Il fiato di Trump sul collo del Venezuela

di Geraldina Colotti

Una prima assoluta, ieri, nella storia del Venezuela: Donald Trump ha designato il nuovo “presidente” della nazione. Al posto di Nicolas Maduro, eletto con oltre 6 milioni di voti il 20 maggio, nelle intenzioni dell’imperialismo dovrebbe stare un tale Juan Guaidó, che ieri ha “prestato giuramento” davanti a un gruppo di suoi seguaci. Un trentacinquenne di cui si conoscono più le terga che le posizioni politiche, essendo passato alla “storia” per aver mostrato il deretano alle forze armate durante le proteste con bombe escrementizie (“puputov”) organizzate dalle destre nel 2017.


Militante del partito di estrema destra Voluntad Popular, Guaidó è stato eletto presidente dell’Assemblea Nazionale (AN), uno dei cinque poteri di cui si compone l’istituito venezuelano. Un sistema tenuto in equilibrio dal Tribunal Supremo de Justicia (TSJ), istanza deputata a che nessuno dei cinque possa prevalere. Un punto importante, questo, per capire l’origine della destabilizzazione politica ora giunta all’acme nel paese. Occorre ricordare che le destre hanno vinto le parlamentari a dicembre del 2015, dopo aver messo alla corda l’economia con il sabotaggio e il mercato nero di merci e divise.

Volendo far man bassa in poco tempo, pressati dai loro padroni esterni che esigevano di riscuotere subito, le destre hanno voluto strafare, avallando l’elezione fraudolenta di tre deputati, che avrebbero consentito loro la maggioranza assoluta. Le elezioni per quei tre collegi avrebbero dovuto ripetersi, ma l’opposizione ha deciso di ignorare l’ingiunzione del TSJ, che ha per questo dichiarato l’Assemblea Nazionale “in ribellione”.

Da lì uno scontro di poteri che ha evidenziato subito la vera portata del conflitto: cancellare la costituzione bolivariana che impedisce sia di privatizzare le immense risorse del paese che di cedere la sovranità nazionale. Si è però levato subito un coro di “democratici” pronti a capovolgere i termini di quello scontro per far credere ai poco informati lettori europei che l’unico sistema legittimo fosse quello conosciuto da noi: una democrazia parlamentare basata sui tre poteri canonici, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Che quella vigente in Venezuela fosse una democrazia partecipativa, basata invece su cinque poteri, non è stato considerato. La legalità stava perciò tutta dall’altra parte. L’obiettivo era quello di tornare al sistema della IV Repubblica, nato da quel patto di Punto Fijo che ha istituito l’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra con l’esclusione dei comunisti. Un sistema che, lo hanno ricordato le piazze chaviste ieri, ha presentato i tratti delle “democrazie camuffate”: le democrazie borghesi modello FMI, che hanno mostrato il loro vero volto torturando e reprimendo sia l’opposizione di piazza che quella armata.

In Venezuela, gli Stati Uniti hanno tentato di riportare indietro l’orologio della storia dando mezzi alle oligarchie locali per organizzare il golpe contro Chavez nel 2002. Non gli è andata bene perché il popolo ha rimesso a posto le cose e il dittatore (Carmona Estanga, capo della Confindustria locale, FEDECAMARA), è durato poco. Le garanzie costituzionali sono state ripristinate con il ritorno in carica del presidente legittimo, Hugo Chavez. Ora ci riprovano apertamente con Nicolas Maduro cercando di mettere in scena un golpe di nuovo tipo, sul modello delle guerre di IV e di V generazione. Cercano di avallare un “governo di transizione” come quello che ha portato alla distruzione della Libia e che avrebbe voluto spazzar via la Siria.

Una simulazione cresciuta nei mesi con la creazione di istituzioni artificiali come il Gruppo di Lima o di colpi di mano per piegare ai voleri di Washington le alleanze continentali. In nome di quale “democrazia” si può imporre un presidente dall’esterno? Eppure, sia Trump che il Segretario Generale dell’OSA Luis Almagro, che i paesi dove più si calpestano i diritti umani, stanno imponendo un golpe proprio in nome della “democrazia”. “In quale centro elettorale ha votato Trump per Guaidó?”, si chiede l’opinionista satirica Carola Chavez.

La “democrazia” che vorrebbe Trump e i suoi accoliti è quella in cui vincono sempre gli stessi, mentre a pagare – come dimostrano i dati della “crescita” nei paesi capitalisti – sono sempre i settori popolari.

“Siamo maggioranza”, gridano le destre, anche se ai “cabildos abiertos” organizzati da Guaidó non c’erano quelle moltitudini che raccontano i media internazionali. Ma se sono maggioranza perché non hanno più voluto partecipare alle elezioni? Perché, come è apparso evidente ieri, i loro referenti principali non si trovano nel paese, ma a Washington e nelle grandi istituzioni internazionali. Dal vertice di Davos, infatti, ha dato il suo appoggio a Guaidó il presidente (nazista) del Brasile Jair Bolsonaro: il quale già si vede entrare trionfante in Venezuela alla testa di una “forza multinazionale” in un pase smembrato da spartire.

Il punto, infatti, è questo: seminare il caos per fare man bassa delle risorse, guadagnando dalle guerre e dalla ricostruzione. Secondo quanto ha dichiarato l’analista politico francese Thierry Meyssan alla giornalista Erika Sanoya, nei piani geopolitici dei falchi del Pentagono c’è l’idea di creare nel mondo un asse tra un inferno di guerra e devastazione e uno mantenuto al riparo. Le analisi di Meyssan sono senz’altro spostate verso le teorie del complotto, ma non si può negare che, sulle questioni geopolitiche, sia bene informato.

Infatti, nell’intervista a Rt ha offerto una testimonianza diretta su una sua visita in Libia, poco prima dell’uccisione di Gheddafi. Ha affermato che, mentre veniva trasportato su una piccola imbarcazione d’emergenza messa a disposizione dall’Onu, ha sentito alcuni 007 italiani raccontare come avessero “costruito” uno degli ultimi episodi per scatenare l’intervento armato in Libia, sparando sia sui sostenitori di Gheddafi che sugli oppositori.

Uno scenario – ha detto – che gli Usa ripetono in tutte quelle parti del mondo in cui intendono scatenare il caos. Per questo, i gruppi di opposizione vengono cambiati senza problemi: in Siria – ha aggiunto – ne hanno già cambiati diversi. Non importa il colore delle bandiere per raggiungere il proprio scopo.

Il chavismo è sceso in piazza, ieri, con determinazione e compostezza, pronto a difendere le conquiste sociali e la propria indipendenza: “Come possiamo accettare tanta insolenza nella patria di Bolivar e di Zamora”?, ha detto Maduro annunciando la rottura delle relazioni con gli Stati Uniti. Una folla di bandiere rosse si accamperà da oggi in poi a Miraflores, per proteggere il palazzo presidenziale.

Intanto, arrivano i pronunciamenti internazionali. Se il papa Bergoglio ha inviato un emissario all’assunzione di incarico di Maduro, la Conferenza episcolale venezuelana sta con i golpisti. Il solito cardinal Porras ha dato il permesso ai sacerdoti di partecipare alle marce di opposizione. L’Ecuador di Lenin Moreno ha definitivamente scelto il suo campo, riconoscendo il “presidente” fittizio insieme ai paesi neoliberisti.

I movimenti si mobilitano. La Rete Europea in difesa della Rivoluzione Bolivariana, composta da oltre 80 organizzazioni, ha respinto con decisione il colpo di Stato degli Usa e chiesto all’Europa di rispettare il voto popolare dei venezuelani. Dalla Francia, Jean-Luc Melenchon ha denunciato il colpo di stato, e anche lo spagnolo Paolo Iglesias ha fatto notare che agli Usa “non interessa la democrazia, ma il petrolio del Venezuela”.

In Italia, invece, il deputato 5 Stelle Pino Cabras, durante una discussione in commissione Affari esteri alla Camera, è stato pesantemente attaccato sia da destra che da sinistra, anche dalla “sinistra” del PD: per aver fatto notare che, ad assistere all’assunzione d’incarico di Maduro c’erano 112 paesi, e che di certo non lo si poteva bollare come “dittatore comunista”. Contemporaneamente, lo SPI-CGIL di Treviso organizzava iniziative di sostegno alle destre venezuelane: in nome, ovviamente, della “democrazia”. “Pensavamo di averne viste abbastanza, ma al peggio non c’è mai fine”, ha scritto Rifondazione Comunista in una nota di protesta.

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