Non risulta facile, per la prima potenza mondiale, sia economicamente che militarmente, piegare, nella loro totalità, i paesi che per 20 anni hanno plasmato un modello politico di nuovo tipo …
L. Valenzuela www.cubahora.cu
(I)
Il 2018 lascia un bilancio politico in America Latina, in cui si evidenziano due posizioni, oltre ai i marchingegni in uno od altro senso, in cui i governi ed i popoli progressisti hanno resistito agli assalti degli USA, incrementati con l’arrivo al governo di nuovi dirigenti conservatori.
Ciò situa la regione, di oltre 600 milioni di abitanti, in uno scenario complesso, che allerta cosa potrebbe accadere dal 1 gennaio, un giorno significativo, quando assumerà il governo del Brasile Jair Bolsonaro, che dalla sua vittoria annuncia un disastro politico-ideologico in termini di misure reazionarie e dittatoriali con le loro conseguenti ripercussioni nel resto del subcontinente.
Sono successi, in questo periodo annuale che si concluderà tra pochi giorni, fatti di estrema trascendenza, non solo in Sud America. Sono scoppiati, in America Centrale, i gravi problemi derivati da governi corrotti dai quali sono fuggiti più di 7000 cittadini in una carovana pubblica e dopo aver camminato più di 4000 chilometri aspettano, in territorio messicano, un turno per richiedere un visto per gli USA.
Dietro i fallimenti economici e sociali nazionali sofferti dai popoli c’è il potere di Washington, impegnato fino al midollo, senza escludere gli interventi armati, nel recuperare i paesi che sempre sono stati sotto i suoi ordini e che, dal 1998, con il trionfo del defunto presidente del Venezuela Hugo Chávez, hanno cambiato la storia della regione; ora in un chiaro processo verso il conservatorismo.
Non risulta facile per il Nord America, la prima potenza mondiale, sia economicamente che militarmente, piegare, nella loro totalità, paesi che per 20 anni hanno plasmato un modello politico di tipo nuovo, inclusivo ed integrazionista, hanno deciso staccarsi dal potere della Casa Bianca e, con successi ed errori, hanno evitato il reimpianto della ultra superata Dottrina Monroe.
Trump, uno stravagante uomo d’affari del settore immobiliare, è giunto, due anni fa, alla Casa Bianca senza esperienza politica, consigliato dal gruppo più recalcitrante dell’estrema destra. Senza assoluto controllo dei suoi più stretti collaboratori, molti liquidati come corrotti, altri in attesa, ha deciso, per opera e grazia della prepotenza imperiale, cambiare, ancora una volta, il destino dei popoli.
Per questo impiega i suoi tecnocrati specializzati in colpi di stato di bassa intensità e la menzogna come arma fondamentale dei media capitalisti. Per sostenerlo in questa disuguale guerra esiste un gruppo di politici latinoamericani di destra che, con una politica di odio verso il progressismo -i cui leader catalogano come dittatori- hanno come obiettivo la generalizzata implementazione del neoliberalismo.
RESISTENZA E PIU’ RESISTENZA
Allo stato attuale, la correlazione delle forze -in termini numerici- è cambiata in America Latina a favore dei conservatori.
In questo 2018 hanno vinto elezioni presidenziali figure realmente pericolose per le loro politiche di odio, cooperazione con gli USA, sottovalutazione dei loro popoli che in totalità non hanno accettato le loro vittorie, la complessa situazione che può presentarsi davanti ai tamburi di guerra tra le nazioni che fanno sentire, quando nel 2014 si è dichiarata l’America Latina zona di pace al II Vertice della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, firmata dai dignitari e coniata all’Avana.
In un anno elettorale, figure dell’attuale neo-fascismo come il colombiano Ivan Duque, il brasiliano Jair Bolsonaro ed il cileno Sebastián Piñera, tre perle della corona dell’Imperatore Trump, hanno vinto le elezioni presidenziali.
Perché sono risultati vittoriosi? E’ tema di un’altra analisi, ma ci sono segnali comuni: la sottovalutazione del potere imperialista e delle sue forme di azione, campagne volte a screditare i candidati popolari, un media distorcente e menzognero che ha guidato la diffidenza popolare verso la presunta corruzione di cui sono stati accusati i dirigenti popolari, e molti altri elementi che meritano riflessione e urgente assunzione di posizioni della cosiddetta sinistra latinoamericana, se vuole sopravvivere sotto tale designazione.
Di fronte a questa raffica di nuove figure di estrema destra, come Duque, protetto dall’ex presidente e senatore Alvaro Uribe, Bolsonaro, un oscuro deputato per 28 anni il cui destino è stato segnato, a partire dal 2016, quando è stata rimossa dal governo la presidentessa Dilma Rousseff mediante un golpe parlamentare, e Piñera, che ha approfittato della tradizionale disunione dei partiti di Unità Popolare ed ha riottenuto, per la seconda volta, il più alto incarico del governo.
Il neofascista brasiliano ha vinto le presidenziali solo per lo stratagemma giudiziario contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Il recentemente nominato ministro della Giustizia del nuovo esecutivo, Sergio Moro, è stato il giudice federale che ha condannato Lula in prima istanza, il preferito per ritornare al Palazzo de Planalto nelle elezioni, secondo i sondaggi. L’ex presidente fu condannato a 12 anni ed un mese di prigione in seconda istanza, senza alcuna prova che sia stato beneficiato da una società di costruzioni con un appartamento durante i suoi due mandati.
In tutti e tre i casi, con uguali postulati politici, ma differenze interne, si è imposto il potere della destra che ha approfittato, molto bene, delle debolezze interne del progressismo nei propri paesi, di popoli con bassa quoziente di intelligenza politica -come Brasile- di altri con desideri di una stabilità proposta dalla destra e alcuni, come la Colombia, dove preferiscono seguire la rotta Uribista, specialmente le élite dominanti in quella nazione che ancora mantiene la guerra interna nonostante la firma di un Accordo di Pace con le guerriglie.
In America Centrale c’è caos nelle sfere di destra. Honduras e Guatemala sono tipici esempi di governi corrotti, lontani dai gravi problemi delle loro popolazioni.
In Honduras, Juan Carlos Hernandez, in assoluto rispetto verso i sentimenti popolari, ha rubato la rielezione alla presidenza con una modifica della Costituzione Nazionale, al candidato Salvador Nasrallah, che rappresentava la possibilità di un ritorno ad un gabinetto imparentato con l’ex presidente Manuel Zelaya, rimosso dal potere nel 2009 da un colpo di stato civile-militare.
Il Guatemala non va meglio. Il presidente Jimmy Morales, un musicista evangelico, come Hernandez accusato di corruzione, resta in carica grazie all’acquisto di altri poteri nazionali, come il giudiziario, mentre gli indici di povertà e criminalità raggiungono livelli insostenibili per i cittadini di quegli Stati di frontiera.
El Salvador, insieme ad Honduras e Guatemala, costituiscono il cosiddetto Triangolo del Nord, ha un governo progressista che ha ereditato una pesante eredità dei suoi predecessori, e ora ingaggia un’aspra lotta, perché il suo rivoluzionario Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale vinca di nuovo, per la terza volta consecutiva, le presidenziali del 2019.
In Argentina, con un pessimo governo che ha affondato l’economia nazionale e si è indebitato, ancora una volta, con il Fondo Monetario Internazionale, appare Mauricio Macri, il milionario presidente che per 300000 voti ha vinto la prima magistratura al progressista David Scioli, il candidato del Fronte per la Vittoria, di Cristina Fernández de Kirchner.
Due anni di incertezza per le popolazioni argentine che vedono inadempiute le promesse elettorali e, come alleato ed amico personale di Trump, ha ottenuto con le sue misure neoliberali che, l’una volta chiamato granaio del mondo, abbia il più alto tasso di disoccupazione degli ultimi dieci anni.
In Perù, dove si è formato il cosiddetto Gruppo di Lima, composto da nazioni contrarie alla Rivoluzione Bolivariana del Venezuela ed al suo presidente Nicolás Maduro, ci sono stati, nel 2018, processi interessanti.
La rocambolesca politica di quel paese ha portato al governo un veterano uomo d’affari, Pedro Pablo Kuczynski, conosciuto come PPK, che a 77 anni è stato coinvolto in un reato di corruzione, ma ha cercato di rimanere al potere fino all’ultimo momento.
Per raggiungere questo obiettivo, si è unito Kenji Fujimori ed ha frazionato il partito familiare di destra Fronte Popolare, guidato da sua sorella Keiko, ora in carcere preventivo, per tre anni, per presunto riciclaggio di denaro della società brasiliana Odebrecht.
Kenji, alle spalle di sua sorella, ha chiesto ai suoi legislatori di evitare l’impugnazione di PPK al Congresso Nazionale in cambio dell’indulto di suo padre, il dittatore Alberto Fujimori, condannato a 25 anni di carcere per i crimini di Lesa Umanità.
Ma, una volta che il criminale è stato rilasciato, il presidente si è visto coinvolto in un altro reato di corruzione e quella volta nessuno lo ha salvato. Keiko aveva rotto i rapporti con suo fratello ed a PPK non è rimasta altra scelta che dimettersi.
Il suo posto è stato assunto dal suo vice Martin Izbarra, -che condivideva la sua carica con quella di ambasciatore in Canada, qualcosa di raro in politica- ma che dal suo insediamento ha fatto due consultazioni popolari per effettuare cambi nella politica nazionale e presenta un atteggiamento conciliante nel campo latino americano
Ecuador con il suo presidente Lenin Moreno, che ha dimostrato le sue intenzioni anti-rivoluzionarie una volta insediatosi nella carica, si è alleato con i suoi precedenti nemici di destra; ha personalmente contribuito alla distruzione del progressismo nel paese, così come ha fatto con le organizzazioni integrazioniste nel suo territorio.
Questo rappresentante dell’allora governativo Movimento Alianza País, l’anima della Rivoluzione Cittadina, che ha abbandonato, ha infilato il paese verso il neoliberalismo e mantiene una persecuzione, quasi feroce, contro i suoi ex compagni politici, tra cui il suo mentore, l’ex presidente Rafael Correa, che lo ha proposto affinché lo sostituisse.
(II)
Nonostante l’ascesa di governi di destra in America Latina, la regione dei Caraibi mostra una politica di unità compatta e progressista. La parola d’ordine dei governi rivoluzionari è quella di resistenza ai piani di riconversione neoliberale promuovendo, allo stesso tempo, lo sviluppo nazionale.
L’anno che si è concluso è stato difficile in termini di sopravvivenza per nazioni come il Venezuela, il più vessato e punito dall’imperialismo USA, il cui obiettivo è distruggere la Rivoluzione Bolivariana con la destituzione del presidente Nicolás Maduro ed impossessarsi delle grandi risorse naturali della nazione tra cui petrolio, oro e diamanti.
In Venezuela, la controrivoluzione mondiale ha usato un enorme numero di piani congiunti o separati con cui perseguita la nazione sudamericana. Da attacchi di strada, con un saldo di morti e feriti, uso della diplomazia per l’imposizione di sanzioni in seno dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e, di fronte ai suoi continui insuccessi, la creazione del cosiddetto Gruppo di Lima -che non condivide l’idea di un’invasione armata fomentata da Washington- attacchi diplomatici, sanzioni economiche estreme alle sue autorità governative da parte di Washington.
Il presidente Donald Trump ha persino detto che pensa ad un intervento armato come una delle opzione per liquidare un processo inclusivo ed integrazionista che resiste da 20 anni alla guerra non dichiarata degli USA, sostenuta dai suoi alleati in America Latina, in particolare la Colombia, dalle cui frontiere comuni possono essere lanciati attacchi militari contro i suoi vicini in cerca di una crisi umanitaria ed il successivo intervento di altre nazioni dell’area.
Se il Venezuela sta dando eroica dimostrazione di resistenza mentre viene attaccato da tutte le parti, Cuba è, in questo senso, il più grande esempio dei popoli dell’America Latina.
Per più di 50 anni, la Casa Bianca ha decretato contro l’isola un blocco economico, commerciale e finanziario -quello di più lunga durata del pianeta- ed è lo stesso periodo in cui i cubani sopportano le sue limitazioni, soprattutto nell’economia e salute pubblica, ponendo al di sopra di ogni altro interesse quello della propria sovranità ed indipendenza nazionale.
Sotto grossolane menzogne, quest’anno Cuba, un esempio per il resto del continente, ha ricevuto nuove sanzioni diplomatiche ed economiche dal governo Trump, consigliato da politici di destra di origine cubana. Tra queste c’è la chiusura di vari dei suoi uffici a L’Avana, tra essi quello della concessione di visti, ora situati in Messico, e la semina della paura nei cittadini USA in modo che non facciano turismo sull’isola.
Tutto un piano che potrebbe finire con una rottura delle relazioni, oggi in gran retrocessione, che ha avuto inizio con la menzogna di presunti attacchi sonici ai diplomatici USA, non comprovati da specialisti dei due paesi, per avere un pretesto per l’assedio ed il castigo.
Nicaragua, uno dei paladini rivoluzionari in America centrale, ha anche sofferto, quest’anno, gli attacchi eversivi di individui pagati dalla destra regionale, sempre sotto la guida della Casa Bianca, per rovesciare il governo del comandante Daniel Ortega, presidente della nazione e dirigente del rivoluzionario Fronte di Sandinista di Liberazione Nazionale.
I piani contro il governo del Nicaragua, a cui si è unita l’alta gerarchia della Chiesa cattolica, sono durati diverse settimane con un saldo di centinaia di morti e migliaia di feriti.
Hanno dato fuoco ad istituzioni statali, picchiato ed ucciso rivoluzionari nei loro quartieri, hanno creato il caos che è stato fermato e sconfitto solo grazie alla coscienza del popolo nicaraguense e dei suoi dirigenti, che hanno sempre dimostrato la loro convinzione di resistere all’assalto.
Quello che è avvenuto in Nicaragua non è stata un’insurrezione popolare, ma un’operazione di cambio di regime eseguita da gruppi di estrema destra, sostenuti da bande criminali che hanno sequestrato la popolazione nicaraguense con blocchi stradali, estorsione di pedaggi, violenza con bombe ed armi da fuoco ed attacchi contro beni pubblici come ospedali, scuole, uffici comunali e sedi del FSLN.
Gigantesche mobilitazioni nelle strade, che chiedevano pace, hanno dimostrato la fermezza del popolo nicaraguense, che ha sconfitto un progetto disegnato e sostenuto dalle élite finanziarie e da potenti settori USA con il sostegno di simili dell’Unione Europea.
Per punire ulteriormente il piccolo paese centroamericano, dal quale non ci sono membri della Carovana di Migranti, il Congresso USA ha approvato il Nicaraguan Investment Conditionality Act (Nica Act), un’iniziativa che blocca i prestiti delle istituzioni finanziarie internazionali al governo sandinista.
“Nica Act” è sorto dopo che il presidente Ortega ha richiesto a Washington il pagamento dell’indennizzo di 17 miliardi di dollari ordinati dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, nel 1986, per il ruolo della nazione USA nelle “attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua”.
Nei giorni scorsi, la vicepresidente Rosario Murillo, moglie del presidente, è stata sanzionata dalla Casa Bianca insieme ad uno stretto consigliere, che hanno accusato di corruzione e gravi violazioni dei diritti umani.
Il Dipartimento del Tesoro USA ha affermato che la vice presidente ha influenza sull’organizzazione giovanile del FSLN, che avrebbe commesso esecuzioni extragiudiziali, torture e rapimenti. Inoltre, ed in un’altra delle sue grandi menzogne contro i dirigenti rivoluzionari, il Dipartimento ha addotto che lei pagava gruppi armati per attaccare i manifestanti durante i mesi di rivolte anti-governative all’inizio di quest’anno.
Le sanzioni imposte per ordine esecutivo di Trump implicano “il blocco di qualsiasi proprietà o interesse nelle proprietà di Murillo che sono sotto la giurisdizione USA”, oltre a proibirle, così come al suo consulente, di entrare nel paese settentrionale.
In Bolivia anche ci sono state minacce della controrivoluzione nelle ultime settimane davanti alla nuova candidatura presidenziale di Evo Morales, che è costituzionale ed ha ottenuto l’assoluto sostegno delle Nazioni Unite (ONU).
Morales ha condannato i fatti vandalici registrati, questo mese, nella città di Santa Cruz, dove un gruppo di persone ha dato fuoco alla sede del Tribunale Elettorale Dipartimentale (TED) ed hanno attaccato due istituzioni pubbliche.
Comitati civici e dirigenti politici dell’opposizione hanno convocato la popolazione a mobilitarsi contro l’abilitazione del binomio Evo Morales-Álvaro García Linera per le elezioni primarie e generali del 2019.
Il ministro del governo, Carlos Romero, ha anche criticato il vandalismo a Santa Cruz, mentre la dirigenza della Gioventù del MAS (governativo Movimento al Socialismo) ha riferito che nessuno dei suoi membri ha partecipato alle manifestazioni che, secondo l’opposizione, era di giovani universitari.
Nel 2008, settori della destra hanno promosso una campagna di violenza in Bolivia, per cui il governo di Morales ha ora esortato la popolazione a prestare attenzione al vandalismo che cerca destabilizzare il paese.
E’ nel mezzo a questi piani controrivoluzionari degli USA eseguiti dai suoi lacchè, che è emerso in Messico, come un barlume di speranza per il rafforzamento dei governi progressisti, il nuovo presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, detto AMLO.
Durante la sua campagna, e dopo aver assunto la presidenza, lo scorso 1 dicembre, AMLO ha iniziato a realizzare il suo piano di governo che promette di lottare contro due grandi mali in Messico: la criminalità e la corruzione.
Con piani ufficiali ben pensati per sconfiggere questi flagelli, non solo in Messico, ma con la cooperazione USA (principale consumatore di droga del pianeta), il presidente ha proposto un piano di sviluppo per l’America Centrale, da dove partono, ogni anno, migliaia di persone evadendo una situazione personale e familiare insostenibile, alla ricerca del cosiddetto sogno americano.
AMLO, il cui governo in materia di politica estera ha optato per la non ingerenza negli affari interni dei paesi, ed il rispetto per la sovranità e la dignità nazionale, può risultare l’elemento di equilibrio in una regione polarizzata, in cui i degni stati caraibici, con la loro politica unitaria, svolgono un ruolo molto importante.
La vittoria di López Obrador ha riportato agli occhi dei latinoamericani verso il Messico, dove ora c’è un governo “per i poveri”, secondo il presidente, che in un colpo solo ha distrutto i benefici e privilegi degli alti funzionari governativi, a partire dal suo.
Il 2019 si presenta come un altro anno in cui i movimenti sociali continueranno, in diversi paesi, occupando il ruolo dei partiti politici, permeati da vizi che non convincono le popolazioni. Dovranno lavorare, molto uniti a questi gruppi che, sfortunatamente, mancano di riconosciuti dirigenti nazionali, i partiti progressisti che cercano di occupare i loro precedenti spazi di potere.
Sarà un altro periodo difficile per le popolazioni che nei nuovi governi conservatori -come l’Argentina- vedono le loro vite distrutte sotto uno stratagemma di menzogne e promesse non mantenute.
La parola d’ordine, come finora, è resistere e cercare l’uso efficiente dei meccanismi di integrazione, come l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America – Trattato dei Popoli, che questo mese ha tenuto a Cuba il VI Vertice dei capi di Stato e/o di Governo per disegnare nuovi obiettivi che consentano uno sviluppo equilibrato delle loro economie.
Non c’è altro. In una regione polarizzata tra due sistemi antagonisti, o si lotta o si muore nelle reti di un sistema destinato a distruggere la vita in cambio di denaro.
La batalla por América Latina en 2018 (I)
No le es fácil a la primera potencia mundial, tanto económica como militarmente, doblegar en su totalidad a los países que desde hace 20 años conformaron un modelo político de nuevo tipo…
LÍDICE VALENZUELA
El año 2018 deja un balance político en América Latina en el que destacan dos posiciones, amén de los artilugios en uno u otro sentido, en que gobiernos y pueblos progresistas resistieron las embestidas de Estados Unidos, acrecentadas con la llegada al gobierno de nuevos líderes conservadores.
Eso sitúa a la región de más de 600 millones de habitantes en un complejo escenario, que avizora lo que podría ocurrir a partir del 1 de enero, un día significativo, cuando asumirá el gobierno de Brasil Jair Bolsonaro, quien desde su victoria anuncia un desastre político-ideológico en cuanto a medidas reaccionarias y dictatoriales con sus consiguientes repercusiones en el resto del subcontinente.
Ocurrieron en este período anual que terminará en pocos días, hechos de suma trascendencia, no solo en Suramérica. Estallaron en Centroamérica los graves problemas derivados de gobiernos corruptos de los cuales huyeron más de 7 000 ciudadanos en una caravana pública y luego de caminar mas de 4 000 kilómetros esperan en territorio mexicano un turno para solicitar visa para Estados Unidos.
Detrás de los sinsabores económicos y sociales nacionales sufridos por los pueblos está el poderío de Washington, empeñado hasta los tuétanos, sin descartar intervenciones armadas, en recuperar los países que siempre estuvieron bajo sus órdenes y que desde 1998, con el triunfo del finado presidente venezolano Hugo Chávez, cambiaron la historia de la región, ahora en un evidente proceso hacia el conservadurismo.
No le es fácil a Norteamérica, la primera potencia mundial, tanto económica como militarmente, doblegar en su totalidad a los países que desde hace 20 años conformaron un modelo político de nuevo tipo, inclusivo e integracionista, decidieron despegarse del poderío de la Casa Blanca, y, con logros y errores, evitaron la reimplantación de la ultrapasada Doctrina Monroe.
Trump, un extravagante hombre de negocios del sector inmobiliario, llegó a la Casa Blanca hace dos años sin experiencia política, asesorado por el grupo más recalcitrante del ultraderechismo norteño. Sin control absoluto de sus colaboradores más cercanos, muchos despedidos por corruptos, otros en espera, decidió, por obra y gracia de la prepotencia imperial, cambiar de nuevo el destino de los pueblos.
Para ello emplea a sus tecnócratas especializados en golpes de Estado de baja intensidad y la mentira como arma fundamental de los medios de comunicación capitalista. Para apoyarlo en esa desigual guerra existe un grupo de políticos latinoamericanos derechistas que, con una política de odio hacia el progresismo —a cuyos líderes catalogan de dictadores—, tienen como meta la implantación generalizada del neoliberalismo.
RESISTENCIA Y MÁS RESISTENCIA
En la actualidad, la correlación de fuerzas —en cuanto a números— cambió en América Latina a favor de los conservadores.
Este 2018 ganaron elecciones presidenciales figuras realmente peligrosas por sus políticas de odio, cooperación con Estados Unidos, subestimación de sus pueblos que en totalidad no aceptaron sus victorias, la situación compleja que puede presentarse ante los tambores de guerra entre naciones que dejan escuchar, cuando en 2014 se declaró a América Latina zona de paz en la II Cumbre de la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños, firmada por los dignatarios y acuñada en La Habana.
En un año electoral, figuras del actual neofascismo como el colombiano Iván Duque, el brasileño Jair Bolsonaro, y el chileno Sebastián Piñera, tres perlas de la corona del Emperador Trump, ganaron las presidenciales.
¿Por qué resultaron victoriosos? Es tema de otro análisis, pero existen señales comunes: la subestimación del poderío imperialista y sus formas de actuación, campañas dirigidas al desprestigio de los candidatos populares, una media tergiversadora y mentirosa que lideró la desconfianza popular hacia la presunta corrupción de que fueron acusados líderes populares, y muchos otros elementos que merecen reflexión y urgente toma de posiciones de la llamada izquierda latinoamericana, si quiere sobrevivir bajo esa designación.
Ante esta andanada de nuevas figuras de la ultraderecha, como Duque, apadrinado por el exmandatario y senador Álvaro Uribe, Bolsonaro, un oscuro diputado durante 28 años cuyo destino estuvo marcado desde 2016 cuando fue sacada del gobierno la mandataria Dilma Rousseff mediante un golpe parlamentario, y Piñera, que se aprovechó de la desunión tradicional de los partidos de la Unidad Popular y retuvo por segunda vez el más alto cargo del gobierno.
El neofascista brasileño solo ganó las presidenciales por el ardid judicial contra el expresidente Luiz Inácio Lula da Silva. El recién nombrado ministro de Justicia del nuevo Ejecutivo, Sergio Moro, fue el juez federal que condenó en primera instancia a Lula, preferido para retornar al Palacio de Planalto en los comicios, según coincidían las encuestas.
El expresidente fue condenado a 12 años y un mes de prisión en segunda instancia, sin prueba alguna de que haya sido beneficiado por una empresa constructora con un apartamento durante sus dos mandatos.
En los tres casos, con iguales postulados políticos, pero diferencias internas, se impuso el poderío derechista que aprovechó muy bien las debilidades internas del progresismo en sus países, de pueblos con bajos cocientes de inteligencia política —como Brasil— de otros con deseos de una estabilidad propuesta por la derecha y algunos, como Colombia, donde prefieren seguir la ruta uribista, en especial las élites dominantes en esa nación que aún mantiene la guerra interna a pesar de la firma de un Acuerdo de Paz con las guerrillas.
En Centroamérica hay caos en los ámbitos derechistas. Honduras y Guatemala son los típicos ejemplos de gobiernos corruptos, alejados de los graves problemas de sus poblaciones.
En Honduras, Juan Carlos Hernández, en absoluto respeto a los sentimientos populares, robó la reelección en la presidencia mediante un cambio a la Constitución Nacional, al candidato Salvador Nasralla, quien representaba la posibilidad de un retorno a un gabinete emparentado con el exmandatario Manuel Zelaya, sacado del poder en 2009 por un golpe de estado cívico-militar.
Guatemala no anda mejor. El presidente Jimmy Morales, un músico evangélico al igual que Hernández acusado de corrupción, se mantiene en el cargo gracias a la compra de otros poderes nacionales, como el Judicial, mientras que los índices de pobreza y criminalidad alcanzan niveles insostenibles para los ciudadanos de esos Estados fronterizos.
El Salvador, junto con Honduras y Guatemala, constituyen el llamado Triángulo del Norte, posee un gobierno progresista que heredó una pesada herencia de sus predecesores, y libra ahora una cruenta lucha porque su revolucionario partido Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional gane de nuevo, por tercera vez consecutiva, las presidenciales de 2019.
En Argentina, con un pésimo gobierno que llevó al fondo la economía nacional y se endeudó de nuevo con el Fondo Monetario Internacional, aparece Mauricio Macri, el millonario presidente que por 300 000 votos ganó la primera magistratura al progresista David Scioli, el candidato del Frente para la Victoria, de Cristina Fernández de Kirchner.
Dos años de incertidumbre para las poblaciones argentinas que ven incumplidas las promesas de campaña y, en su condición de aliado y amigo personal de Trump, consiguió con sus medidas neoliberales que la otrora llamada granero del mundo tenga el desempleo más alto de la última década.
En Perú, donde se formó el llamado Grupo de Lima, integrado por naciones opuestas a la Revolución Bolivariana de Venezuela y su presidente Nicolás Maduro, hubo este 2018 interesantes procesos.
La rocambolesca política de ese país llevó al gobierno a un veterano empresario, Pedro Pablo Kuczynski, conocido como PPK, quien a los 77 años se vio comprometido en un delito de corrupción, pero trató de mantenerse en el poder hasta el último momento.
Para lograrlo, se unió a Kenji Fujimori y fraccionó el partido familiar de derecha Frente Popular, liderado por su hermana Keiko, ahora en prisión preventiva de tres años por presunto lavado de dinero de la firma brasileña Odebrecht.
Kenji, a espaldas de su hermana, pidió a sus legisladores evitar la impugnación de PPK en el Congreso Nacional a cambio del indulto de su padre, el dictador Alberto Fujimori, condenado a 25 años de prisión por crímenes de Lesa Humanidad.
Pero, una vez libre el criminal, el mandatario se vio envuelto en otro delito de corrupción y esa vez no lo salvó nadie. Keiko había roto relaciones con su hermano, y a PPK no le quedó otra que presentar su renuncia.
En su lugar asumió su vice Martín Izbarra —quien compartía su responsabilidad con la de embajador en Canadá, algo raro en política— pero que desde su asunción hizo dos consultas populares para efectuar cambios en la política nacional, y presenta una actitud conciliadora en el ámbito latinoamericano.
Ecuador, con su presidente Lenin Moreno, quien demostró sus intenciones anti-revolucionarias una vez posesionado en el cargo se alió con sus antes enemigos derechistas, contribuyó personalmente a la destrucción del progresismo en el país, al igual que hizo con las organizaciones integracionistas que funcionaban en su territorio.
Este representante del hasta entonces oficialista Movimiento Alianza País, el alma de la Revolución Ciudadana, que abandonó, enfiló el país hacia el neoliberalismo y mantiene una persecución casi feroz contra sus antiguos compañeros políticos, entre ellos su mentor, el exmandatario Rafael Correa, quien lo propuso para que lo sustituyera.
A pesar del alza de gobiernos de derecha en América Latina, la región de El Caribe muestra una política de unidad compacta y progresista. La palabra de orden de los gobiernos revolucionarios es la de resistencia a los planes de reconversión neoliberal mientras impulsan el desarrollo nacional.
El año que termina ha sido duro en términos de supervivencia para naciones como Venezuela, la más acosada y castigada por el imperialismo norteamericano, cuya meta es destruir la Revolución Bolivariana con la destitución del presidente Nicolás Maduro y apoderarse de los grandes recursos naturales de la nación, entre ellos el petróleo, oro y diamantes.
En Venezuela la contrarrevolución mundial ha empleado una enorme cifra de planes conjuntos o separados con los que hostiga a la nación suramericana. Desde ataques callejeros, con saldo de muertos y heridos, uso de la diplomacia para la imposición de sanciones en el seno de la Organización de Estados Americanos (OEA) y, ante sus fracasos continuos, la creación del llamado Grupo de Lima —que no comparte la idea de una invasión armada fomentada por Washington—, ataques diplomáticos, sanciones económicas extremas y a sus autoridades gubernamentales por parte de Washington.
El presidente Donald Trump, incluso, afirmó que piensa en una intervención armada como una de las opciones para liquidar un proceso inclusivo e integracionista que resiste desde hace 20 años la guerra no declarada estadounidense, apoyado por sus aliados de América Latina, en especial Colombia, desde cuyas fronteras comunes pueden ser lanzados ataques militares contra sus vecinos en busca de una crisis humanitaria y posterior intervención de otras naciones del área.
Si Venezuela está dando heroicas muestras de resistencia mientas es atacada por todos los flancos, Cuba es, en ese sentido, el ejemplo mayor de los pueblos de América Latina.
Desde hace más de 50 años, la Casa Blanca decretó contra la ínsula un bloqueo económico, comercial y financiero —el de más largo tiempo en el planeta— y ese es el mismo tiempo que los cubanos soportan sus limitaciones, en especial en la economía y la salud pública, poniendo por encima de cualquier otro interés el de su soberanía e independencia nacionales.
Bajo burdas mentiras, este año Cuba, un ejemplo para el resto del continente, recibió nuevas sanciones diplomáticas y económicas del gobierno de Trump, asesorado por políticos derechistas de origen cubano. Entre ellas está el cierre de varias de sus oficinas en La Habana, entre ellas la de otorgamiento de visas, ahora situadas en México, y la siembra del miedo en sus ciudadanos para que no hagan turismo en la isla.
Todo un plan que podría terminar con una ruptura de relaciones, ahora en gran retroceso, iniciado con la mentira de supuestos ataques sónicos a sus diplomáticos, no comprobados por especialistas de los dos países, para tener un pretexto para el asedio y el castigo.
Nicaragua, uno de los paladines revolucionarios en Centroamérica, sufrió también este año los ataques subversivos de individuos pagados por la derecha regional, siempre bajo la conducción de la Casa Blanca, para sacar del gobierno al comandante Daniel Ortega, presidente de la nación y líder del revolucionario Frente Sandinista de Liberación Nacional.
Los planes contra el gobierno nica, al que se unió la alta jerarquía de la Iglesia Católica, duraron varias semanas con saldo de centenares de muertos y miles de heridos.
Incendiaron instituciones estatales, golpearon y asesinaron a revolucionarios en sus barrios, crearon el caos que solo fue detenido y derrotado gracias a la conciencia del pueblo nicaragüense y sus dirigentes, que siempre demostraron su convicción de resistir el embate.
Lo que ocurrió en Nicaragua no fue una insurrección popular sino una operación de cambio de régimen ejecutada por grupos de extrema derecha, apoyados con bandas criminales que secuestraron a la población nicaragüense con cierre de calles, cobro de peajes, violencias con bombas y armas de fuego y ataques contra bienes públicos como hospitales, escuelas, oficinas comunales y sedes del FSLN.
Gigantescas movilizaciones en las calles reclamando la paz demostraron la firmeza del pueblo nicaragüense, que venció un proyecto diseñado y apoyado por las élites financieras y poderosos sectores estadounidenses con el apoyo de similares de la Unión Europea.
Para castigar aún más al pequeño país centroamericano, de donde no hay integrantes de la Caravana de Migrantes, el Congreso norteamericano aprobó la Nicaraguan Investment Conditionality Act (Nica Act), una iniciativa que bloquea los préstamos de instituciones financieras internacionales al gobierno sandinista.
“Nica Act” surgió luego de que el presidente Ortega exigiera a Washington el pago de la indemnización de 17 000 millones de dólares sentenciada por la Corte Internacional de Justicia de La Haya en 1986, por el rol de la nación norteamericana en “actividades militares y paramilitares en y contra Nicaragua”.
En días recientes, la vicepresidenta Rosario Murillo, esposa del mandatario, resultó sancionada por la Casa Blanca junto a un asesor cercano, a quienes acusaron de corrupción y graves abusos contra los derechos humanos.
El Departamento del Tesoro de Estados Unidos afirmó que la vicepresidenta tiene influencia sobre la organización juvenil del FSLN, que, según se dijo, habría cometido asesinatos extrajudiciales, torturas y secuestros. Además, y en otra de sus grandes mentiras contra los dirigentes revolucionarios, el Departamento adujo que ella pagaba a grupos armados para que atacaran a los manifestantes durante los meses de disturbios antigubernamentales a principios de este año.
Las sanciones impuestas por orden ejecutiva de Trump implican “el bloqueo de cualquier propiedad o intereses en propiedades de Murillo que estén bajo jurisdicción estadounidense”, además de prohibirle, al igual que a su asesor, la entrada al país norteño.
En Bolivia también hubo amagos de la contrarrevolución en las últimas semanas ante la nueva candidatura presidencial de Evo Morales, la cual es constitucional y obtuvo el absoluto respaldo de Naciones Unidas (ONU).
Morales condenó los hechos vandálicos registrados este mes en la ciudad de Santa Cruz, donde un grupo de personas incendió la sede del Tribunal Electoral Departamental (TED) y atacaron dos instituciones públicas.
Comités cívicos y dirigentes políticos opositores convocaron a la población a movilizarse en contra de la habilitación del binomio Evo Morales-Álvaro García Linera para las elecciones primarias y generales de 2019.
El ministro de Gobierno, Carlos Romero, también reprochó el vandalismo en Santa Cruz, mientras la dirigencia de Juventudes del MAS (oficialista Movimiento al Socialismo) comunicó que ninguno de sus miembros participó en las movilizaciones que, según la oposición, era de jóvenes universitarios. .
En 2008, sectores de la derecha impulsaron una campaña de violencia en Bolivia, por lo que el gobierno de Morales instó ahora a la población a estar atenta ante el vandalismo que pretende desestabilizar el país.
Es en medio de estos planes contrarrevolucionarios de Estados Unidos, ejecutados por sus lacayos, que surgió en México, como un hálito de esperanza para el fortalecimiento de los gobiernos progresistas, el nuevo presidente mexicano Andrés Manuel López Obrador, llamado AMLO.
Durante su campaña, y luego de asumir la primera magistratura el pasado 1 de diciembre, AMLO comenzó a cumplir su plan de gobierno que promete luchar contra dos grandes males en México: la criminalidad y la corrupción.
Con planes oficiales bien pensados para derrocar esos flagelos, no solo en México, sino con cooperación de Estados Unidos (principal consumidor de drogas del planeta), el mandatario planteó un plan de desarrollo para Centroamérica, de donde parten cada año miles de personas evadiendo una situación personal y familiar insostenible, en busca del llamado sueño americano.
AMLO, cuyo gobierno en materia de política exterior se decantó por la no injerencia en los asuntos internos de los países, y el respeto a la soberanía y la dignidad nacionales, puede resultar el elemento de equilibrio en una polarizada región, en la que los dignos Estados del Caribe, con su política unitaria, juegan un papel de suma importancia.
El triunfo de López Obrador volvió los ojos de los latinoamericanos hacia México, donde hay ahora un gobierno “para los pobres”, según el mandatario, que de un golpe destruyó los beneficios y privilegios de los altos cargos gubernamentales, empezando por el suyo.
El 2019 se presenta como otro año en que los movimientos sociales continuarán, en varios países, ocupando el papel de los partidos políticos, permeados por vicios que no convencen a las poblaciones. Tendrán que trabajar muy unidos a estas agrupaciones, que infelizmente carecen de líderes naciones conocidos, los partidos progresistas que intenten ocupar sus antiguos espacios de poder.
Será otro período duro para las poblaciones que en los nuevos gobiernos conservadores —como Argentina— ven destruirse sus vidas bajo un amago de mentiras y promesas incumplidas.
La palabra de orden, como hasta ahora, es resistir, y buscar el uso eficiente de mecanismos de integración, como la Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América-Tratado de los Pueblos, que este mes realizó en Cuba su VI Cumbre de jefes de Estado y/o Gobierno para trazar nuevas metas que permitan un desarrollo equilibrado de sus economías.
No hay más. En una región polarizada entre dos sistemas antagónicos, o se lucha o se muere en las redes de un sistema destinado a destruir la vida a cambio de dinero.