Perché gli USA non considerano l’opzione militare

Mision Verdad –  http://aurorasito.altervista.org

La minaccia militare nel conflitto venezuelano si intensificò nel 2019 con l’auto-proclamazione di Juan Guaidó, la cui leadership, costruita nei corridoi della Casa Bianca e la campagna internazionale per legittimarlo come “presidente ad interim” per sintetizzare il cambio di regime nel Paese, è segnata da frequenti indicazioni dai vari emissari del governo degli Stati Uniti, tra cui il presidente Donald Trump, che “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Tale allusione all’uso della forza militare era finora considerata un’ipotesi.

È una delle opzioni meno allettanti nonostante il fatto che azioni irregolari di destabilizzazione non abbiano eroso il sostegno al governo di Nicolás Maduro presso la base sociale venezuelana. Il 4 aprile, il rappresentante del dipartimento di Stato per il Venezuela, Elliott Abrams, chiariva: “Sarebbe prematuro che l’opposizione venezuelana richieda l’intervento perché Europa, America Latina e Stati Uniti non lo prendono in considerazione”. Senza abbandonarlo completamente, gli Stati Uniti studiano lo scenario della guerra, i quasi ovvi attori geopolitici eurasiatici che ne sarebbero automaticamente coinvolti e le possibili conseguenze che avrebbe sul declino che soffrono attualmente, diffondendo un conflitto oltre il loro controllo fallendo negli obiettivi.

Perché gli Stati Uniti non possono vincere le guerre con mezzi militari

Nella storia contemporanea, osserviamo la ripetizione degli effetti morali della sconfitta in Vietnam, ora con l’aggiunta dei Paesi presi nello scontro, partecipare allo sviluppo di formule per esaurire tale risorsa di potere negli scenari futuri. Uno sguardo ai risultati delle ultime operazioni militari statunitensi in Afghanistan, Iraq e Siria, con pesanti spese militari, confermano il fallimento militare globale del Paese nel tentativo di tenere esclusivamente con la minaccia di guerra, il predominio di spazi commerciali vitali e, quindi, la posizione privilegiata egemone, in un momento in cui il centro del potere passa alle potenze emergenti guidate da Cina e Russia. Secondo l’autore nordamericano Stephen B. Young, i fallimenti degli Stati Uniti nelle campagne belliche sono dovute al fatto che usa solo gli estremi del potere duro e morbido, cioè le operazioni militari e l’assedio finanziario per attaccare direttamente un Paese o azioni copertura del tipo “Primavera araba” per formare legioni ribelli che appropriandosi delle pretese della democrazia occidentale, apportano cambi di regime. Young sostiene che nelle politiche di sicurezza nazionale “sia il potere rigido che quello morbido vengono applicati unilateralmente, quindi il peso del successo ricade principalmente su noi stessi”. Non è che ogni punto di conflitto sia affrontato solo dagli statunitensi, ma sempre più le alleanze di Washington con altri attori politici del mondo avvengono con la subordinazione ad ordini dettati senza consenso. Quando falliscono le operazioni, rovinano l’immagine della potenza unipolare che si proietta nei Paesi conquistati, mettendo a rischio la cultura della cieca lealtà. L’esempio può essere visto in Europa e la frustrazione della società coi governi che si traduce in disordini di massa come i gilet gialli in Francia, e l’emergere di movimenti nazionalisti che flirtano con i nemici commerciali statunitensi (il caso dell’Italia e della sua decisione di partecipare alla nuova via della seta della Cina). Nella maggior parte dei casi, i Paesi della NATO hanno rispettato gli ordini degli Stati Uniti di attaccare i Paesi di Africa, Medio Oriente ed ‘Europa orientale, ma in occasioni recenti, come nell’assedio all’Iran, hanno deciso soluzioni diplomatiche, mostrando vulnerabilità economica percepita nel finanziamento delle incursioni all’estero. In tali circostanze, imitare tale modello nell’America Latina, approfittando del sostegno pubblico delle fazioni di estrema destra installatesi al posto dei governi precedentemente progressisti, è una mossa imprudente.

Posizione eurasiatica di fronte al declino della minaccia occidentale

Una volta che i gruppi neoconservatori riconquistarono le principali posizioni di potere nell’amministrazione Trump, le linee tracciate degli obiettivi strategici della nazione si radicavano nella escalation di conflitti simultanei. I comunicati ufficiali nel voler aggredire il Mar della Cina, Corea democratica, Iran, Crimea e ora Venezuela, si alternavano rappresaglie ai passi coordinati da Mosca e Pechino per costruire nuovi modi di interagire commercialmente con altre regioni. In effetti, le aggressioni soprattutto al livello finanziario hanno solo accelerato l’iniziativa che, al momento attuale, consente al multilateralismo d’influenzare con la deterrenza le vie armate per attaccarlo. Russia e Cina si difendono dall’assedio politico degli Stati Uniti, usando un’identità nazionale rafforzata nelle radici culturali e rispettando quella di altre nazioni secondo i loro codici, offrendo relazioni militari e commerciali con accordi diplomatici basati sulla reciproca approvazione proteggendo ogni processo autonomo. Una differenza abissale che grava sull’egemonia liberale degli Stati Uniti.

Intervento in Venezuela: variabili contrarie, fattori negativi e costi

Di fronte a questo scenario geopolitico sfavorevole agli Stati Uniti, viene presentata l’opzione militare in Venezuela. I media corporativi contribuivano a gran parte delle analisi che pesano le variabili di una guerra nel territorio sudamericano. Sottolineano il massiccio rifiuto che questa insinuazione generava nell’opinione pubblica internazionale, anche coll’argomentazione propagandata secondo cui in Venezuela esiste una crisi umanitaria paragonabile allo Yemen. Né i Paesi più ostinati nel cambio di regime de Chavismo, né le organizzazioni multilaterali, intendono accompagnare pubblicamente l’affermazione. Così, lo stesso Elliot Abrams, inviato speciale di Washington per il Venezuela, doveva ricalibrare il discorso belluino, negando lo sviluppo di tale scenario come immediata azione successiva. Ma la mancanza di consenso globale e l’evidente appoggio diplomatico dei governi di Cina e Russia al Venezuela non sono gli unici fattori che trattengono la Casa Bianca. In una nota pubblicata da The Guardian nel gennaio 2019, venivano presi in considerazione i precedenti interventi militari aperti nell’America Latina. I riferimenti più immediati erano Granada e Panama nel 1983 e nel 1989, e poi ad Haiti nel 1994. In tutti i casi, gli Stati Uniti l’intrapresero con un’alta probabilità di successo, poiché si tratta di piccoli Paesi con formazioni militari irrilevanti. Prima di essi, il giornale affermava che “il Venezuela non è Granada o Panama, i due Paesi latinoamericani invasi dagli Stati Uniti durante gli ultimi giorni della Guerra Fredda”, aggiungendo le chiare differenze della componente militare venezuelana. Esaminando solo gli aspetti statistici, il Paese attualmente ha maggiore vicinanza militare con la regione araba che coi Paesi centroamericani e caraibici, trovandosi addirittura nella classifica mondiale del sito Global Firepower sopra Siria ed Iraq, che sconfissero sul campo i gruppi mercenari dello Stato Islamico finanziati dagli Stati Uniti, oltre a forzare il ritiro delle loro forze militari installatesi lì. Più preoccupante è il fatto che in Colombia si trovano diversi posti sotto, in quanto è l’unico candidato alla frontiera che ha prestato territorio e soldati alle operazioni speciali per addestrare e monitorare le cellule terroristiche che entrano nel Paese, a differenza del Brasile, Paese con maggiori proporzioni militari che con Bolsonaro ha rafforzato le relazioni cogli Stati Uniti, ma che nel piano militare respinge con insistenza l’intervento. Oltre alla dotazione tecnologica militare, fornita principalmente dagli accordi con la Russia, il Venezuela ha un tessuto caratterizzato da una forte unione civile-militare. I tentativi falliti di una defezione considerevole delle Forze armate nazionali bolivariane (FANB) rivelano che gli Stati Uniti non trascurano questo fattore. Un articolo di opinione di Shannon K O’Neily pubblicato dal media finanziario Bloomberg, spiega che stimando la presenza del Chavismo al 20%, “è quasi certo che queste persone combatteranno una campagna non convenzionale”, in caso d’ intervento militare. Un aggregato civile, organizzato in movimenti sociali e politici, con 160000 combattenti attivi delle FANB, che richiederà la partecipazione di 150000 truppe statunitensi regolari. Le operazioni multinazionali sviluppate nella regione dell’America Latina, non sono una garanzia di vantaggio. Negli ultimi anni, il Comando Sud degli Stati Uniti aumentava le esercitazioni militari nelle vicinanze del Venezuela. Questo è il caso dei “Vientos Alisios” (con la partecipazione dei Paesi caraibici) e dell’”Operazione America Unida” (nel triplice confine tra Brasile, Colombia e Perù) sviluppati nel 2017 sotto l’ipotesi di gestire situazioni di calamità. Nonostante ciò, i Paesi coinvolti sono riluttanti al conflitto armato, perché non si sentono preparati militarmente ad affrontare uno scenario simile a quello dell’Iraq, riconoscendo che la campagna durerebbe anni. D’altra parte, gli effetti di un’enorme ondata migratoria scatenata dall’invasione non sono indifferenti per i capi politici di Washington, essendo così vicini al conflitto. Tenendo conto delle politiche migratorie attuate dagli Stati Uniti contro i migranti economici venezuelani nel 2017 e 2018, negandogli asilo politico e deportandole in alcuni casi, è improbabile che in un ipotetico caso di esodo saranno disposti a fornire supporto logistico ai rifugiati della guerra. Altre contraddizioni emergono dall’analisi dell’incursione militare. The Guardian avverte che “se la Siria è un punto di riferimento, sostenere un milione di rifugiati costerà tra i 3 e i 5 miliardi di dollari l’anno”. Fino ad oggi, meno di 70 milioni di dollari sono stati erogati per finanziare aiuti umanitari.

Proprio la gestione di tali variabili, motiva quella parallela al discorso belluino degli Stati Uniti, e il Canada appare condurre azioni coperte dalla diplomazia a sostegno del governo fittizio di Guaidó, coprendo le lacune lasciate dalla spinta al confronto aperto. L’inefficacia dei metodi da golpe morbido (affidati a figure dell’antagonismo locale) per entrare in contatto con la società venezuelana coi raid destabilizzanti del 2014 e del 2017, ne derivavano anarchia ed ingovernabilità nelle aree in cui il governo era in svantaggio. L’esperienza di quei momenti di estrema violenza mosse i settori indecisi verso le proposte del ritorno alla pace che lo Stato seppe mettere sul tavolo. Ora Juan Guaidó, volto commerciale delle interferenze straniere, esorta apertamente all’intervento militare, rendendo difficile alle operazioni non convenzionali catalizzare il disagio causato dal sabotaggio ai servizi di base e trasformarlo in violente proteste che coprano l’infiltrazione di gruppi armati, emulando le rivoluzioni colorate precedenti.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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