di Geraldina Colotti
Romain Mingus è un autorevole giornalista e saggista francese, membro del Secours bolivariano de Marseille, e della Rete Europea di solidarietà con la rivoluzione bolivariana. Lo abbiamo incontrato a Caracas, durante l’Assemblea internazionale dei popoli (AIP), che si è svolta dal 24 al 27 febbraio.
Che impressione hai avuto di queste giornate internazionali?
Sono venuti 500 delegati e delegate da 90 paesi: dall’Africa, dall’Asia, dal Nord America, dall’Asia, dall’Europa e ovviamene dall’America latina, soprattutto giovani. La maggioranza di loro non era mai stata in Venezuela, pensava di trovare un paese al collasso, una situazione simile a quella dello Yemen. Invece hanno trovato una situazione diversa da quella descritta dal sistema mediatico internazionale, e hanno potuto constatare che questo racconto forma parte della guerra psicologica nella quale i cittadini del mondo vengono considerati un bersaglio militare. Speriamo che tornando nei loro paesi si mobilitino contro questo infame blocco economico-finanziario, che provoca una serie di crisi economiche nel quotidiano dei venezuelani i quali, nonostante le difficoltà, sono decisi a risolvere i problemi in forma indipendente e sovrana, fuori da qualunque tipo di pressione.Un gran movimento di resistenza che è una lezione per i popoli del mondo.
Tu sei appena tornato dalla frontiera colombo-venezuelana, dove l’opposizione avrebbe voluto fare entrare con la forza presunti “aiuti umanitari”. Che cosa hai visto e che considerazioni ne hai tratto?
E’ stata un’offensiva preparata. Il punto era provocare un incidente sufficientemente grande da legittimare un’azione armata contro il paese bolivariano. Questo non è accaduto, ma ci sono stati vari problemi sul ponte. Bisogna ricordare che la frontiera tra Colombia e Venezuela è divisa dal rio Tachira. Il passaggio frontaliero avviene sul ponte binazionale che sormonta il fiume. Il conflitto si è concentrato sostanzialmente in tre punti: il ponte de las Tienditas, da cui è stata diffusa la famosa foto con i container. Il ponte fu costruito dal governo bolivariano per tentare di legalizzare il commercio frontaliero, ma siccome alla Colombia non conviene, non ha terminato di costruirlo, ha fatto lo stesso alla frontiera con l’Ecuador. Da las Tienditas, l’opposizione ha tentato di far passare il camion con il presunto aiuto umanitario. Il camion è andato a fuoco, incendiato dai “guarimberos”. Nei video che sono stati girati, si vede che la Guardia nazionale bolivariana era a cinque-dieci metri dal camion, al di là di una griglia metallica collocata dalla Colombia, non dal governo bolivariano. Volevano accusare Maduro di aver bruciato gli aiuti umanitari. Poi, si è scoperto che nel camion c’era materiale per rifornire la guerriglia urbana dei “guarimberos”. In un altro punto di frontiera, c’è stato uno scontro tra i paramilitari e 40 soldati dell’esercito bolivariano, che hanno resistito con l’aiuto della Forza Armata. Ma il grosso degli scontri si è svolto su un ponte simbolico, il ponte Simon Bolivar: quello su cui transitano giornalmente oltre 40.000 persone, quello su cui si sono costruite le fake news dell’”esodo” biblico dei venezuelani. In verità, si è filmata la lunga coda che si forma ogni giorno dalle 8 alle 10 di mattina composta dalle persone che vanno in Colombia per le più diverse ragioni. Non fuggono, tornano verso le 5-6 di sera, ma nessuna telecamera le filma durante il ritorno. Questo è un punto di molto contrabbando: di estrazione, di medicine, di benzina. In questa frontiera vigono dinamiche più complesse che in altre frontiere, anche per la particolarità della Colombia, dove gran parte del contrabbando della benzina è legalizzato da una legge del 2001. Serve per la produzione di cocaina, non può essere un acquisto legale, e sappiamo quanto peso abbiano la cocaina e il riciclaggio di denaro sporco nell’economia colombiana. Il 23 febbraio c’è stata una vera e propria battaglia durata 15 ore. Alle 7 di mattina, una campana ha dato il segnale perché alcuni soldati dell’esercito e altri amministrativi che non comandavano truppe rubassero due blindati e forzassero il posto di blocco, per arenarsi sul ponte, ferendo anche alcuni colombiani che stavano dall’altro lato. Immaginate cosa sarebbe successo se lo avessero fatto in un paese d’Europa, sarebbe stato considerato terrorismo. Questa è stata la prima azione. L’idea era quella di costruire l’immagine del Venezuela che aggrediva la Colombia. Dalla frontiera parte un ponte che sbocca in una strada principale di San Antonio del Tachira, è come una linea retta. Da lì sono arrivati gruppi di persone a chiedere ai militari bolivariani che per favore facessero passare gli aiuti umanitari, che cessassero di proteggere quella “dittatura”, eccetera. Il circo è durato circa mezz’ora, ad uso e consumo dei media. Poi quelle stesse persone si sono trasformate in assalitori urlanti che minacciavano le guardie: “Maledetti – gridavano – vi bruciamo vivi”. Dal lato di San Antonio hanno cercato di rompere la barriera della Guardia Nazionale, ne hanno abbattuta una e sono passati dall’altro lato, dove c’erano 40 Guardie nazionali. A questo punto si è mobilitato il chavismo organizzato: anziani, donne, una marea di persone disciplinate, decise a difendere il ponte e la vita della Guardia nazionale. Dopo mezz’ora di combattimenti, durante i quali ci hanno tirato addosso pietre, molotov e anche pallottole, i mercenari se ne sono andati. L’altra cosa interessante è che si è catturato un assalitore dal lato colombiano e lo si è portato dall’altra parte, dove ha confessato che lo avevano pagato con 40 dollari. Il 25 ho anche assistito a un incontro surreale tra il tenente colonnello Osorio della Guardia Nazionale Bolivariana del Tachira e un gruppo di 100 guarimberos che chiedeva di tornare in Venezuela perché non era stato pagato. Un generale, fuori dalle telecamere, ha detto loro che avrebbero valutato la situazione ma che, per il momento, era meglio che stessero sotto la protezione dello Stato venezuelano. Che strana dittatura, vero? Sul ponte ho visto agire il chavismo organizzato, per gruppi e disciplinato, ognuno nella sua trincea: la logistica agli anziani, alle donne la staffetta con la prima linea. Lì c’era il popolo, pronto a difendere la propria indipendenza con un esempio eroico di unione civico-militare. Altro dato da sottolinerare è che la Guardia Nazionale Bolivariana non portava armi letali, solo gas lacrimogeni e proiettili di gomma, per questo non ci sono stati morti.
E i due concerti contrapposti, come sono andati?
Da un lato quello dei miliardari, dall’altro quello gratuito e popolare. Al primo ci saranno state 20.000 persone, una cifra considerevole ma inferiore alle aspettative, considerato che, già dal giorno prima, tutti i media stavano pubblicizzando il concerto che poi hanno trasmesso in diretta. Io ero a Cucuta, pensavo di rimanere intossicato da tanto odio. Per lo meno, le cose erano chiare: nessuno parlava più di aiuto umanitario ma di “ammazzare il tiranno”, far cadere “la dittatura” eccetera. Quando ho ripassato la frontiera avevo i polsi che mi tremavano.
Tutte le maschere sono cadute. Che può succedere ora?
Vorrei ancora aggiungere un dato che non è stato messo in risalto abbastanza.
Il fronte economico è quello più difficile
Idea è quella di destrutturare l’economia per incidere sulla vita quotidiana della popolazione. Il Venezuela ha di fronte vari compiti: il primo è quello di recuperare la produzione petrolifera che è in fase di stagnazione o è diminuita, di stabilizzare la moneta sottomessa al brutale attacco speculativo. Già ora il cambio parallelo del dollaro non conviene più, si annuncia un periodo di stabilizzazione e di adeguamento dei salari. Quando si dice che sono bassi non si tiene conto di tutte le coperture sociali che ci sono, del fatto che quasi non si pagano i servizi e che le borse di alimentazione CLAP, che arrivano goni 15 giorni sostengono oltre 6 milioni di famiglie. Con l’aiuto di altri paesi, il Venezuela può venirne fuori, e se ce la fa, l’opposizione sa che non potrà tornare al potere per i prossimi cinquant’anni. Una prospettiva che le fa perdere la testa, fino al punto di promuovere il bombardamento del proprio paese, e fare cose che in Europa come minimo ti porterebbero in carcere o a essere ammazzato.
Le aree radicali del chavismo chiedono che si assuma il controllo completo dei mezzi di produzione, che si approfondiscano le nazionalizzazioni, che si rinegozi il debito, per evitare che ogni correttivo venga puntualmente depotenziato. Qual è la tua opinione?
Quasi tutti i settori strategici sono stati nazionalizzati, a parte il commercio estero: e meno male perché altrimenti non ci sarebbero più scappatoie adesso che lo stato è sottoposto a enormi sanzioni e privazioni alla sua economia e alla rete bancaria. Meno male che esiste un settore privato che agisce da intermediario e anche così viene sottoposto a sanzioni quando cerca di comprare rifornimenti per il Venezuela. Una settimana fa, sono state bloccate in Spagna 200.000 scatole di medicine per infermità croniche, che una impresa privata aveva comprato all’Iran via Qatar. Quindi meno male che non si è applicato alla lettera il marxismo ortodosso, altrimenti la situazione sarebbe ancora più complicata… Il tema della moratoria del debito è un dibattito pertinente, tuttavia occorre ricordare che buona parte del debito non riguarda l’FMI o la Banca Mondiale, ma paesi come Russia e Cina, una situazione in cui l’economia incrocia la politica e le relazioni internazionali.
Che pensi di quegli ex ministri chavisti e di quegli intellettuali europei che apparentemente criticano Maduro da sinistra ma poi si precipitano a incontrare Juan Guaidó?
Come sempre si parla del dato minimo senza confrontarlo con quello generale. Ci sono 5 o 6 ex ministri di Chavez che sono contro Maduro e hanno incontrato Guaidó, ma io ho contato quanti ministri ha avuto Chavez e sono stati 241! Perché non si parla del 97% dei ministri che continua ad appoggiare la rivoluzione? Il mondo intellettualoide che sostiene chi considera Guaidó “molto più legittimo di Maduro”, come hanno detto gli ex ministri dop ol’incontro, dovrebbe uscire dall’ambiguità, e dichiarare una volta per tutte da che parte stare. Io sono stato alla frontiera, e dai due lati c’erano due campi contrapposti. Io invito questi pensosi intellettuali di sinistra a mettere una tartaruga in mezzo a quei due campi e vedere per quanto tempo rimangono vivi. Qui non c’è una terza via, qui ci sono due trincee contrapposte, il resto è discussione da bar sconnessa dalla realtà, dal popolo e dal fronte di battaglia.
Tu fai parte della Rete europea di solidarietà alla rivoluzione bolivariana. Quale dovrebbe essere la sua agenda oggi?
Intanto, assumere l’ottica giusta. Il Venezuela è un paese ricco, non servono raccolte fondi come si è fatto per altri processi rivoluzionari. Questo è un paese a cui sono stati bloccati 34 miliardi con cui potrebbe comprare quel che gli serve. Bisogna lottare contro il blocco economico-finanziario. Non serve neanche immaginare romantiche brigate di combattenti. Il Venezuela non ne ha bisogno, ci sono 12 milioni di persone in armi. Il primo fronte di lotta è quello della comunicazione, la guerra psicologica che ci considera bersagli militari nella guerra di quarta generazione. Dobbiamo coinvolgere artisti, politici, organizzazioni sindacali, favorire le brigate di interscambio che consentano alle persone di rendersi conto direttamente del perché si debba lottare per difendere il Venezuela. Dobbiamo funzionare da moltiplicatori della verità, bucare il muro di menzogne nei nostri paesi.