E’ terminata il 3 gennaio la tregua proclamata dall’Ejercito de Liberación Nacional, a partire dal 23 dicembre, “per generare un clima di tranquillità durante il Natale e l’Anno Nuovo”. Il gruppo guerrigliero aveva voluto così venire incontro alle richieste della popolazione che soffre per il conflitto. Nessuna sospensione delle ostilità invece era stata decisa dal governo, che non ha fatto nulla per favorire il dialogo.
Fin dall’inizio del suo mandato Duque ha posto come condizioni preliminari alla ripresa delle trattative che l’Eln sospenda unilateralmente ogni azione militare, liberi tutte le persone sequestrate e accetti di ritirarsi in una determinata zona sotto supervisione internazionale. Condizioni che la guerriglia ha respinto perché disconoscono gli accordi presi in precedenza.
In novembre il governo colombiano aveva sollecitato a Cuba la cattura e l’estradizione del leader dell’Eln Nicolás Rodríguez Gabino. Una sorta di provocazione, visto che l’isola è la sede dei colloqui di pace, interrotti con l’ascesa al potere di Iván Duque. E a Cuba rimane la delegazione guerrigliera. “Abbiamo ripetuto a più riprese che non ci alzeremo dal tavolo delle trattative – ha spiegato in una recente intervista a Telesur il comandante Pablo Beltrán – Stiamo mostrando con chiarezza che non disperiamo, stiamo trattando nel frattempo di fare tutto ciò che possiamo da qui, dall’Avana, per la pace in Colombia”.
Il 24 novembre 2016 avveniva la firma degli accordi tra il governo e le Farc. Da allora sono oltre ottanta gli ex guerriglieri assassinati. In ottobre due ex comandanti, Iván Márquez (che fu anche capo negoziatore) e Oscar Montero El Paisa, in una lettera alla Comisión de Paz del Senato avevano denunciato il “tradimento” di quanto accordato, affermando che le modifiche al testo originale “hanno trasformato questo patto in un mostruoso Frankenstein”. Si riferivano in particolare ai cambiamenti apportati dal Congresso al sistema di giustizia, chiamato a giudicare i crimini commessi da entrambe le parti nel corso del conflitto. “Ingenuamente abbiamo creduto nella parola e nella buona fede del governo, nonostante Manuel Marulanda Vélez ci avesse sempre avvertito che le armi erano l’unica garanzia sicura del compimento di eventuali accordi”.
E secondo un rapporto presentato a metà dicembre dalla Defensoría del Pueblo, nel 2018 sono stati assassinati 164 dirigenti sociali e comunitari. L’elenco non è completo: alla vigilia di Natale è stato colpito a morte da membri dell’esercito Luis Eduardo Garay, dell’Asociación de Campesinos del Sur de Córdoba. Il 29 dicembre, nel dipartimento del Chocó, è stato trovato il corpo della giovanissima leader della popolazione embera Maye Sarco Dogirama: era stata uccisa a colpi d’arma da fuoco. Anche il 2019 è iniziato all’insegna della violenza: in sei giorni si contano già altrettante vittime. Tra queste l’afro-discendente Maritza Quiroz Leiva, che guidava la lotta delle donne sfollate di Santa Marta (dipartimento di Magdalena), assassinata dai sicari nella sua abitazione.
Gli ultimi mesi dell’anno sono stati caratterizzati da massicce manifestazioni, in tutto il paese, contro la politica economica del presidente Duque. Il movimento, iniziato dagli universitari che chiedevano più fondi per gli atenei pubblici, ha visto scendere in piazza maestri, pensionati, indigeni, contadini. Alle mobilitazioni hanno aderito le principali centrali sindacali, in lotta contro la proposta di riforma tributaria dell’esecutivo. A metà dicembre gli studenti hanno ottenuto una prima vittoria: il governo si è impegnato a garantire le risorse richieste per l’istruzione superiore.