di Geraldina Colotti
Il 10 gennaio, in Venezuela, Nicolas Maduro assumerà l’incarico come presidente, dopo essere stato eletto a maggio con oltre 6 milioni di voti. Il suo principale avversario, Henry Falcon, di centro-destra, ne aveva totalizzati meno di due milioni. Maduro ha ricevuto un numero di voti certamente superiore a quelli di altri presidenti di destra, a partire da Trump negli Stati uniti o da Piñera in Cile, senza contare le elezioni in quei paesi, come l’Honduras, dove i brogli e la repressione sono all’ordine del giorno. Eppure, proprio dai presidenti di quei governi che calpestano quotidianamente i diritti basilari dei popoli, arrivano critiche e minacce al Venezuela.
Il segretario di Stato nordamericano, Mike Pompeo preme sui suoi vassalli del Gruppo di Lima, affinché rompano le relazioni diplomatiche con il Venezuela. E già i media mainstream annunciano che gli Usa potrebbero bloccare anche gli acquisti di petrolio venezuelano. Tutti questi signori contestano la “legittimità” di Nicolas Maduro. Ma da chi dovrebbe arrivare la legittimità di un presidente se non dal mandato popolare? Evidentemente, per l’imperialismo, abituato a designare i presidenti latinoamericani in base ai voleri dell’ambasciata Usa e agli interessi del Fondo Monetario Internazionale, non è così. Per loro, ai popoli non spetta di decidere, ma di eseguire gli ordini, facendoseli anche piacere, e poi cercare un falso nemico su cui sfogare rabbia e malcontento: l’immigrato, il diverso, il povero. E perciò, trovano normale andare dal nazista Bolsonaro, ma chiamano “dittatore” Maduro.
E così, su tutti i grandi media internazionali è ricominciata una martellante campagna di disinformazione. Menzogne dello stesso tenore, fatte con lo stampino, diffuse in tutte le lingue e nello stesso giorno. L’Italia, come sempre, spicca. Menzogne pacchiane che dovrebbero far vergognare qualunque giornalista che avesse anche solo un minimo di rispetto per il proprio mestiere, una professione nata per essere al servizio della “verità” e che, invece, evidentemente è al servizio della “verità” del padrone: una verità sonante quanto i dollari che le agenzie per la sicurezza nordamericane dispensano agli eserciti di ong e di associazioni cosiddette umanitarie per fornire falsi dati e cifre gonfiate.
Ma perché ci cascano in tanti, anche in quelle aree che, dall’America latina all’Europa, si dicono di sinistra? E perché chi le menzogne le vede non riesce a farsi sentire con la stessa puntuale ossessività di quella che ci propina il capitalismo?
Certamente, le forze di cui dispongono coloro che non vivono bene in questo sistema iniquo e guerrafondaio, sono poche. Mancano le televisioni, i canali informativi, il tempo da dedicare a una militanza vera quando si deve lavorare, sia fuori casa che in famiglia. Manca una forza che porti l’anticapitalismo in Parlamento e che organizzi un’opposizione efficace.
Mancano, purtroppo, anche i luoghi dove ritrovarsi e ritrovare, condividere, organizzare, quella rabbia dei settori popolari che oggi segue false bandiere: le bandiere del razzismo, o delle violenze negli stadi di calcio…
Mancano, anche, gli strumenti politici, che nel secolo scorso – il secolo delle rivoluzioni – consentivano di capirsi anche senza parlare la stessa lingua. La lingua che parlavano i popoli, allora, era quella della lotta di classe, del compattarsi sempre, oltre le differenze, contro un nemico comune. Perché quel nemico lo si riconosceva nella sua violenza strutturale, così come fa il capitalismo che, pur essendo composto da squali in lotta per il profitto, sa ricompattarsi contro il nemico comune: le classi popolari.
Invece, dopo la caduta dell’Unione sovietica, è passata l’idea che il massimo a cui possano aspirare le classi popolari sia la difesa del “male minore”. Più persuasive di tutti sono state quelle sinistre occidentali, progressivamente passate dalla difesa degli interessi popolari a quella delle multinazionali. In Italia, lo vediamo con chiarezza oggi. Oltre ai diritti, questo sistema di complicità e di falsi obiettivi ha tolto al proletariato anche le parole per dire che non ne può più del capitalismo, della povertà che produce e delle sue guerre. “Guerra alla guerra”, si gridava invece nelle piazze del secolo scorso, senza timore di perdere la sedia nel salotto buono: perché sembrava ovvio che solo con la lotta di classe si può raggiungere la pace vera. “Guerra al più povero”, grida oggi l’estrema destra deviando il bersaglio. E funziona.
Nel tempo in cui si cantava che “non è un delitto rubare quando si ha fame”, e che chi rapina una banca è meno colpevole di un banchiere, erano i ricchi ad avere paura. Si rintanavano dentro le loro auto blindate, le loro ville blindate… Oggi, chi lavora per due lire deve pure ringraziare, a fronte dei salari scandalosi dei manager, di parassiti e guerrafondai. Se non si vede a un palmo dal naso, perché si dovrebbe vedere quel che accade davvero in Venezuela?
Il Venezuela, infatti, è un paradigma di tutto questo, perché nonostante gli attacchi e le sanzioni – quelle sì che violano i diritti umani quando bloccano il pagamento di alimenti e medicine – destina oltre il 70% degli ingressi annuali ai piani sociali. Perché ha consegnato già oltre 2,5 milioni di case popolari, mentre solo a Roma ci sono migliaia di case sfitte, ma ti arrestano se le vai a occupare. Che esista un posto nel mondo – un paese pieno di risorse come il Venezuela – dove la ricchezza si mette al servizio della popolazione, è un pericoloso esempio da demolire. Che esista una rivoluzione vittoriosa che resiste, come Cuba, da sess’antanni, è un pericoloso esempio da demolire. Potrebbe far tornare anche da queste parti, qualche “cattiva idea”.