FAL automatico per me, inviati in nome del popolo venezuelano dal controammiraglio Larrazábal e dalla Giunta Rivoluzionaria che era salita al potere nel Venezuela alcuni mesi prima della vittoria cubana. Ovviamente le suddette armi entrarono subito in azione e furono utilizzate nei combattimenti di Jiguaní, Maffo e Palma Soriano.
Per questo motivo, quando caddero nel nostro potere Palma e Maffo, le armi non solo bastavano, anzi, ne avanzavano per equipaggiare i combattenti disarmati, in questo modo potemmo inviare per la sollevazione di Santiago le 100 armi prima riportate ed un numero importante a Belarmino Castilla, con istruzioni di bloccare la ritirata del battaglione situato a Mayarí.
Siccome ho parlato dell’aiuto venezuelano, devo dire che nella nostra lotta rivoluzionaria non abbiamo ricevuto fornitura di arme né di proiettili dall’estero, tranne in scarsi e determinati casi, di cui il più numeroso, quasi tanto quanto gli altri che ricordo ovvero ne ho sentito parlare, è stato quello del Venezuela. Oltre il 90% delle armi e dei proiettili con i quali abbiamo fatto e vinto la guerra, furono strappati al nemico durante il combattimento. Erano soltanto alcune migliaia, ma per un principio inviolabile tutte erano sempre in prima fila.
Durante tutto l’anno appena trascorso, sono stati commemorati i fatti che ho evocato soltanto in parte molto ridotta.
Onore e gloria eterna, rispetto infinito e affetto per tutti quelli che morirono allora per rendere possibile l’indipendenza definitiva della patria; per tutti quelli che scrissero quell’epopea nelle montagne, nelle campagne e nelle città, guerriglieri o combattenti clandestini, per quelli che dopo la vittoria morirono in altre missioni gloriose o sacrificarono lealmente la loro gioventù e le loro energie in favore della causa della giustizia, la sovranità e la redenzione del loro popolo, per quelli già morti e per quelli che ancora vivono, perché se quel Primo Gennaio fu possibile parlare della vittoria raggiunta dopo cinque anni, cinque mesi e cinque giorni dal 26 luglio 1953, in questo anniversario occorre parlare, prendendo lo stesso punto di partenza, di una lotta eroica e ammirevole di 45 anni, cinque mesi e cinque giorni. (Applausi)
Ancora oggi, per le generazioni più giovani, la Rivoluzione appena comincia. Un giorno come il presente non avrebbe senso se non si parla per esse.
Chi sono i presenti?. Nella stragrande maggioranza non sono gli stessi uomini, donne e giovani di quel giorno. Il popolo al quale mi rivolgo non è il popolo di quel Primo Gennaio. Non sono gli stessi uomini e donne. E’ un popolo diverso e allo stesso tempo il medesimo eterno popolo.
Chi vi parla da questa tribuna non è neanche lui lo stesso uomo di quel giorno. E’ soltanto qualcuno molto meno giovane, che ha lo stesso nome, che la pensa come allora, che ha gli stessi sogni di allora. (Applausi)
Degli 11 142 700 abitanti che costituiscono l’attuale popolazione del Paese, 7 190 400 non erano ancora nati; 1 359 698 avevano meno di 10 anni; la stragrande maggioranza di coloro che avevano allora 50 anni e che adesso ne avrebbero minimo 90 – anche se sono sempre più numerosi quelli che superano questa età- sono deceduti.
Il 30% di quei compatrioti non sapevano leggere né scrivere; penso che forse altro 60% non aveva superato la scuola elementare. C’erano soltanto alcune decine di scuole tecniche, licei, non tutti accessibili al popolo, e alcuni centri per la formazione d’insegnanti, tre università pubbliche ed una privata. Professori ed insegnanti, 22 000. Forse il 5 % degli adulti, cioè, più o meno 250 000 persone, avrebbero potuto superare la scuola elementare?.
Ci sono alcuni dati che non ricordo.
Oggi, ci sono oltre 250 000 insegnanti con un livello molto più alto e professori in carica; 64 000 medici; 600 000 laureati. Non esiste un’analfabeta, è stranissimo che qualcuno non abbia superato la scuola elementare. La scuola dell’obbligo arriva fino alla media inferiore; tutti quelli che raggiungono tale livello, senza eccezione, possono continuare gratuitamente la media superiore. Non occorre far ricorso ai dati assolutamente precisi. Ci sono dei fatti che nessuno osa negare. Siamo oggi, con orgoglio, il Paese del mondo con il maggior tasso procapite d’insegnanti, medici e professori di educazione fisica e sport, e con il minor tasso di mortalità infantile e materna tra i Paesi del Terzo Mondo.
Non intendo, tuttavia, parlare di questi e di tanti altri progressi sociali. Ci sono delle cose molto più importanti. L’assoluta realtà è che non esiste possibilità di paragone tra il popolo di oggi e quello di ieri.
Il popolo di ieri, analfabeta e semianalfabeta, senza appena una vera e minima cultura politica, fu in grado di fare la Rivoluzione, di difendere la patria, di raggiungere dopo una straordinaria coscienza politica ed avviare un processo rivoluzionario che non ha paragone in questo emisfero né al mondo. Lo dico non per ridicolo spirito sciovinista, o con l’assurda pretesa di pensare che siamo meglio degli altri; lo dico perché la Rivoluzione che nasceva quel Primo Gennaio, volle la fortuna o il destino che fosse sottomessa alla più dura prova subita da qualunque altro processo rivoluzionario al mondo.
Il nostro eroico popolo di ieri e di oggi, il nostro eterno popolo, con la partecipazione di tre generazioni ormai, ha resistito per 40 anni alle aggressioni, al blocco, alla guerra economica, politica e ideologica della più forte e ricca potenza imperialista che sia mai esistita nella storia del mondo. La sua più straordinaria pagina di gloria e fermezza patriottica e rivoluzionaria è stata scritta in questi anni di periodo speciale, quando siamo rimasti assolutamente soli in mezzo all’ Occidente, a 90 miglia dagli Stati Uniti, e abbiamo deciso di continuare avanti.
Il nostro popolo non è migliore degli altri; la sua immensa grandezza storica deriva dal fatto singolare di essere stato sottomesso a questa prova e di essere stato capace di resistere. Non si tratta di un grande popolo per sè stesso, ma di un popolo innalzato da sè stesso, e la sua capacità di farlo nasce dalla grandezza delle idee e della giustezza delle cause che difende. Non ce ne sono altre simili; non ce ne sono mai state. Oggi, non si tratta di difendere con egoismo una causa nazionale; una causa esclusivamente nazionale nel mondo di oggi, non può essere per sé stessa una grande causa; il nostro mondo, come conseguenza del proprio sviluppo ed evoluzione storica, si globalizza in modo veloce, incontenibile ed irreversibile. Senza tralasciare l’identità nazionale e culturale, e persino gli interessi legittimi dei popoli dei singoli Paesi, nessuna causa è più importante delle cause globali, cioè, la propria causa dell’umanità.
Non è neanche colpa nostra né merito nostro che per il popolo di oggi e di domani la lotta avviatasi il Primo Gennaio deva trasformarsi necessariamente in una lotta a fianco degli altri popoli in favore di tutta l’umanità. Nessun popolo da solo, anche se è vasto e ricco -ancora meno se è mediano o piccolo- può risolvere da sè i propri problemi. Soltanto a causa di visione stretta, di miopia o cecità politica, o di assenza totale di preoccupazione e sensibilità nei confronti dell’avvenire umano, si può negare tale realtà.
Ma le soluzioni per l’umanità non nasceranno dalla buona volontà di coloro che oggi s’impadroniscono del mondo e lo sfruttano, anche se essi non possono sognare o concepire altro che il carattere perenne di quello che per loro costituisce il paradiso e un inferno per il resto dell’umanità; inferno reale e senza possibile rimedio.
L’ordine economico prevalente oggi sul pianeta inevitabilmente crollerà. Questo potrebbe capirlo anche un allievo che sappia sommare, restare, moltiplicare e dividere sufficientemente per superare l’esame di matematica.
Molti appellano all’infantile ricorso di chiamare scettici a coloro che affrontano tali argomenti. Non mancano persino quelli che sognano di stabilire colonie sulla Luna o sul pianeta Marte. Non critico loro di sognare. Forse, se ci riescono, quello sarà il posto dove alcuni potranno rifugiarsi, se non si ferma la brutale e crescente aggressione contro il pianeta in cui abitiamo.
Il sistema attuale è insostenibile, perché si basa su leggi cieche, caotiche, disastrose e distruttive della società e della natura.
Gli stessi teorici della globalizzazione neoliberista, i migliori accademici, relatori e difensori del sistema, si mostrano incerti, vacillanti, contraddittori. Ci sono migliaia d’interrogativi che non trovano risposta. E’ipocrita affermare che la libertà dell’uomo e l’assoluta libertà del mercato sono concetti inseparabili, come se le leggi di quest’ultimo, che hanno generato i sistemi sociali più egoisti, disuguali e spietati conosciuti dall’uomo, fossero compatibili con la libertà dell’essere umano, cui il sistema trasforma in una semplice merce.
Sarebbe molto più giusto dire che senza uguaglianza e fraternità, che furono le sacrosante divise della propria rivoluzione borghese, non ci sarà mai libertà, e che l’uguaglianza e la fraternità sono assolutamente incompatibili con le leggi del mercato.
Le decine di milioni di bambini costretti nel mondo a lavorare, prostituirsi, fornire organi, vendere droghe per sopravvivere; le centinaia di milioni di persone senza impiego, la povertà critica, il traffico di droga, d’immigranti, di organi umani, come il colonialismo ieri e la sua drammatica sequela attuale di sottosviluppo, nonché tutte le calamità sociali che esistono nel mondo di oggi, sono state generate dai sistemi fondati su tali leggi. Non è possibile dimenticare che la lotta per i mercati diede origine alla spaventosa macelleria delle due guerre mondiali del presente secolo.
Non si può nemmeno ignorare che i principi del mercato fanno parte inseparabile dello sviluppo storico dell’umanità, ma qualunque uomo ragionevole ha tutto il diritto di rifiutare la pretesa eternità di tali principi di tipo sociale come base dell’ulteriore sviluppo della specie umana.
I più fanatici difensori e credenti del mercato l’hanno finalmente trasformato in una nuova religione. Nasce così la teologia del mercato. I suoi accademici, piuttosto che scienziati, sono teologi; per loro si tratta di una questione di fede. Per rispetto alle vere religioni onestamente praticate da migliaia di milioni di persone nel mondo e ai veri teologi, potremmo semplicemente aggiungere che la teologia del mercato è settaria, fondamentalista e antiecumenica.
Per molti altri motivi, l’ordine mondiale attuale è insostenibile. Un biotecnologo direbbe che nella sua mappa genetica vi sono molti geni che lo conducono alla propria distruzione.
Nuovi e insospettati fenomeni nascono e sfuggono al controllo dei governi e degli enti finanziari internazionali. Non si tratta soltanto della creazione artificiale di favolose ricchezze senza alcun rapporto con l’economia reale. Tale è il caso di centinaia di nuovi multimilionari che nascono durante la moltiplicazione negli ultimi anni del prezzo delle azioni delle borse di valori negli Stati Uniti, come un gigantesco pallone che si gonfia fino all’assurdità con grave rischio che prima o poi scoppi. E’ già successo nel 1929, provocando una profonda depressione che è durata tutta una decade.
In agosto del presente anno, la semplice crisi finanziaria della Russia, che produce solo il 2% del Prodotto Interno Lordo del mondo, ha fatto abbassare di 512 punti il Dow Jones, l’indice distintivo della borsa di valori di New York, in un giorno. Si è propagato il panico, minacciando di originare un Sudeste Asiatico nell’America Latina e con ciò il grande rischio per l’economia americana. Con molta difficoltà sono riusciti a frenare finora questa catastrofe. Tali azioni quotate in borsa comprendono i risparmi e i fondi di pensioni del 50% degli americani. In occasione della crisi del 1929 è stato colpito solo il 5% e comunque ci sono stati numerosi suicidi.
Nel mondo globalizzato, quello che avviene in qualsiasi luogo si ripercuote immediatamente nel resto del pianeta. Recentemente c’è stata un grosso spavento. Le risorse dei paesi più ricchi del mondo, convocati dagli Stati Uniti, si sono mobilitati per fermare o attenuare l’incendio. Ciò nonostante, si vuole mantenere la Russia sull’orlo dell’abisso e al Brasile gli si esigono delle condizioni innecessariamente dure. Il Fondo Monetario Internazionale non si allontana nemmeno un millimetro dai propri principi fondamentalisti. La Banca Mondiale si ribella e denuncia.
Tutti parlano di una crisi finanziaria internazionale, gli unici che non ne sono consapevoli sono i cittadini americani: hanno speso più che mai e le loro economie sono sotto zero. Non importa, le multinazionali investono i soldi altrui. Non importa neanche il crescente deficit commerciale che raggiunge ormai i 240 000 milioni. Privilegi dell’impero che stampa la moneta di riserva del mondo. Nei buoni della propria Tesoreria si rifugiano in massa gli speculatori quando c’è crisi. Siccome il mercato interno è grande e ci si spende di più, l’economia sembra trovarsi bene, anche se i profitti delle corporazioni sono stati ridotti. Megafusioni, euforia: risalgono i prezzi delle azioni. Ancora una volta si gioca alla roulette russa. Tutto continuerà eternamente bene. I teorici del sistema hanno scoperto la pietra filosofale. Tutti gli accessi sono bloccati per evitare l’entrata di fantasmi che tolgano il sogno. Ormai non è impossibile rendere quadrato il circolo. Non ci sarà mai crisi.
Ma è forse il pallone che si gonfia l’unica minaccia e l’unico gioco speculativo? Un fenomeno che ogni giorno acquista dimensioni favolose e incontrollabili è quello delle operazioni speculative con le monete: minimo mille miliardi di dollari ogni giorno. Alcuni affermano che 1,5 migliaia di miliardi. Appena quattordici anni fa era solo di 150 000 milioni in un anno. Possibile confusione con le cifre. E’ difficile esprimerle, e ancora peggio tradurle dall’inglese allo spagnolo. Quello che in spagnolo viene chiamato “billón” -un milione di milioni- , (cioè mille miliardi n. d. t.) in inglese significa trilione. D’altra parte il bilione in inglese significa 1 000 milioni (un miliardo in it. n.d.t.). Adesso viene inventato il “migliardo” (fino a poco tempo fa nella lingua spagnola non esisteva tale termine equivalente al miliardo in it. n.d.t.) , che significa 1 000 milioni sia in spagnolo che in inglese. Queste problemi della lingua dimostrano la difficoltà di seguire e di capire le favolose cifre che riflettono il livello di speculazione nell’attuale ordine economico mondiale. Per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo ciò significa il rischio perenne di rovina. Dinanzi alla più piccola trascuratezza, gli speculatori svalutano la moneta di qualunque di essi, e in pochi giorni liquidano le loro riserve in valuta, accumulate forse durante decine di anni. L’ordine mondiale ne ha creato le condizioni. Nessuno, assolutamente, è né può essere sicuro. I lupi, raggruppati in branco e appoggiati da programmi computerizzati, sanno dove, quando e perché attaccare.
Un Premio Nobel di Economia propose 14 anni fa, quando tali speculazioni erano duemila volte minori, un’imposta dell’1% per ogni operazione speculativa di questo tipo. Oggi l’importo di quell’1% basterebbe per sviluppare tutti i paesi del Terzo Mondo. Sarebbe una forma di regolazione e freno a questa nociva speculazione. Ma, regolare?. Questo va contro la più pura dottrina fondamentalista. Ci sono parole che non possono essere pronunciate nel tempio dei fanatici dell’ordine mondiale imposto. Esempi: regolazione, impresa pubblica, programma di sviluppo economico, qualunque forma di pianificazione anche minima, partecipazione o influenza dello Stato sul settore economica. Tutto questo disturba l’idillico sogno del paradiso del mercato libero e dell’impresa privata. Tutto deve essere sregolato, anche il mercato della forza lavoro. L’aiuto ai disoccupati deve essere ridotto al minimo indispensabile per non sostenere “fannulloni” e “lazzaroni”; il sistema di pensioni deve essere ristrutturato e privatizzato. Lo Stato deve occuparsi soltanto della Polizia e dell’Esercito, per mantenere l’ordine, reprimere le proteste e fare la guerra. Non è nemmeno ammissibile che partecipi alle politiche monetarie della Banca Centrale. Lo Stato dev’essere assolutamente indipendente. Luigi XIV avrebbe sofferto molto perché se lui disse “Lo Stato sono Io”, adesso dovrebbe aggiungere: “Non sono assolutamente nulla”.
Al di là dell’incredibile speculazione con le monete, aumentano in modo accelerato e impensabile i cosiddetti fondi di copertura e il mercato dei derivati, un’altra paroletta abbastanza nuova. Non cercherò di spiegarlo. E’ complicato. Ci vuole tempo. Basta dirvi che si tratta di un sistema addizionale di giochi speculativi, un altro enorme casinò dove si scommette tutto e di tutto, basato sui sofisticati calcoli dei rischi servendosi di computer, programmatori di alto livello ed eminenti economisti. Sfruttano l’incertezza e si servono dei soldi di quelli che hanno dei risparmi presso le banche; non hanno quasi nessuna restrizione, ottengono grossi profitti e possono creare catastrofi.
Che l’attuale ordine economico è insostenibile lo dimostra la propria vulnerabilità e debolezza del sistema, che ha trasformato il pianeta in un gigantesco casinò, milioni di cittadini e, a volte, intere società in giocatori di azzardo, trasformando, in sostanza, la funzione del denaro e degli investimenti, giacché essi cercano a qualunque prezzo non la produzione né l’aumento delle ricchezze del mondo, ma guadagnare denaro con denaro. Una tale deformazione condurrà l’economia mondiale ad un inevitabile disastro.
Un fatto recente, avvenuto negli Stati Uniti, è stato motivo di scandalo e di profonda preoccupazione. Uno dei suddetti fondi di copertura che ho cercato di spiegare, proprio il più famoso degli Stati Uniti, il cui nome tradotto in spagnolo sarebbe Amministrazione di Capitale a Lungo Termine, e che conta due Premi Nobel di Economia e vari dei migliori programmatori del mondo, nonché guadagni annui superiori al 30%, è stato sull’orlo di un fallimento le cui conseguenze sarebbero state, apparentemente, incalcolabili.
Sulla base del prestigio acquisito e ciecamente affidati all’infallibilità dei suoi famosi programmatori e dei propri Premi Nobel di Economia, con un fondo proprio di solo 4 500 milioni di dollari, mobilitò fondi di 75 banche diverse, pari a 120 000 milioni di dollari, per le proprie operazioni speculative, cioè, ottenne in prestito oltre 25 dollari per ogni dollaro del fondo. Una tale procedura faceva crollare tutti i parametri e le ipotetiche pratiche finanziarie. I calcoli e i programmi fallirono. Le perdite furono notevoli; il fallimento, parola drammatica in questa sfera, era inevitabile, ne mancavano solo pochi giorni. Il Sistema della Riserva Federale degli Stati Uniti accorse a salvare il fondo di copertura. Ciò era in contraddizione con tutto quello che predicano gli Stati Uniti e sostiene la filosofia neoliberista, a partire da un atteggiamento ritenuto irresponsabile in un ente di questo genere. Secondo i principi stabiliti, il famoso fondo di protezione avrebbe dovuto rovinarsi e in questo modo la legge del mercato avrebbe dato una lezione imponendo il correttivo pertinente. Avvenne lo scandalo. Il Senato diede appuntamento a Greenspan, Direttore del Sistema della Riserva Federale; fu chiamato a dichiarare. Questo alto funzionario, nato da Wall Street, è considerato uno dei più esperti ed eminenti responsabili dell’economia degli Stati Uniti, e gli si attribuisce il merito principale dei successi economici dell’attuale Amministrazione, e in questi momenti riceve l’omaggio speciale dai circoli finanziari e dalla stampa per essere stato l’uomo che ha frenato la crisi nella borsa degli Stati Uniti, facendo abbassare tre volte di seguito il tasso d’interesse. Dopo il Presidente, è considerata la persona più importante del Paese. Ebbene, questo famoso e rinomato Direttore dichiarò al Senato che, se non salvava il fondo, sarebbe successa una catastrofe economica che avrebbe colpito gli Stati Uniti e tutto il mondo.
Qual’è la solidità di un ordine economico dove l’azione, qualificata di avventuriera ed irresponsabile, di un ente speculativo che disponeva di 4 500 milioni di dollari, può portare gli Stati Uniti e il mondo verso una catastrofe economica?.
Quando si osserva una tale debolezza ed insufficienza immunologica del sistema, potrebbe essere diagnosticata una malattia molto simile all’AIDS.
Non voglio utilizzare in questa occasione più argomenti. Esistono tanti altri problemi nell’economia mondiale. L’ordine prevalente si dibatte tra l’inflazione, la recessione, la deflazione, le eventuali crisi di superproduzione, il calo sostenuto dei prodotti basici. Paesi immensamente ricchi come l’Arabia Saudita hanno già un deficit commerciali e del budget, anche se esportano 8 milioni di barili di petrolio al giorno. Le previsioni ottimiste della crescita si sfumano. Non c’è la minore idea su come verranno risolti i problemi del Terzo Mondo. Su quali beni di capitale, tecnologie, reti di distribuzione, crediti all’esportazione, contano per cercare mercati, competere ed esportare? Dove stanno i consumatori dei loro prodotti? Come si cercheranno le risorse per la sanità in Africa, laddove 22 milioni di persone colpite dal VIH avrebbero bisogno, ai prezzi attuali, di 200 000 milioni di dollari ogni anno per controllare una sola malattia? Quanti moriranno finchè si scoprirà un vaccino protettore o un farmaco che elimini la malattia?.
Il mondo ha bisogno di una certa direzione per affrontare le attuali realtà. Siamo già 6 000 milioni gli abitanti del pianeta. E’ quasi certo che solo tra cinque decade saremo 9 500 milioni. Garantire i generi alimentari, la sanità, l’istruzione, l’impiego, l’abbigliamento, le scarpe, il tetto, l’acqua potabile, l’elettricità e il trasporto allo straordinario numero di persone che vivranno proprio nei paesi più poveri, sarà una sfida colossale. Innanzi tutto occorrerà definire i modelli di consumo. Non possiamo continuare a stabilire le tendenze e il modo di vita ispirati al modello di spreco delle società industrializzate, ciò sarebbe suicida, nonché impossibile.
Occorre programmare lo sviluppo del mondo. Tale compito non può rimanere nelle le mani delle multinazionali e delle cieche e caotiche leggi del mercato. L’Organizzazione delle Nazioni Unite è una bella base, dispone già di molta informazione ed esperienza; bisogna lottare semplicemente per renderla democratica, mettere fine alla dittatura del Consiglio di Sicurezza e alla dittatura all’interno del proprio Consiglio rendendolo almeno più ampio con l’entrata di nuovi membri permanenti tra i quali il Terzo Mondo sia debitamente rappresentato, con tutte le prerogative degli attuali membri permanenti e cambiando le regole per l’adozione delle decisioni. Inoltre, bisogna ampliare le mansioni e l’autorità dell’Assemblea Generale.
Speriamo che le soluzioni non vengano trovate mediante le catastrofiche crisi. Le migliaia di milioni di persone del Terzo Mondo sarebbero le più colpite. Un senso elementare delle realtà tecnologiche e del potere distruttivo delle armi moderne, ci costringe a pensare nel dovere d’impedire che i conflitti d’interessi che inevitabilmente scatteranno portino a guerre sanguinose.
L’esistenza di una sola superpotenza, un ordine economico globale e asfissiante, rende difficile -forse impossibile- che persino una Rivoluzione come la nostra, se fosse nata oggi e non quando poteva contare su un punto di appoggio in un mondo che allora era bipolare, possa sostenersi. Il nostro Paese ha avuto, quindi, il tempo necessario per sviluppare un’invincibile capacità di resistenza e per spiegare allo stesso tempo nell’ambito internazionale, la forte influenza del proprio esempio ed eroismo per portare avanti, in tutti i fori, una grande battaglia di idee.
I popoli lotteranno, le masse avranno un’importante e decisivo ruolo in tali lotte, che in fondo sarà la loro risposta alla povertà e alle sofferenze che gli sono state imposte; migliaia di creative ed ingegnose forme di pressione e di azione politica nasceranno. Molti governi diventeranno instabili a causa delle crisi economiche e dell’assenza di alternative all’interno del sistema economico internazionale stabilito.
Viviamo una tappa in cui gli avvenimenti precedono la coscienza delle realtà che stiamo soffrendo. Bisogna seminare idee, smascherare inganni, sofismi e ipocrisie, usando metodi e mezzi che contrastino la disinformazione e le menzogne istituzionalizzate. L’esperienza di 40 anni di calunnie cadute su Cuba come pioggia torrenziale ci ha insegnato a fidarci dell’istinto e dell’intelligenza dei popoli.
I Paesi dell’Europa hanno dato al mondo un bell’esempio di ciò che si può raggiungere mediante l’esercizio della razionalità e l’impiego dell’intelligenza. Dopo secoli di guerre, hanno capito che persino loro, paesi industrializzati e ricchi, non potrebbero sopravvivere isolati. Soros, noto personaggio del mondo finanziario, e il suo gruppo, con un assalto speculativo, hanno messo in ginocchio il Regno Unito, una volta padrone di un grande impero, re inquestionabile delle finanze e possessore della moneta di riserva, ruolo che corrisponde adesso al dollaro e agli Stati Uniti.
Il franco, la peseta e la lira, esse hanno subito anche esse i colpi della speculazione. Il dollaro e l’euro si sorvegliano reciprocamente. Un avversario con prospettive è comparso di fronte alla privilegiata moneta americana. Gli Stati Uniti scommettono con ansia sulle le sue difficoltà e sul suo fallimento. Seguiamo da vicino gli avvenimenti.
Taluni, nelle loro angustie, incertezze e dubbi, cercano alternative eclettiche. Il mondo, tuttavia, non ha un’altra alternativa dinanzi alla globalizzazione neoliberista, disumana, che non può essere difesa, né moralmente, né socialmente, le cui ecologia ed economia risultano insostenibili, che non sia la giusta distribuzione delle ricchezze create dagli esseri umani con le proprie laboriose mani e la feconda intelligenza. Cessi la tirannia di un ordine che impone principi ciechi, anarchici e caotici, che porta la specie umana verso l’abisso. Si salvi la natura. Si preservino le identità nazionali. Si proteggano le culture di ogni Paese. Che prevalgano l’uguaglianza, la fraternità e con esse la vera libertà. Non possono continuare a crescere le insondabili differenze tra ricchi e poveri all’interno dei singoli Paesi e tra i Paesi. Devono, anzi, diminuire progressivamente finché cesseranno, un giorno. Che sia il merito, la capacità, lo spirito creativo e quello che l’uomo realmente apporti al benessere dell’umanità – non il furto, la speculazione o lo sfruttamento dei più deboli – ciò che determini il limite delle differenze. Si metta in pratica veramente l’umanesimo, con fatti e non con ipocrite divise.
Cari compatrioti,
Il popolo che porta avanti l’eroica lotta del periodo speciale per salvare la Patria, la Rivoluzione e le conquiste del socialismo, avanza irrefrenabile verso le proprie mete, così come lo fecero i combattenti di Camilo e Che dalla Sierra Maestra all’Escambray. Come disse Mella, qualsiasi tempo futuro dev’essere migliore. Verifichiamolo nelle mete che ci siamo tracciati per 1999. Consolidiamo e approfondiamo, lavoriamo, lottiamo e combattiamo con lo stesso spirito dei nostri eroici compatrioti all’ Uvero, nei gloriosi giorni della grande offensiva nemica, nelle battaglie e nei fatti che abbiamo ricordato oggi. Abbiamo già lasciato indietro la sconfitta di Alegria de Pío, siamo già passati da Cinco Palmas, abbiamo già raggruppato le forze, siamo già in grado di vincere così come 300 ribelli sono riusciti a vincere 10 000 soldati, siamo già molto più forti, siamo già sicuri della vittoria. (Applausi)
A tutti i nostri compatrioti, soprattutto ai giovani, assicuro che i prossimi 40 anni saranno decisivi per il mondo. Avete davanti dei compiti molto più complessi e difficili. Nuove mete gloriose vi aspettano, l’immenso onore di rivoluzionari ve lo esige. Lotteremo per il nostro popolo e per l’umanità. E la nostra voce può arrivare e arriverà molto lontano.
La battaglia di oggi è dura e difficile. Nella guerra ideologica, così come nei conflitti bellici, ci sono anche perdite. Non tutti hanno il coraggio di resistere ai tempi duri e alle condizioni difficili.
Vi ricordava oggi che in mezzo alla guerra, sotto i bombardamenti e soffrendo ogni tipo di privazioni, dei giovani volontari che arrivavano alla scuola, uno su dieci riusciva a sopportare; ma quello che rimaneva ne valeva quanto dieci, cento, mille dei falliti. Approfondire nella coscienza, formare il carattere, istruire nella dura scuola della vita della nostra epoca, seminare idee solide, utilizzare argomenti incontestabili, predicare mediante l’esempio della propria condotta e aver fiducia nell’onore dell’uomo, può far sì che, di ogni dieci giovani, nove si mantengano nei loro posti di combattimento accanto alla bandiera, a fianco della Rivoluzione e insieme alla Patria.
Socialismo o Morte!
Patria o Morte!
Vinceremo!