Intervista a Roy Chaderton
G. Colotti
Ha sempre la battuta pronta o un gioco di parole, Roy Chaderton. Politico di lungo corso, è attualmente direttore dell’Accademia diplomatica del Venezuela, l’Instituto de Altos Estudios Diplomticos Pedro Gual, il primo ministro degli Esteri del Venezuela. “I grandi precursori della nostra diplomazia – dice – sono stati Francisco de Miranda e Simon Bolivar. All’ambasciata di Londra, dove Bolivar compie la sua prima missione diplomatica, c’è il suo ritratto e la lista degli antichi ambasciatori. Io scherzo dicendo che per questo chiunque vada come ambasciatore a Londra si crede successore di Bolivar… Sono stato ambasciatore a Londra dal 1996 al 2000. Lì ho avuto l’occasione di ricevere Chavez quand’era candidato alla presidenza e di presentarlo al pubblico inglese”.
Per convinzione o per dovere? All’epoca eri un funzionario del governo di Rafael Caldera
Io vengo dall’ala progressista del Copei, il partito social-cristiano. Ho una formazione ideologica basata nella visione sociale del cattolicesimo propensa alla giustizia, alla democrazia, al bene comune. Anche i genitori di Chavez erano copeiani. Comunque mi toccò riceverlo perché rappresentava una parte di quel che pensava il paese, mi era già capitato con personaggi del capitalismo neoliberista come Henrique Salas Romer. Caldera non mi richiamò, solo ebbe modo di dire: “A Roy è scappata di mano la situazione”. Comunque ascoltammo Chavez, fu un successo. Da allora, alcuni lo seguirono, altri fecero orecchie da mercante. Allora era ultimo nelle inchieste, io avevo dubbi perché pensavo alla mia situazione personale, ero vincolato all’establishment, ben trattato sia dal mio partito che dalla socialdemocrazia, ma al momento di emettere il voto agii d’istinto e lo detti a Chavez: perché il paese era molto più importante dei miei interessi personali. Non mi sono mai pentito, avevo sentito subito che quella era la mia strada. Chavez parlava un linguaggio per me consueto: giustizia sociale, democrazia, bene comune, libertà. E non erano parole vuote.
E poi, qual è stato il tuo percorso?
Per la prima volta ho chiesto un’ambasciata, un incarico a cui i diplomatici presuntuosi non ambivano, l’ambasciata di Bogotà, che io consideravo invece importante dal punto di vista professionale, e infatti è stato un luogo di grandi battaglie. Quando ci fu il golpe del 2002 mi trovavo a Caracas, ma tornai a Bogotà nella notte e convocai una conferenza stampa. Fui il diplomatico che fece più rumore in quel frangente, perché nel paese non c’era modo di denunciare il golpe. Feci la mia battaglia, con le mie armi, quelle della parola. In seguito fui ambasciatore all’Osa e all’Onu.
Il fronte diplomatico è uno dei principali in cui il Venezuela deve difendersi dall’aggresione diretta dell’imperialismo nordamericano e dei suoi alleati. Come vedi la situazione?
Stiamo affrontando il mostro imperiale. Gli abbiamo pestato la coda e non gli è piaciuto, vuole eliminarci, ma ci stiamo difendendo bene, oggi abbiamo un eccellente ministro degli Esteri, Jorge Arreaza, di cui mi sento orgoglioso, così come di Samuel Moncada. Abbiamo avuto un succedersi di ambasciatori e diplomatici di grande statura, ognuno a suo modo perché si tratta di personalità differenti. Di fronte al rischio concreto di un intervento militare, a livello diplomatico possiamo inibire il nostro nemico e anche moltiplicare i nostri alleati.
Un’eventualità non facile, data la congiuntura. Molti paesi, anche europei, hanno riconosciuto Guaidò che addirittura ha inviato improbabili ambasciatori
Aver riconosciuto questo “White Dog” è stato un grave errore diplomatico, perché a chi dovranno chiedere un visto, con chi dovranno firmare un accordo commerciale quegli stati se non con il governo legittimo, quello chavista? La nomina di “ambasciatori” è una cosa ridicola. Come potrà accettarlo il Brasile che, indipendentemente dalla posizione politica, ha una tradizione rispettabile di diplomazia?
Vedi possibile una balcanizzazione del Venezuela?
Dubito che ci siano le condizioni, ma di certo c’è l’intenzione. Quando penso alla Jugoslavia prima che venisse frammentata, sento un dolore e una profonda nostalgia per la scomparsa di quel mondo, di quei grandi diplomatici dell’epoca di Tito. Oggi ci sono il Montenegro, la Croazia, la Bosnia Erzegovina, la Serbia… Un disastro totale. E la Libia non è più un paese. Di certo gli interessi Usa sono quelli di dividerci e frammentarci per sottometterci.
Come abbiamo visto anche di recente, durante le giornate del 23 e 24 febbraio, l’attacco viene dalla Colombia. Secondo la tua esperienza, fin dove può spingersi il governo colombiano?
Noi abbiamo inventato la Colombia, Bolivar ne fu il creatore, ma abbiamo incontrato sempre l’opposizione dell’oligarchia. Una oligarchia miserabile, crudele e spietata, specialista in cocaina e in assassinii di presidenti e alleata degli USA: esiste un matrimonio di interesse tra il primo produttore di cocalina e il primo consumatore. La Colombia è un paese retto dalla violenza, specialmente quella del terrorismo di stato. E per di più ha truffato tutti con il racconto fantastico degli accordi di pace. Io ho partecipato ai negoziati con le Farc e poi con l’Eln. Sono andato diversi anni all’Avana, ho assistito alle riunioni tra la guerriglia e i militari e con i politici. Ho constatato che avevano più facilità a intendersi tra guerriglieri e militari che con i politici colombiani. Molti militanti delle Farc sono brillanti e colti, nonostante tutte le avversità, nella selva si prendevano il tempo di studiare. Sono stato anche a Quito per i negoziati con l’Eln: una guerriglia interessante perché ha tra le sue fila dei sacerdoti, come Camillo Torres ma anche il padre Miguel e altri, e si ispira ai principi della Teologia della Liberazione. La Colombia è il paese dei magheggi ma anche di grandi avvocati progressisti come Gait che non a caso è stato ucciso. L’ex presidente Santos, dopo aver ricevuto il premio Nobel per la pace, ha chiesto l’adesione alla Nato. Si stava preparando a pugnalarci alle spalle, come Caino. Poi è arrivata la tentata strage con i droni, il 4 agosto, con la quale hanno cercato di uccidere il presidente e tutto quel che stiamo vedendo. Secondo la mia personale inchiesta, da Bolivar a oggi, la Colombia ha il primato degli assassinii politici e di presidenti, seconda solo agli Stati Uniti. Se la situazione politica interna resta quella che è, dobbiamo solo prepararci al peggio.
L’imperialismo statunitense e i suoi alleati stanno aumentando la pressione economico-finanziaria sul Venezuela, mentre spingono per la sovversione interna attraverso il loro burattino Guaidò. Il Venezuela deve attrezzarsi per un lungo periodo especial come quello di Cuba?
Il popolo bolivariano non abbasserà la testa. Dovremo affrontare altre difficoltà, forse anche a lungo, ma la differenza tra quel che ha dovuto passare Cuba con il periodo especial e quel che ci attende è che il Venezuela ha le risorse. Ora, grazie alle relazioni con altri paesi solidali stanno arrivando cibo e medicine, si sta smontando il criminale mercato del dollaro parallelo. Resta, è vero l’alta inflazione a cui il governo rivoluzionario cerca di far fronte proteggendo il popolo con bonus e aumenti di salario e pensione. Ma la parola magica è: produzione. Dobbiamo ammettere che, come capitalisti, siamo stati incompetenti e pigri, abbiamo favorito un settore privato nazionale docile con l’imperialismo e improduttivo. Imprenditori che non sono minimamente a livello di quelli europei o statunitensi che, comunque, indipendentemente dalla loro natura, producono ricchezza. Abbiamo compiuto errori importanti in economia.
Perseverare nell’appoggio a questo tipo di imprenditori non significa perseverare nell’errore? Una parte del chavismo spinge per lo sviluppo dell’economia comunale, dell’autoproduzione e delle espropriazioni…Ci sono stati errori importanti in campo economico anche da parte di alcuni militanti del partito che non avevano competenze e hanno preso decisioni sbagliate in base a criteri politici. E ci sono anche molti esempi felici. Adesso siamo in una fase di rettifica e di revisione. Il tema della corruzione è molto importante, perché le somme di denaro rubate da un personale proveniente dalla IV Repubblica sono inimmaginabili, anche rispetto alla corruzione che ha preso piede nel chavismo. In questi giorni, per esempio, un italiano e sua moglie hanno rubato 2 milioni di dollari nell’arco dell’Orinoco. Altri, in precedenza, si sono portati via 5, 10 milioni prima di lasciare il paese.
Com’è stato possibile, perché questa mancanza di controllo?
Per la complicità di certi politici che permettono ad alcuni prestanome, di solito di origine straniera, di fare affari per conto terzi, tenendoli sottotraccia. Essere stranieri ha il vantaggio di non far pesare la vergogna sulla famiglia quando si viene scoperti a rubare. I casi di stranieri che fanno affari con la complicità dei politici è un retaggio del passato che va castigato severamente, e lo stiamo facendo. Siamo solo all’inizio del socialismo, l’influenza del capitalismo è ancora forte e rende difficile avanzare in fretta, ma lo stiamo facendo.
Il Venezuela si configura come un laboratorio per le guerre di nuovo tipo: è la Stalingrado di questo secolo, si è detto. Pensi vi sia il pericolo di una guerra civile?
Contro di noi c’è una guerra per il possesso delle risorse: non solo il petrolio, l’oro, il coltan. Ricordo le parole di un ministro dell’ambiente che ho accompagnato nel Foreign Office: la guerra del futuro sarà per l’acqua e per l’energia, mi ha detto. E noi abbiamo in abbondanza sia acqua che energia. Contro di noi si è scatenata anche una guerra mediatica. I proprietari dei grandi gruppi editoriali sono criminali. Ho cominciato a studiare il fenomeno negli anni ’60. Allora, in Venezuela, sia la socialdemocrazia che il Copei offrivano posti in parlamento in cambio di appoggio elettorale a giornalisti, editori, direttori di televisioni e giornali. Decisioni che spesso servivano solo parzialmente, perché il problema dei media va al di là del politico. Ha ha che fare con la trasmissione della gerarchia di valori imposti dal sistema capitalista, dai suoi interessi che diffondono a livello globale gli stessi modelli culturali e di consumo. Ora siamo alla dittatura mediatica che impone i suoi schemi di mercato a livello globale e colonizza le classi popolari. I grandi media sono nemici, bisogna assumerli come tali. Poi c’è il campo militare. In questo momento, il Venezuela è la più grande potenza militare del continente, in proporzione anche più del Brasile. Abbiamo un armamento di altissima qualità. Se la stupidità di personaggi come Duke, che governa un paese produttore di cocaina dovesse portarli ad aggredirci, potrebbero incontrare una risposta dura. Potremmo anche passare in territorio colombiano e, ovviamente proteggendo il popolo colombiano che è stato la prima vittima della guerra, colpire direttamente l’oligarchia, proseguendo il sogno di Bolivar. Se l’oligarchia colombiana vuole la guerra, le faremmo assaggiare il sapore della guerra che hanno imposto al popolo per tutti questi anni. Le faremmo assaggiare la cicuta. Non siamo soli. Grazie all’eccellente attività diplomatica, iniziata con Chávez e proseguita con Maduro, abbiamo con Cina e Russia quello che potremmo chiamare un solido matrimonio di convenienza da soci solidali, basato su apprezzamento e rispetto, come si è visto durante il voto al Consiglio di sicurezza che si è opposto all’aggressione USA. Quella di Stalingrado è un’esperienza terribile, ma quando si vince è meno terribile. E bisogna ricordare che l’Unione Sovietica ha sconfitto i nazisti anche approfittando della loro sottovalutazione. Pensavano di vincere una guerra-lampo e si sono trovati di fronte il “generale inverno”. Qui, l’imperialismo troverebbe un altro Vietnam. Detto questo, la guerra civile è un orrore, distruggerebbe il paese, produrrebbe ferite difficilmente rimarginabili anche per chi vince. Sarebbe una misera alternativa. E pensare che ci sono venezuelani che chiedono l’invasione armata del proprio paese per provocare una guerra civile. Io spero che Dio non li perdoni, che non li perdoni. Mai.