di Geraldina Colotti
A sei mesi dalla comparsa dell’avatar Juan Guaidó, scelto dagli USA per imporre al Venezuela un nuovo gioco di guerra, a che punto stanno le cose?
Di sicuro l’immagine dell’autoproclamato si va diluendo come un puntino fastidioso, ancorché persistente. Un rumore di fondo, sempre meno adatto a rappresentare la propria utenza, foss’anche come comunità virtuale: quella venduta dai media come un’alleanza, pur essendo composta da bande fameliche in lotta per il bottino.
Ancora una volta, il governo bolivariano ha dato prova di grande avvedutezza, sia sul piano interno che su quello internazionale. Nel complesso e difficile contesto internazionale, fatta la tara fra costi e ricavi, lasciar cuocere l’autoproclamato nel suo brodo di discredito, si è rivelata una buona strategia. Ha mostrato l’inconsistenza del personaggio e quella del progetto virtuale che gli hanno voluto cucire addosso i suoi padrini multinazionali: quegli stessi che ora se lo rimpallano con un imbarazzo sempre crescente, come emerge dalle varie dichiarazioni provenienti dagli USA o dalle definizioni che lo derubricano da presunto presidente “incaricato” a presidente dell’Assemblea Nazionale (“in ribellione”).
E così, persino le inchieste più partigiane, come quella compiuta il 2 giugno da Datincorp, devono ammettere che “ Guaidó sta scendendo nelle aspettative dei venezuelani”. Significa che l’avatar del “vamos bien” (andiamo bene), che l’ironia popolare ha già modificato in “ro-vamos bien” (rubiamo bene) ha perso consenso in quei settori che lo hanno visto come una speranza di riportare a Caracas lo schema di Miami. I settori popolari confidano invece nel presidente legittimo, Nicolas Maduro, eletto a maggioranza per il secondo mandato, il 20 maggio del 2018.
Messo a dura prova da un’infinità di attacchi – di natura economica, mediatica o militare, da quello con i droni esplosivi del 4 agosto 2018 fino ai più recenti tentativi destabilizzanti organizzati dagli USA con l’avatar-Guaidó – Maduro ha moltiplicato gli appelli al dialogo, impostando principalmente su quel cammino la strategia diplomatica del governo bolivariano.
La voce della ragione, della sovranità e del diritto dei popoli a decidere del proprio destino, è riuscita a contenere l’arroganza del complesso militare-industriale nei principali organismi internazionali, rafforzando il campo di quanti si muovono nell’ottica di un mondo multipolare. La forza dei fatti, che come sempre hanno la testa dura, contro quella di organismi virtuali (il gruppo di Lima, il Prosur, eccetera), nati come artifizi per imporre la nuova Dottrina Monroe con la quale i falchi del Pentagono tentano di assoggettare ancora il continente latinoamericano. La forza del popolo organizzato contro le maschere dei lestofanti che vogliono solo rimettere la mano sulle risorse del Venezuela: la “guerra di tutto il popolo assunta come parte della dottrina bolivariana”, ha detto Maduro annunciando nuove misure di protezione sociali per le “vittime della guerra economica”.
“L’opzione militare è ancora sul tavolo”, dichiarano però i falchi del Pentagono tirando per la giacca Donald Trump. E tutto può accadere. L’anno prossimo vi saranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Trump deve conquistarsi il voto duro e reazionario degli ispanici della Florida, uno dei 12 stati che decide l’elezione presidenziale. Cancellare il Venezuela, Cuba e il Nicaragua, cambiando la geopolitica della regione, è una grossa tentazione, anche se si tratterebbe di valutarne i costi: quelli di un nuovo Vietnam difficile da sostenere, sia in termini di opinione pubblica che di spese addizionali.
Il fronte dei guerrafondai 2.0 è spaccato, anche grazie all’abilità politica del governo bolivariano. A chiedere apertamente l’intervento armato restano vecchi golpisti riparati all’estero, come Borges e Ledezma, o l’immarcescibile Maria Machado, furiosa contro l’autoproclamato che ha mandato i suoi “emissari” a Oslo, dov’è in corso il dialogo con il governo. Lo stesso padre di Leopoldo Lopez – neoeletto deputato europeo ispano-venezuelano nelle fila del Partito Popolare – si è messo il colletto bianco, dichiarando di non condividere l’opzione armata contro il proprio paese.
Ma si sa che la destra venezuelana parla sempre con lingua biforcuta. E, infatti, l’inviato speciale degli USA per il Venezuela, Elliott Abrams, da Washington si è precipitato a imbeccare la delegazione di Guaidó su come “coordinare gli sforzi per arrivare alla fine dell’usurpazione” (così ha scritto in twitter l’autoproclamato). E il deputato Carlos Vecchio si è fatto fotografare insieme al vicepresidente USA, Mike Pence, e al capo del Comando Sud, l’Ammiraglio Craig Faller alla partenza della “nave ospedale” USNS Comfort, il 19 di giugno. Un carico di 1000 marines e volontari medici, molti dei quali venezuelani – ha spiegato Vecchio in twitter – che vanno ad assistere per 5 mesi gli sfollati venezuelani.
Una nave da guerra mascherata da ospedale, come quella che ha scaricato 300 marine pronti a reprimere il popolo honduregno in lotta contro la dittatura di Juan Orlando Hernandez. Una riedizione del tentativo di invasione, mascherato da aiuto umanitario, respinto dal popolo venezuelano alle frontiere con la Colombia e con il Brasile il 23 febbraio? Questa volta l’attacco potrebbe arrivare via mare. L’Olanda, di nuovo in prima fila nella disponibilità a chiedere nuove sanzioni contro il governo bolivariano, regge gli interessi imperialisti a partire da tre isole considerate suoi territori “autonomi”, molto vicine al Venezuela: Aruba, Bonaire e Curazao, crocevia di traffici ai danni del socialismo bolivariano.
A Curazao sono ancora stoccati gli “aiuti umanitari” provenienti da Miami e targati USAID.
“Oggi – ha detto in un’intervista il noto oppositore Jaime Bayly – non c’è bisogno di rischiare la vita dei soldati come nell’invasione di Panama, vi sono mezzi tecnologici più sofisticati”. Lo si è visto durante il micidiale sabotaggio alla rete elettrica e lo si vede con il killeraggio economico-finanziario ai danni del Venezuela. La decisione degli Stati Uniti di sottrarre il controllo operativo e finanziario dell’impresa Citgo per darlo all’autoproclamato non ha precedenti nella storia del paese. Citgo costituisce la principale fonte di introito all’estero del Venezuela.
Si tratta dell’ottava raffineria statunitense per grandezza: 750.000 barili al giorno, il 4% del combustibile del paese, fornito attraverso una rete di circa 5.000 stazioni di servizio in 30 stati. Nonostante il governo bolivariano abbia sempre pagato i debiti, Trump ha rubato le risorse del popolo venezuelano trasferendole nelle tasche del suo burattino Guaidó. Il tentativo di strangolare la rivoluzione bolivariana è proseguito con il furto dell’oro custodito nelle banche europee e con la pressione esercitata sui paesi dipendenti più ricattabili dagli USA: “Guai alle imprese che faranno affari con la PDVSA”, ha minacciato ancora in questi giorni l’amministrazione USA.
E gli amministratori abusivi, nominati dall’autoproclamato nell’impresa petrolifera di Stato Petroleos de Venezuela, in base a una legge recentemente approvata dal parlamento giamaicano, hanno chiesto alla Giamaica di espropriare la raffineria Petrojam, nella quale PDVSA detiene il 49% delle azioni. “In questo momento, il Venezuela ha oltre 4.800 milioni di euro bloccati nei conti internazionali”, ha spiegato il vicepresidente di Pianificazione, Ricardo Mnéndez durante la visita in Venezuela di Michelle Bachelet, Alta Commissaria Onu per i diritti umani.
Distruggere la produzione, dunque la vita della popolazione venezuelana per spingerla a rivoltarsi contro il governo è la strategia “umanitaria” messa in campo dall’autoproclamato e dai suoi padrini per i quali le sofferenze del popolo costituiscono soltanto “danni collaterali”. Contro la rivoluzione bolivariana, c’è un intero apparato di specialisti votati alla ricerca del profitto per pochi, che si dedica a smontare ogni contromisura adottata dal governo Maduro, per esempio con l’introduzione della criptomoneta petro.
Facebook ha di recente annunciato il varo del suo servizio finanziario basato sulla tecnologia blockchain, che si propone di evitare le fluttuazioni che hanno caratterizzato i bitcoin e altre criptomonete, e si rivolge principalmente ai paesi del sud globale. Uno dei principali consulenti di questa operazione è il venezuelano Roberto Rigobón, esperto in crisi monetarie e uomo di fiducia delle grandi istituzioni internazionali: “Niente di meglio che un esperto finanziario venezuelano per mettere in guardia circa i rischi di investire nella moneta e nei buoni di paesi come il Venezuela di Nicolas Maduro”, hanno commentato i giornali di opposizione.
Il pressing della destra venezuelana è rivolto principalmente alla Forza Armata Nazionale Bolivariana. Si moltiplicano gli appelli, e le offerte in denaro sonante ai vertici della FANB, affinché cancellino l’unione civico-militare, rovescino il governo Maduro e si mettano alla testa della “transizione” voluta dagli USA. Per questo, agli avvoltoi 2.0, serve un nuovo racconto, che giustifichi il golpe contro “la dittatura”. Da tempo, gli “opinionisti” della destra vi si dedicano con impegno. Già il 23 gennaio scorso, giorno della caduta del dittatore Marco Pérez Jiménez da parte della resistenza popolare, Guaidó ha provato a proporsi come il “libertador” contro il dittatore Maduro.
Ora, la destra si dice alla ricerca di un nuovo Wolfgang Larrazabal, l’ammiraglio che faceva parte della giunta di Pérez Jiménez, che gli si rivoltò contro favorendone la caduta e che poi accompagnò la transizione fino all’elezione di Romulo Betancourt. E il Comando Sud è entrato direttamente in questo gioco. Prima di partire per un nuovo viaggio in Sudamerica, l’ammiraglio Craig Faller ha inviato una lettera alla FANB per la giornata della battaglia di Carabobo. Il 24 giugno 1821, il genio di Bolivar sancì l’indipendenza dal dominio spagnolo, che stava facendo acqua da tutte le parti. Ora l’arroganza imperialista cerca di capovolgere le carte della storia. Craig, subdolamente, così rivolge alla FANB: “So che ora ci sono molte differenze a dividerci, ma abbiamo qualcosa in comune che trascende la lingua, l’ideologia, l’origine. Facciamo parte di una professione specializzata, difensori fermi delle nostre nazioni e protettori della nostra gente”.
Da una parte, la “professione specializzata” dei mercenari che difendono governi imperialisti. Dall’altra, l’esercito di un popolo che lotta contro quei governi imperialisti, erede dei libertadores: un popolo pacifico, ma armato.