di Geraldina Colotti
La foto è di quelle che stimolano pietà e indignazione. Ritrae una donna affranta su una sedia. Il telefono abbandonato sul tavolo accanto agli occhiali indica che ha appena ricevuto una notizia catastrofica, che l’ha annientata. Di fianco, si vede un piccolo altare votivo con la foto di un giovane scomparso, simile a quelli mostrati in Messico dalle madri dei desaparecidos, o in Europa sulle strade che stroncano giovani vite per l’alta velocità.
In questo caso, invece, la scena indica che si tratta del Venezuela, rappresentato da una bandiera con 7 stelle anziché 8, quella esibita dall’opposizione antichavista. E’ una pagina di Amnesty International. Il titolo, a caratteri cubitali, cancella ogni dubbio sulla presunta “imparzialità” dell’organizzazione: “Venezuela: i crimini di lesa umanità richiedono una risposta forte da parte della giustizia internazionale”.
La direttrice per le Americhe, Erika Guevara Rojas, non ha d’altronde mai perso occasione per attaccare a testa bassa il governo bolivariano, usando il potente strumento di cui dispone. Adesso rinnova l’attacco nel rapporto “Fame di giustizia: crimini di lesa umanità in Venezuela”, costruito intorno agli avvenimenti occorsi nel paese bolivariano dal gennaio del 2019. Neanche un piccolo biasimo per i tentativi destabilizzanti compiuti dal golpismo venezuelano, ma anzi la denuncia di “una politica sistematica di repressione contro persone di opposizione o percepite come tali semplicemente per il fatto di protestare”.
Una conferma in più del ruolo svolto dalle grandi agenzie dell’umanitarismo nella costruzione di una opinione pubblica internazionale prona agli interessi di chi, in fin dei conti, regge i cordoni della borsa in una catena di finanziamento diretto o per procura: l’imperialismo USA. Un racconto che, in quanto basato sulla retorica vittimistica e non sugli inevitabili costi del conflitto di classe in un mondo di disuguaglianze, vede le colpe da una parte sola. E così, i sopravvissuti e i parenti delle vittime delle violenze fasciste in Venezuela (le guarimbas) non sono riusciti a farsi ricevere in nessuna sezione di questi “organismi per i diritti umani”.
La caduta dell’Unione Sovietica ha certamente aumentato il peso delle grandi agenzie dell’umanitarismo, in modo direttamente proporzionale alla perdita di egemonia della sinistra a livello europeo, dovuta al giro di volta verso il moderatismo, compiuto dai partiti comunisti e socialisti. Le agenzie per la sicurezza USA, però, lavoravano già da tempo sui meccanismi del consenso: per costruire un’opinione pubblica favorevole al dominio capitalista, oggi prevalente a livello globale.
La guerra di quarta e quinta generazione mossa dall’imperialismo contro i popoli che, come Cuba o Venezuela s’intestardiscono a voler cercare una propria strada è anche e fortemente di tipo culturale. La guerra più grande che ci fanno – scriveva José Marti – è sul piano del pensiero ed è proprio sul piano del pensiero che dobbiamo vincerla.
La guerra che ci fanno è il titolo di un libro di Raul Capote, tradotto ora in Italia da Claudia Proietti e pubblicato dalla casa editrice Red Star Press in collaborazione con l’Associazione di Amicizia Italia-Cuba e Patria socialista. Capote, scrittore e professore cubano che si è infiltrato nella CIA per conto del suo paese, è oggi caporedattore esteri al Granma. Dopo aver raccontato la sua esperienza in vari libri, qui spiega in prospettiva storica e con una solida impostazione marxista come si articola la guerra culturale contro Cuba e non solo.
Gli Stati uniti hanno cominciato a lavorare ai meccanismi di costruzione del consenso all’indomani della Seconda guerra mondiale. La CIA ha usufruito dell’armamentario spionistico dei nazisti sconfitti dall’Armata Rossa sovietica. Ha creato un fronte ideologico a lungo termine concependo la cultura come scenario di guerra psicologica teso a condizionare le menti e le volontà.
Il progetto ha avuto inizio con l’operazione Okopera il cui primo compito fu quello di demolire la simpatia per l’ideale socialista e divulgare in tutta Europa la cultura e lo stile di vita nordamericano. Il Congresso per la Libertà e la Cultura (CLC) fu il principale strumento di questa operazione, costruito attraverso un’organizzazione con sede a Parigi e con l’appoggio dei servizi segreti francesi e inglesi. Ebbe uffici in 35 paesi, organizzò eventi e conferenze a livello internazionale con prestigiosi intellettuali (consapevoli o inconsapevoli), finendo per controllare tutta l’industria culturale occidentale.
Una macchina che si è affinata con il tempo mediante squadre multidisciplinari che abbracciarono tutte le manifestazioni artistiche, creando organizzazioni e progetti a questo fine. Oggi la CLC non esiste più ma la CIA non ha abbandonato la sua missione, e l’obiettivo centrale resta il medesimo: distruggere il socialismo in tutte le sue forme, manipolando le coscienze a questo fine.
Cuba è sempre nel mirino. Il Venezuela è nel mirino, in quanto “minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”. La minaccia delle camicie rosse, indossate dai giovani che pensano e si percepiscono come costruttori di un mondo diverso e non come homo frivolus: “senza valori, incolto e banale, ribelle senza causa, schiavo del mercato, assolutamente irresponsabile”. Un tipo umano costruito dall’industria culturale in modo suadente e pervasivo: “La vendetta dello stupido promossa dal capitalismo – scrive Capote – è legittimata dall’industria delle relazioni pubbliche, da intense campagne di propaganda, dalla costruzione di icone e dall’ingegneria del consenso, dal mercato e la sua religione e dall’egoismo feroce”. Campagne di propaganda portate avanti a suon di dollari anche dalla grande industria dell’umanitarismo, che capovolge i simboli, demolisce figure, governi e ideali usando la retorica dei “diritti umani”.
Guerra culturale che prepara le guerre di nuovo tipo. Ci vuole una fantasia perversa per sostenere che i medici cubani, che si recano in ogni parte del mondo senza imporre “piani di aggiustamento strutturali” come fa il Fondo Monetario Internazionale siano “ridotti in schiavitù” dal proprio governo. Eppure funziona. L’argomento fa presa sull’homo frivolus occidentale, rendendolo pronto a difendere i “diritti umani” di quei medici che, sedotti dalle sirene del capitalismo, tradiscono i propri ideali: pronto ad accettare che il grande circo dell’umanitarismo denunci Raul Castro e il presidente di Cuba Diaz-Canel alla Corte Penale internazionale.
Definire “dittatura” la democrazia partecipata venezuelana, che in vent’anni ha organizzato 25 elezioni, è una menzogna grossolana. Eppure funziona se a diffonderla sono organizzazioni “umanitarie” con la patente di imparzialità. Lo stesso schema viene applicato al Nicaragua, e per il medesimo obiettivo: preparare “una risposta forte” dell’imperialismo che, come si è visto nell’invasione dell’ambasciata del Venezuela a Washington, possa permettersi di calpestare senza problemi anche la legalità internazionale.
Raul Capote sarà oggi a Roma (alle 18, Archivio del Movimento Operaio e Democratico, via Ostiense, 106), intervistato dal giornalista Fabrizio Casari.