Cerimonia 26 Luglio 2019

Discorso pronunciato da Miguel M. Díaz-Canel Bermúdez, Presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri, durante la manifestazione per il 66º anniversario dell’assalto alle caserme Moncada e Carlos Manuel de Céspedes, in Piazza della Patria, a Bayamo, (Granma), il 26 di luglio del 2019, «Anno 61º della Rivoluzione».

Caro  Generale d’Esercito Raúl Castro Ruz, Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba;

Compagno  Machado;

Comandanti della Rivoluzione;

Compagno Lazo;

Eroico popolo di Granma:

Di fronte alla Generazione storica che ci accompagna, pronuncerò il discorso centrale di questa manifestazione nella stessa piazza dove il Comandante in Capo, nella stessa data del 2006 guidò e terminò per l’ultima volta la commemorazione del Giorno della Ribellione Nazionale.
Quando la direzione del nostro Partito mi ha incaricato di parlare qui oggi, mi sono ricordato quel momento ed ho pensato al significato della tradizione che è iniziata 60 anni fa.
In un viaggio contrario al nostro, migliaia di contadini a cavallo occuparono Piazza della Rivoluzione  José Martí de L’Avana, con Camilo Cienfuegos al fronte. Almeno due di loro si arrampicarono ai lampioni come fossero palme, per salutare Fidel.
Quei contadini, con il loro machete nella mano, mostravano al mondo il volto più autentico di una Rivoluzione degli umili, con gli umili e per gli umili.
Con quell’azione cominciarono le attività commemorative del 26 di Luglio, una data che l’odio aveva insanguinato e l’amore trasformato in festa, per rendere omaggio ai figli della Generazione del Centenario.
Mi chiedevo come e in nome di chi devo parlare oggi, considerando che in queste manifestazioni, per tradizione, da sempre, si pronunciano due discorsi: quello della provincia sede della celebrazione e quello dei protagonisti della storia.
Il compagno Federico Hernández, primo segretario del Partito nella provincia. ha parlato in nome dei granmensi. I discorsi centrali di tutte le commemorazioni  precedenti sono stati pronunciati solo da Fidel, Raúl, Ramiro Valdés e Machado Ventura. Può sembrare un dettaglio, ma risulta rilevante che i protagonisti  della storia, vivi, lucidi, attivi nella loro guida politica, affidano alla nuova generazione dei dirigenti del paese il compito di pronunciare i discorsi centrali in una delle commemorazioni più trascendentali della storia rivoluzionaria. (Applausi).
«È chiaro che oggi parlo a nome dei grati, di noi che affrontiamo la sfida di sospingere un paese» –come dice la poesia di Miguel Barnet– coscienti della straordinaria storia di cui siamo eredi e dell’impegno di non deludere gli eroi della Patria, né il popolo dal quale siamo nati.
Lo dico all’inizio, perchè comprendiate se in un momento, come avviene, l’emozione porterà via qualche parola o qualche nome così profondamente e tanto amato.
A Raúl, a Ramiro e a tutti gli assaltanti che sono con noi: «Grazie per la fiducia, per l’esempio e per il legato!».
La storia: che peso enorme ha la storia nelle nostre vite!È giusto dirlo qui, dove ha cominciato ad esprimersi come nazione 151 anni fa.
Chi si sente e s dice cubano può forse passare per La Demajagua, per Yara, per Manzanillo, per Jiguaní, per Dos Ríos, per La Plata, per Guisa, per Bayamo, per le sue strade e le sue piazze, senza percepire ch ela storia di giudica?
Chi può attraversare il Cauto, salire sulle montagne della Sierra Maestra, o bagnarsi i piedi nella spiaggia  Las Coloradas senza emozionarsi per il rispetto e il culto all’eroismo?

Chi legge/La storia mi assolverà/ può forse dimenticare le parole di Fidel  che spiegava perchè era stata scelta la fortezza militare di Bayamo per uno degli assalti?
E cito: «A Bayamo abbiamo attaccato precisamente per situare la nostra avanzata vicino al fiume Cauto.  Non va mai dimenticato che questa provincia – si riferiva all’allora provincia d’Oriente– che oggi ha un milione e mezzo di abitanti, è senza dubbio la più guerriera e patriottica di Cuba; è quella che ha mantenuto accesa la lotta per l’indipendenza durante 30 anni e diede il maggior apporto di sangue, sacrificio e di eroismo.  In Oriente si respira ancora l’aria dell’epopea  gloriosa e all’alba, quando i galli cantano  come clarinetti che suonano la sveglia chiamando i soldati e il sole si alza radiante sulle erte montagne, ogni giorno sembra di nuovo quello di Yara o quello di Baire». Per questo salutandovi oggi ho detto: eroico popolo di Granma.
Questa provincia, onorata con il nome della nave che portò in terra cubana 82 dei suoi figli disposti ad essere liberi o martiri nel 1956, è anche la culla della nostra nazionalità, del nostro Inno, della Rivoluzione cominciata da
Céspedes nel 1868 e dell’Esercito Ribelle, che la portò ai nostri giorni con la guida di Fidel.
Non è casuale quindi che sia in Granma la seconda caserma assaltata quella mattina della Santa Ana, la Carlos Manuel de Céspedes di Bayamo, che oggi, trasformata in un parco – museo, porta l’onorato nome di Ñico López, uno dei capi dell’azione in questa città, grande amico di Raúl, nel cui ufficio una foto del ragazzo dai grandi occhiali neri occupa un luogo d’onore.
Ñico è l’ispirazione di un giorno come oggi in Bayamo. I nostri figli e i figli dei loro figli devono conoscere la storia di questo giovane, discendente di emigranti galiziani, che non era di Bayamo ma de L’Avana,  che dovette lasciare la scuola e andare a lavorare da bambino per aiutare la sua famiglia, che fu uno degli organizzatori della azioni di 66 anni fa e si salvò battendosi eroicamente per le strade di questa città.
Che nella capitale entrò in un’ambasciata ed emigrò in Guatemala, paese in grande fermento ai tempi di  Jacobo Árbenz.  Lì conobbe il dottor Ernesto Guevara e, come si racconta, Ñico fu quello che gli pose il nomignolo con cui lo si riconosce nel mondo: Che.
Ñico fu assassinato nelle opere successive allo sbarco del Granma, nella terra di questa provincia, ma non è stato nemmeno un minuto assente dall’opera rivoluzionaria alla quale si era dedicato con tanta passione e fede nel trionfo per il quale sofferse fame e penurie di ogni tipo, senza perdere mai l’entusiasmo o il sorriso.
È curioso che varie istituzioni importanti, come la raffineria di Regla o la Scuola Superiore del Partito, portano come nome non quello ufficiale di Antonio López, ma quello di Ñico.  In queste quattro lettere del nomignolo familiare c’è  un messaggio: la fratellanza e l’amicizia senza limiti, come uno dei valori della Generazione del Centenario.
Erano fratelli  ­Fidel, Raúl, Almeida, Ramiro e quegli uomini e donne che posero al primo posto la nazione e che pensarono al paese come a una famiglia.
Da loro veniamo noi ed è molto importante che il nostro omaggio annuale o quotidiano, non resti racchiuso in una manifestazione, in alcuni versi o in alcune parole di ricordo.
La Rivoluzione, che necessita ora che si sferri una grande battaglia per la difesa e per l’economia, che si rompa al nemico il piano di strozzarci e asfissiarci, necessita nello steso tempo che si rinforzino nella nostra gente la spiritualità, il civismo  precisa, la decenza, la solidarietà, la disciplina sociale e il senso del servizio pubblico.
Perchè è uno dei grandi legati dei nostri patrioti, di coloro che fecero parte della Generazione del Centenario. E perchè nessun progresso è duraturo se il corpo sociale si scompone moralmente.

Ripassiamo brevemente gli avvenimento di 66 anni fa. Le azioni del 26 Luglio del 1953 non realizzarono gli obiettivi che si proponevano gli assaltanti: si perse il fattore sorpresa, non tutti riuscirono a scappare dalla repressione, che fu violenta e crudele.
Uomini fotografati vivi, come José Luis Tasende, ferito solo in una gamba, furono brutalmente torturati e quindi riportati come morti in combattimento.
Ci angosciano ancora oggi le dure testimonianze grafiche e orali raccolte dagli storiografi e dai giornalisti in quegli anni, e il più insopportabile è immaginare gli occhi di Abel nelle mani dei sicari.
Nonostante il dolore della perdita fisica di questi  «esseri dell’altro mondo» dalla /Canción del elegido/, di Silvio, i sopravvissuti di quell’epopea, guidati da Fidel, non si lamentarono mai, non andarono a piangere negli angoli i loro compagni morti o assassinati.
Crearono un movimento con un programma liberatore che conserva piena vigenza e trasformarono l’avvenimento nella motivazione di altri combattimenti: il motore piccolo accese il grande.
Cinque  anni, cinque mesi e cinque giorni dopo l’assalto alle caserme di Santiago di Cuba y Bayamo, negando il presunto fallimento del 1953, si giunse al trionfo del 1959. Il rovescio si era trasformato in una vittoria.

La spiegazione del miracolo che un gruppo di uomini riuscì a sconfiggere uno degli eserciti meglio armati del continente s’incontra solo nei valori umani più preziosi della generazione del centenario : senso della giustizia, lealtà a una causa, rispetto per la parole impegnata, fiducia nella vittoria, fede assoluta nel popolo e l’unità come principio.
Durante la recente discussione della Legge dei Simboli Nazionali, si è parlato molto di questa forza.  L’unità appare rappresentata nello scudo, dai tempi della fondazione, per lo stretto fascio di aste dalla base alla parte posteriore, come colonna vertebrale della nazione.
I nostri genitori e i nostri maestri ci hanno insegnato che era facile distruggere le aste separate, ma che è impossibile rompere un fascio di aste unite.
Quando convochiamo a pensare come paese, stiamo pensando ala forza fisica assoluta che c’è in un fascio di aste, che sole si potrebbero spezzare con facilità.
Dobbiamo pensare come paese, perchè nessuno penserà per noi.
E il gigante con gli stivali delle sette leghe che va per il cielo inghiottendo mondi  da tempo ha smesso d’essere una metafora immaginata da Martí per trasformarsi in una crudele certezza di quello che ci aspetta de, per ingenuità o ignoranza, sottovalutiamo o crediamo che non ci riguarda il piano di riappropriazione di Nuestra América  intrapreso dall’impero con la bandiera della Dottrina Monroe issata sull’albero  della sua nave pirata.
Il Venezuela assediato, derubato, assaltato letteralmente con l’approvazione o il silenzio complice di altre nazioni poderose e, quel che è peggio, con la vergognosa collaborazione di governi latinoamericani, oggi è lo drammatico scenario della crudeltà dell’impero in decadenza che combina comportamenti di poliziotto del mondo con quelli di giudice supremo del villaggio globale.
La OSA, sempre più spregevole e servile tira il tappeto rosso alla possibilità di un intervento militare.  La Zona di Pace che la Celac ha accordato a L’Avana per preservare la regione dalla violenza della guerra convenzionale, sopravvive a malapena per la volontà delle nazioni degne dell’America Latina e dei Caraibi.
Ed anche per l’intelligente, eroica ed esemplare resistenza dell’alleanza civico militare del Venezuela, del suo governo e del suo popolo alla guerra non convenzionale, con la quale tutti i giorni si utilizzano nuove modalità per farli arrendere.
Con disprezzo assoluto per quella che un giorno è stata la più sacra conquista della comunità delle nazioni del pianeta: la legalità internazionale, l’attuale amministrazione statunitense vive minacciando tutti, anche i suoi soci tradizionali e aggredendo anche i suoi servitori assoluti.
Il mondo intero lo sa.  Lo riconosce l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,  le cui risoluzioni sono ignorate dall’impero.
Lo soffriamo, da 60 anni, e varie generazioni di cubane e cubani, non possiamo costruire una nazione alla misura dei nostri sogni.
E qual è il delitto per il quale ci castigano?
I nostri genitori hanno osato far terminare l’abuso per recuperare quello avevano strappato alla nazione e una e un’altra volta nei secoli: prima di tutto la terra comprata da multinazionali yankee al ridicolo prezzo di 6 dollari l’ettaro alla fine della lunga e cruenta guerra dei 30 anni che terminò con un patto tra il poderoso impero in gestazione e la vecchia metropoli decadente, all’incrocio dei secoli.
La colonia sostituita dalla neocolonia. L’intervento.
Perchè la Riforma Agraria?, si chiedevano gli autori dell’Inchiesta dei Lavoratori Agricoli cubani realizzata dal Gruppo Cattolico Universitario nel 1956 – 1957 , uno studio che Legge Helms Burton ci provoca a rispolverare.
«…nel campo, e specialmente i lavoratori agricoli, stanno vivendo in condizioni d’insicurezza, miseria e disperazione difficili da credere», affermavano gli autori dello studio.
Uno di loro, il dottor José Ignacio Lasaga, riconobbe allora che in tutti i suoi viaggi in Europa, America e Africa, poche volte aveva incontrato contadini che vivevano più miserabilmente di quello cubano.
Va detto che lavorare la terra non significava possederla.  Quando a quei lavoratori agricoli denutriti, analfabeti e disperati si chiedeva qual’era la loro maggior necessità, praticamente tutti chiedevano solamente lavoro.
Non avevano questo diritto garantito nemmeno per la metà dell’anno.
Il grado di povertà materiale e sociale dei nostri campi impressionò tanto gli autori dell’inchiesta che nella conclusione affermarono: «È già l’ora che la nostra nazione smetta d’essere un feudo privato di alcuni poderosi, e abbiamo la ferma speranza che tra alcuni anni Cuba non sarà più proprietà di pochi ma la vera Patria di tutti i Cubani …».
La Costituzione del 1940, conquistata praticamente a sangue e fuoco dai rivoluzionari dell’epoca, proponeva la Riforma Agraria, ma la Legge giunse solamente nel mese di maggio del 1959.
Sino ad allora la nostra terra era  feudo delle compagnie nordamericane in accordo con politici corrotti e protette dalle forze militari comandate dal dittatore Fulgencio Batista, che nel 1958, aveva fette di proprietà in nove fabbriche di zucchero, una banca, tra linee aeree, varie emittenti radiofoniche, una televisione, giornali, riviste, una fabbrica di materiali della costruzione, una compagnia di navi, un centro turistico, diversi immobili in città e in campagna ecc. Come risulta  nel libro /I padroni di Cuba nel 1958/.
In questa investigazione si afferma che circa 500 persone erano padrone del paese. La maggioranza fuggì al trionfo della Rivoluzione abbandonò le loro proprietà avute disonesta mente o ottenute con abuso di potere e crimini incalcolabili da parte dei batistiani e dei complici del dittatore.
La Rivoluzione ha confiscato le proprietà di questi malversatori.
La nazionalizzazione è un’altra storia, un diritto che la legalità internazionale riconosce a tutte le azioni sovrane – da lì il suo nome- in funzione del bene pubblico. Inoltre si appoggiava su una legge sostenuta dalla Costituzione del 1940 e prevedeva gli indennizzi che Cuba negoziò con altri governi, come si negoziano le nazionalizzazioni, eccetto che con quello degli Stati Uniti, che rifiutò di farlo, certo che avrebbero riavuto tutto con la forza in breve tempo.
La Legge di Riforma Agraria fu la prima grande nazionalizzazione e il più grande atto di giustizia sociale domandato dal popolo. E fu anche il punto di rottura, il passaggio del Rubicone, come ha detto il Generale d’Esercito Raúl Castro Ruz.
Quelli che si credevano padroni di Cuba, che non volevano perderla, scatenarono da allora una guerra non dichiarata che ha vissuto brevi pause, ma non è mai terminata.
Per confondere l’opinione pubblica e dare a questo confronto una legalità che non ha, si fabbricò la Helms-Burton, creatura giuridica nella quale si mescolano gli affanni imperialisti di dominio sui nostri destini e i revanscismo dei nostalgici del periodo di Batista.
Da quella specie  immorale e anti patriottica che saccheggiò il paese provengono i reclamanti attuali delle proprietà che 60 anni fa passarono  infine nelle mani del popolo.
Incapaci di farlo da soli i ladruncoli di quest’epoca si fanno proteggere da una legge senza poteri su Cuba per recuperare beni confiscati, perché frutto di malversazioni o beni abbandonati per timore della giustizia popolare.
Mi permetto di avvisare che i discendenti di quella cavalleria mambì e contadina che riempirono la Piazza nel 1959 per salutare la Rivoluzione vittoriosa, ha eredità la terra e i machetes dei loro avi, e che non esiterebbero ad usarli bene affilati contro chi tenterà di strappare loro la terra che questa Rivoluzione ha dato loro. (Applausi).
«No, non lo intendiamo» e non c’intenderemo mai con coloro che pretendono di far tornare Cuba allo stato di cose che nel 1953 portò il meglio della gioventù cubana ad assaltare due caserme militari con più morale che armi.
Il Programma della Moncada, brillantemente esposto  dal giovane Fidel Castro nella sua arringa di difesa, parla chiaramente delle ragioni che li portarono al combattimento quel 26 di Luglio:
«Il problema della terra, il problema dell’industrializzazione, il problema della casa, il problema della disoccupazione, il problema dell’educazione e il problema della salute del popolo; lì si indicavano i sei punti che, con i nostri sforzi incamminati risolutamente si dovevano risolvere assieme alla conquista delle libertà pubbliche e della democrazia politica».
«Forse questa esposizione appare fredda e teorica se non si conosce la spaventosa tragedia che sta vivendo il paese in questi sei ordini, sottoposta alla più umiliante oppressione politica» disse Fidel.
Solo una Rivoluzione poteva cambiare quel  panorama, che quattro anni dopo l’assalto si era aggravato, tanto che nel 1957 un’organizzazione religiosa come quella che ho citato terminava la sua inchiesta con il reclamo di un cambio radicale e definitivo nel paese.
Cambiò Cuba, ma non cambiarono le smanie di possesso del poderoso vicino, con l’entusiasta collaborazione dei falchi e dei senza patria servili del sud della Florida.
Non possono impadronirsi di Cuba come avvertì Maceo, e decidono di perseguitarla, isolarla, asfissiarla. L’assedio che tutte le nostre operazioni commerciali  finanziarie soffrono è cresciuto negli ultimi anni e mesi a livelli extra territoriali illegali e criminali.
Darò cifre fresche perché il mondo giudichi:  solo nell’ultimo anno, da marzo del 2018 ad aprile del 2019, il blocco ci ha provocato perdite per un valore di 4 343 milioni di dollari.
Avverto che il dato non riflette i danni provocati dalle ultime misure dell’attuale   amministrazione che limitano le licenze di viaggio, proibiscono l’attracco delle navi da crociera e rinforzano le restrizioni finanziarie colpendo direttamente il turismo e le attività associate che beneficiano il crescente settore non statale dell’economia.
Sono queste restrizioni e la persecuzione finanziaria contro Cuba le ause principali dei problema di distribuzione di alimenti e combustibili  e della difficoltà per comprare pezzi di ricambio, indispensabili per sostenere la vitalità del Sistema ElettroEnergetico Nazionale, che ci hanno danneggiato nelle ultime settimane e mesi e che stiamo affrontando creativamente con la ferrea volontà di resistere e vincere.
Dopo sei decenni di molestie alla più semplice transazione cubana, le perdite accumulate ora toccano i 922.630 milioni di dollari, considerando la svalutazione di questa moneta di fronte all’oro.
I cerchio si stringe sempre  più forte sul nostro paese come attorno al Venezuela, al Nicaragua e qualsiasi altra nazione che rifiuta di accettare il piano imperiale per il suo destino.
Oggi denuncio davanti al popolo di Cuba e al mondo, che l’amministrazione degli Stati Uniti ha cominciato ad agire con maggior aggressività, per impedire l’arrivo di combustibili a Cuba.
Con crudeli azioni extraterritoriali di blocco oggi si cerca d’impedire con tutti i mezzi l’arrivo nei porti cubani delle petroliere, minacciando brutalmente le compagnie navali, i governi dei paesi dono sono registrate le navi e le imprese d’ assicurazione.
Il piano genocida è danneggiare sempre più la qualità di vita della popolazione, i suoi progressi ed anche le sue speranze, con l’obiettivo di ferire la famiglia cubana nella sua quotidianità, nelle sue necessità di base e parallelamente accusare il Governo cubano d’inefficacia. Cercano un’esplosione sociale.
Come ci conoscono poco! Quando riusciranno a capire che l’eroica famiglia cubana è capace d’affrontare e resistere con dignità i peggiori assedi e continuare ad amarsi anche nella distanza, perchè niente e nessuno la potrà dividere? (Applausi).
Ci vogliono tagliare la luce, l’acqua e anche aria, per strapparci concessioni politiche. Non si nascondono per farlo. Dichiarano pubblicamente i fondi destinati alla sovversione dentro Cuba, inventano falsi pretesti e ipocrisie per inserirci nelle loro liste spurie e giustificare l’indurimento del blocco.
E nel colmo del cinismo, ricorrono al ricatto .
Ignoranti della storia e dei principi della politica estera della Rivoluzione Cubana ci propongono di negoziare una possibile riconciliazione in cambio dell’abbandono del corso scelto e difeso dal nostro popolo, ora come prima.
Ci suggeriscono di tradite gli amici e gettare nel cestino della spazzatura 60 anni di dignità.
No, signori imperialisti, noi non intendiamo! (Applausi).  Cuba, che conosce le distanze etiche e politiche tra questa amministrazione statunitense e i più nobili cittadini di questo paese, non ha rinunciato alla sua dichiarata volontà di costruire una relazione civile con gli Stati Uniti, che però si deve basare nel rispetto mutuo delle nostre profonde differenze.
Qualsiasi proposta che non comprenda il rispetto tra uguali, No! Non c’interessa! (Applausi).
Il popolo nordamericano è invitato permanentemente a Cuba. Le nostre porte sono aperte. Che venga, guardi e conosca la realtà del paese che negano loro di visitare in nome della libertà, del diritto umano essenziale che, come dicono, manca in Cuba e là abbonda.
Da parte nostra non ci lasceremo distrarre con pressioni e minacce. Ci sono troppe sfide da vincere e ci concentreremo in queste: prima di tutto l’invulnerabilità  economica e militare del paese, l’ordine  giuridico, l’eliminazione di ogni ostacolo interno o esterno che persiste: sia il burocratismo, l’insensibilità o la corruzione che non si possono accettare nel socialismo. E all’imperialismo, «neanche un pezzettino così», frase del Che e insegnamento  permanente della Rivoluzione.
Questi messaggi di Cuba dai principi politici invariabili, li porteremo al Forum di Sao Paulo riunito in Caracas questa settimana, per rinforzare l’integrazione delle forze di sinistra e la loro mobilitazione di fronte all’offensiva imperiale che si propone di farci fallire, dividerci e affrontarci.

Cari compatrioti:

Quello che abbiamo trovato nei nostri percorsi in questa provincia e che abbiamo ascoltato nel discorso del suo primo segretario, Federico Hernández, sono risultati economici e sociali importanti. Il territorio ha meritato d’essere la sede per i suoi innegabili passi avanti. (Applausi).
Segnalo principalmente l’80 % dello sfruttamento delle terre coltivabili e l’impulso dato ai poli produttivi per l’auto rifornimento municipale per il contributo che possono dare alla sostituzione delle importazioni di voci come il riso, alimento alla base della dieta della famiglia cubana.  Ma – c’è sempre un ma– le autorità del territorio riconoscono che anche con records importanti  di produzione, sono lontani dalle potenzialità.
Questa è una realtà comune a tutto il paese, dove la battaglia per lo sviluppo è una dura e faticosa corsa con  ostacoli di ogni tipo.
Il primo e determinante è il blocco nordamericano; il secondo, le pratiche incompatibili con il socialismo,che abbiamo segnalato negli interventi di fronte agli economisti, agli intellettuali e agli artisti e nell’Assemblea Nazionale.
Non mi stancherò d’insistere sul dovere di pensare come paese, sconfiggere l’egoismo, la vanità, l’inettitudine, il «non si può».
Smettiamo di credere e d’affermare che la colpa è dell’altro, senza guardare bene quello che stiamo facendo, ognuno di noi creando e apportando.
Considerando il panorama d’assedio brutale alle nostre operazioni finanziarie che ho descritto, tutti abbiamo il dovere di curare come «luce dei nostri occhi» i costosi investimenti  intrapresi nel trasporto, l’industria, le comunicazioni e altre aree che stiamo assicurando.
Pretendere che d’improvviso la mentalità si trasformi alla massima velocità che possono raggiungere i nostri treni, potrebbe sembrare un’utopia, se non credessimo nel popolo e nelle sue riserve di morale, e alle sue aspirazioni a una crescita con bellezza.
Questi cambi non escono da un cilindro. Non siamo maghi.
Il nostro Consiglio di Ministri non opera con illusioni. È nostro dovere Dirigere, e dirigere bene le scarse risorse disponibili per garantire la distribuzione equa e giusta dei beni creati.
Stiamo fomentando la produzione nazionale con efficienza e competitività, le esportazioni e la sostituzione delle importazioni, l’investimento straniero, i vincoli delle produzioni, l’uso della scienza, la tecnica e il talento delle nostre università per rinnovare il Governo Elettronico e la comunicazione come elemento fondamentale nella lotta per sistemare e strappare un pezzo, il più grande possibile, ai problemi di ogni giorno.
Si apprezza un livello di risposta che entusiasma, ma non basta. Le Circostanze ci obbligano oggi, come ci hanno obbligato sempre, a imporre un ritmo d’avanzata superiore alle nostre mete, a esigere,  controllare, eliminare il tran-tran e a verificare nei fatto se la formula che utilizzavamo ieri è efficace o si deve rinnovare.
Dobbiamo sanzionare fortemente e opportunamente quelli che non capiscono che oggi difendere la Patria passa per la cura e la protezione dei suoi pochi beni materiali.
Se il governo si dedica a migliorare la vita dei nostri cittadini, Governo e cittadini devono impedire che si maltratti, si sporchi o si sciupi quello che è costato tanto caro comprare.
Posti di fronte alla vecchia scelta tra aumentare i salari o aspettare risultati di produzione per sostenere queste erogazioni, abbiamo deciso di aumentarli. Non una ma, varie volte il valore di quello che si stava pagando.
Non abbiamo aspettato di terminare l’anno per applicare questa misura tanto popolare e dipendente da quello che siamo capaci di fare tutti, perché si traduca in questa crescita.
Ma per sostenere questa e tutte le misure di beneficio sociale che sono possibili è necessario produrre di più ed elevare la qualità dei servizi, le nuove misure proposte dal popolo si dovranno approvare nelle prossime settimane e mesi.
Andiamo per più, non è una consegna.
È la traduzione nel linguaggio del Governo della risposta politica al nemico: con coloro che vogliono rubarci la terra, la casa, le scuole, gli ospedali, gli asili, le fabbriche, le spiagge, i porti e gli aeroporti … No, non intendiamo!
È la messa in pratica della nostra volontà di non farci distrarre dalle pressioni e dalle minacce e resistere creativamente senza rinunciare allo sviluppo.
«Gli anni duri imposti dall’assedio dell’imperialismo non possono occultare verità come pugni sotto il mantello della mancanza di memoria», ha scritto la cara intellettuale Graziella Pogolotti nel suo più recente articolo, in cui ci ricorda anche che: «Perché la lotta non è terminata, e è sempre 26». (Applausi).
Sì, il 26 di Luglio sarà sempre una grande ispirazione. E pensando come paese, voglio riprendere una consegna degli anni di lavoro nelle province, quando si convocava il popolo, motivati da questa data: «Lavoriamo tutti per fare di ogni mese del calendario un mese di luglio, di ogni impegno una Moncada di vittoria! Il mondo vedrà quello che siamo capaci di fare e il mondo ci accompagnerà nella nostra resistenza».
È ora di fare un nuovo e urgente richiamo alla nostra coscienza.
Possiamo cominciare o terminare questa convocazione con dei versi di chi ha sempre detto sì alla Rivoluzione: Roberto Fernández Retamar, saggista e poeta, intellettuale enorme che se n’è appena andato.
Spieghiamo con le sue belle parole chi siamo e cosa stiamo facendo, nonostante i fuochi e gli accerchiamenti.

Nella sua poesia
/A chi possa interessare/, ha scritto Roberto:

/In tutta l’estensione dell’Isola, siamo meno di quelli che ogni giorno/
/camminano per una grande città ./
/Siamo meno: un pugno di uomini su una striscia di terra/
/battuta dal mare.  Però/

/abbiamo costruito un’allegria dimenticata./

Per questa allegria che continuiamo  costruire:
Andiamo per più!
Perché tutti  Siamo Cuba!  Siamo Continuità!
Patria o Morte!
Vinceremo!


Discurso pronunciado por Miguel M. Díaz-Canel Bermúdez, Presidente de los Consejos de Estado y de Ministros, en el Acto Central por el aniversario 66 del asalto a los cuarteles Moncada y Carlos Manuel de Céspedes, en la Plaza de la Patria, Bayamo, Granma, el 26 de julio de 2019, «Año 61 de la Revolución».

Querido General de Ejército Raúl Castro Ruz, Primer Secretario del Comité Central del Partido Comunista de Cuba;

Compañero Machado;

Comandantes de la Revolución;

Compañero Lazo;

Heroico pueblo de Granma

Querido General de Ejército Raúl Castro Ruz, Primer Secretario del Comité Central del Partido Comunista de Cuba;

Compañero Machado;

Comandantes de la Revolución;

Compañero Lazo;

Heroico pueblo de Granma (Aplausos):

Ante la Generación histórica que nos acompaña pronunciaré las palabras centrales de este acto, en la misma plaza donde el Comandante en Jefe, en igual fecha de 2006, presidió y clausuró por última vez una conmemoración del Día de la Rebeldía Nacional.

Cuando la dirección de nuestro Partido me encargó hablar hoy aquí, recordé aquel momento y pensé en el significado de la tradición que comenzó hace 60 años. En un viaje a la inversa del nuestro, miles de campesinos a caballo tomaron la Plaza de la Revolución José Martí de La Habana, con Camilo Cienfuegos al frente. Al menos dos de ellos se treparon a las farolas, como si fueran palmas, para saludar a Fidel.

Esos guajiros, con sus machetes en la mano, le mostraban al mundo el rostro más auténtico de una Revolución de los humildes, por los humildes y para los humildes.

Con aquel acto comenzaron las actividades conmemorativas del 26 de Julio, una fecha que el odio ensangrentó y el amor convirtió en fiesta de homenaje a los hijos de la Generación del Centenario.

Me preguntaba cómo y en nombre de quiénes debo hablar hoy, teniendo en cuenta que en estos actos, por tradición, siempre se pronuncian dos discursos: el de la provincia sede de la celebración y el de los protagonistas de la historia.

En nombre de los granmenses habló el compañero Federico Hernández, primer secretario del Partido en la provincia. Las palabras centrales de todas las conmemoraciones anteriores, solo han estado a cargo de Fidel, Raúl, Ramiro Valdés y Machado Ventura.

Puede parecer un detalle, pero resulta relevante que los protagonistas de la historia, vivos, lúcidos, activos en su liderazgo político, le encomienden a la nueva generación de dirigentes del país pronunciar las palabras centrales en una de las conmemoraciones más trascendentes de la historia revolucionaria.

Tengo claro que hoy hablo en nombre de los agradecidos, los que enfrentamos el desafío de empujar un país –como dice el poema de Miguel Barnet–, conscientes de la extraordinaria historia que heredamos y el compromiso de no
fallarles a los héroes de la patria ni al pueblo del que nacimos.

Lo digo al empezar, para que comprendan si en algún momento, como suele ocurrir, la emoción se lleva alguna palabra o algún nombre demasiado entrañable.

A Raúl, a Ramiro y a todos los asaltantes que están con nosotros: ¡Gracias por la confianza, por el ejemplo y por el legado! (Aplausos).

La historia, ¡qué peso tan descomunal tiene la historia en nuestras vidas! Es justo decirlo aquí, donde ella empezó a expresarse como nación hace 151 años.

¿Quién que se sienta y se diga cubano puede pasar por La Demajagua, por Yara, por Manzanillo, por Jiguaní, por Dos Ríos, por La Plata, por Guisa, por ¡Bayamo!, por sus calles y sus plazas, sin percibir que la historia nos juzga?

¿Quién puede cruzar el Cauto, subir las lomas de la Sierra Maestra, o mojarse los pies en la playa de Las Coloradas sin estremecerse de respeto y culto al heroísmo?

¿Quién que lea La historia me absolverá puede olvidar las palabras de Fidel al explicar por qué se escogió la fortaleza militar de Bayamo para uno de los asaltos?, y cito:

«A Bayamo se atacó precisamente para situar nuestras avanzadas junto al río Cauto.  No se olvide nunca que esta provincia –se refería a la antigua provincia de Oriente– que hoy tiene millóny medio de habitantes, es sin duda la más guerrera y patriótica de Cuba; fue ella la que mantuvo encendida la lucha por la independencia durante 30 años y le dio el mayor tributo de sangre, sacrificio y heroísmo.  En Oriente se respira todavía el aire de la epopeya gloriosa y, al amanecer, cuando los gallos cantan como clarines que tocan diana llamando a los soldados y el sol se eleva radiante sobre las empinadas montañas, cada día parece que va a ser otra vez el de Yara o el de Baire».

Por eso al saludarlos hoy les decía: heroico pueblo de Granma.

Esta provincia, honrada con el nombre de la nave que trajo a tierra cubana a 82 de sus hijos, dispuestos a ser libres o mártires en 1956, es también cuna de nuestra nacionalidad, de nuestro himno, de la Revolución que comenzó Céspedes en 1868 y del Ejército Rebelde que la trajo a nuestros días con Fidel al frente.

No es casual, por tanto, que en Granma esté el segundo cuartel asaltado aquella mañana de la Santa Ana, el Carlos Manuel de Céspedes de Bayamo, que hoy, convertido en parque museo, lleva el honroso nombre de Ñico López, uno de los jefes de la acción en esta ciudad; gran amigo de Raúl, en cuyo despacho ocupa un lugar de honor la foto del muchacho de los grandes espejuelos negros.

Ñico es inspiración un día como hoy en Bayamo.  Nuestros hijos y los hijos de sus hijos deben conocer la historia de ese joven, descendiente de emigrantes gallegos, que no era bayamés sino habanero, que tuvo que dejar la escuela y trabajar desde niño para ayudar a su familia; que fue de los organizadores de las acciones de hace 66 años y logró salvar la vida batiéndose heroicamente en las calles de esta ciudad. Que, ya en la capital, se asiló en una embajada y emigró a la Guatemala en ebullición de los tiempos de Jacobo Árbenz.  Allí conoció al doctor Ernesto Guevara y, según cuentan, Ñico fue quien le puso el apodo con que lo reconoce el mundo: Che.

Ñico cayó asesinado en las horas posteriores al desembarco del Granma, también en tierras de esta provincia, pero no ha estado ni un minuto ausente de la obra revolucionaria a la que se entregó con tanta pasión y fe en el triunfo, por la cual sufrió hambre y penurias de todo tipo, sin perder jamás el entusiasmo ni la sonrisa.

Es curioso que varias instituciones importantes, como la refinería de Regla o la Escuela Superior del Partido, lleven por nombre, no el oficial de Antonio López, sino el de Ñico.  En esas cuatro letras del apodo familiar hay un mensaje: la camaradería y amistad sin límites, como uno de los valores de la Generación del Centenario.

Eran hermanos ­Fidel, Raúl, Almeida, Ramiro y  aquellos hombres y mujeres que pusieron por delante a la nación, que pensaron al país como una familia.

De ellos venimos nosotros y es muy importante que nuestro homenaje, anual o cotidiano, no se quede encerrado en un acto, en unos versos o unas palabras de efemérides.

La Revolución, que necesita ahora que demos la gran batalla por la defensa y la economía, que le rompamos al enemigo el plan de destrozarnos y asfixiarnos, precisa, al mismo tiempo, que fortalezcamos en nuestra gente la espiritualidad, el civismo, la decencia, la solidaridad, la disciplina social y el sentido del servicio público. Porque es uno de los grandes legados de nuestros próceres, de quienes los tomó la Generación del Centenario. Y porque ningún progreso sería duradero si el cuerpo social se descompone moralmente.

Repasemos brevemente los acontecimientos de hace 66 años: Las acciones del 26 de Julio de 1953 no lograron los objetivos que se proponían los asaltantes: se perdió el factor sorpresa, no todos alcanzaron a escapar de la represión, que fue violenta y cruel.

Hombres fotografiados vivos, como José Luis Tasende, herido solo en una pierna, fueron brutalmente torturados y luego reportados como muertos en combate.

Todavía nos golpean los duros testimonios gráficos y orales que recogieron historiadores y periodistas a lo largo de estos años, el más insoportable: imaginar los ojos de Abel en manos de sicarios.

A pesar del dolor, de la pérdida física de esos «seres de otro mundo» de la Canción del elegido, de Silvio, los sobrevivientes de aquella epopeya, guiados por Fidel, no se lamentaron nunca, no se fueron a llorar a los rincones por sus compañeros muertos o asesinados.  Crearon un movimiento con un programa liberador que conserva plena vigencia y transformaron el acontecimiento en la motivación de otros combates: el motor pequeño prendió al grande.

Cinco años, cinco meses y cinco días después del asalto a los cuarteles de Santiago de Cuba y Bayamo, negando el supuesto fracaso de 1953, llegaría el triunfo de 1959. El revés se había convertido en victoria.

La explicación del milagro de que un grupo de hombres terminara derrotando a uno de los ejércitos mejor armados del continente, solo puede encontrarse en los valores humanos más sobresalientes de la Generación del Centenario: sentido de la justicia, lealtad a una causa, respeto por la palabra empeñada, confianza en la victoria, fe inconmovible en el pueblo y la unidad como principio.

Durante la reciente discusión de la Ley de Símbolos Nacionales se habló mucho de esa fuerza.  La unidad aparece representada en el escudo, desde los tiempos fundacionales, por el apretado haz de varas que va de la base a la parte posterior, como columna vertebral de la nación.

Nuestros padres y maestros nos enseñaron que era fácil quebrar las varitas separadas, pero es imposible partir un haz de varitas unidas.

Cuando convocamos a pensar como país estamos pensando en la fuerza física absoluta que hay en un haz de varas que solas se podrían quebrar con facilidad.

Nos toca pensar como país porque nadie va a pensar por nosotros.

Y el gigante con botas de siete leguas que va por el cielo engullendo mundos, hace tiempo dejó de ser una metáfora visionaria de Martí para transformarse en una cruel certeza de lo que nos espera si, por ingenuidad o ignorancia, subestimamos o creemos que no es para nosotros el plan de reapropiación de Nuestra América que ha emprendido el imperio con la bandera de la Doctrina Monroe en el mástil de su nave pirata.

Venezuela cercada, robada, asaltada literalmente con la aprobación o el silencio cómplice de otras naciones poderosas, y lo que es peor, con la vergonzosa colaboración de gobiernos latinoamericanos, es hoy el más dramático escenario de la crueldad de las políticas del imperio en decadencia que combina comportamientos de policía del mundo con los de juez supremo de la aldea global.

La oea, cada vez más desprestigiada y servil, tira alfombra roja a la posibilidad de una intervención militar.  La Zona de Paz que la Celac acordó en La Habana para preservar a la región de la violencia de la guerra convencional, sobrevive a duras penas por la voluntad de naciones dignas de Latinoamérica y el Caribe. 

Y también por la inteligente, heroica y ejemplar resistencia de la alianza cívico militar de Venezuela, su Gobierno y su pueblo a la guerra no convencional con la que todos los días se ensayan nuevas modalidades para rendirlos.

Con desprecio absoluto por lo que un día fue la más sagrada conquista de la comunidad de naciones del planeta: la legalidad internacional, la actual administración estadounidense vive amenazando a todos, incluso a sus socios tradicionales y agrediendo hasta a sus servidores incondicionales.

El mundo entero lo sabe.  Lo reconoce la Asamblea General de las Naciones Unidas cuyas resoluciones el imperio ignora.

Lo sufrimos, desde hace 60 años, varias generaciones de cubanas y cubanos, impedidos de construir una nación a la medida de nuestros sueños.

¿Y cuál es el delito por el que se nos castiga?

Nuestros padres tuvieron la osadía de acabar con el abuso y recuperar lo que se le había arrebatado a la nación una y otra vez a lo largo de siglos: en primer lugar la tierra, comprada por transnacionales yanquis al ridículo precio de seis dólares la hectárea, al final de la larga y cruenta guerra de 30 años que terminó con un pacto entre el pujante imperio en gestación y la vieja metrópoli decadente en el cruce de siglos. La colonia sustituida por la neocolonia. La intervención.

¿Por qué la Reforma Agraria?, se preguntaban los autores de la Encuesta de Trabajadores Agrícolas Cubanos realizada por la Agrupación Católica Universitaria en 1956-1957, un estudio que la Ley Helms-Burton nos provoca a desempolvar.

«…en el campo, y especialmente los trabajadores agrícolas están viviendo en condiciones de estancamiento, miseria y desesperación difíciles de creer», afirmaban los autores del estudio.

Uno de ellos, el doctor José Ignacio Lasaga, reconoció entonces que en todos sus recorridos por Europa, América y África pocas veces encontró campesinos que vivieran más miserablemente que el cubano.

Falta decir que trabajar la tierra no significaba poseerla. Cuando a aquellos trabajadores agrícolas desnutridos, analfabetos, desesperanzados se les preguntaba cuál era su mayor necesidad, prácticamente todos solo pedían trabajo. Ni siquiera tenían ese derecho garantizado la mitad del año.

El grado de pobreza material y social de nuestros campos impresionó tanto a los encuestadores, que en las conclusiones afirmaban:

«Ya es hora de que nuestra Nación deje de ser feudo privado de algunos poderosos, tenemos la firme esperanza de que dentro de algunos años Cuba será no propiedad de unos pocos, sino la verdadera Patria de todos los cubanos…».

La Constitución de 1940, conquistada prácticamente a sangre y fuego por los revolucionarios de la época, se había planteado la Reforma Agraria, pero la Ley no llegó hasta mayo de 1959.

Hasta entonces, nuestra tierra era el feudo de compañías norteamericanas en contubernio con políticos corruptos y al amparo de las fuerzas militares al mando del dictador Fulgencio Batista, quien en 1958, tenía distintos grados de propiedad sobre nueve centrales azucareros, un banco, tres aerolíneas, varias emisoras de radio, una televisora, periódicos, revistas, una fábrica de materiales de la construcción, una naviera, un centro turístico, diversos inmuebles urbanos y rurales, etcétera, según consta en el libro Los propietarios de Cuba 1958.

Se afirma en esa investigación que poco más de 500 personas eran los dueños del país.  La mayoría de ellos huyeron al triunfo de la Revolución, abandonando sus propiedades mal habidas y obtenidas con abuso de poder y crímenes incontables por batistianos y cómplices del dictador.

Fueron las propiedades de esos malversadores las que confiscó la Revolución.

Otra historia es la de las nacionalizaciones, derecho que la legalidad internacional reconoce a todas las naciones soberanas –de ahí su nombre– en función del bien público. También se apoya en una ley que respalda la Constitución del 40 y preveía indemnizaciones, que Cuba negoció con otros gobiernos –como se negocian las nacionalizaciones–, excepto con el de Estados Unidos, que se negó a hacerlo, confiado en que podrían retomarlo todo en poco tiempo por la fuerza.

La Ley de Reforma Agraria fue la primera gran nacionalización y el mayor acto de justicia social demandado por el pueblo. Y fue también el punto de ruptura, el cruce de Rubicón, como ha dicho el General de Ejército Raúl Castro Ruz.

Aquellos que se creían dueños de Cuba, negados a perderla, desataron desde entonces esta guerra no declarada que ha vivido breves pausas, pero no ha tenido fin.

Para confundir a la opinión pública y darle a esa confrontación una legalidad que no tiene, se fabricó la Helms-Burton, engendro jurídico donde se mezclan los afanes imperiales de dominio sobre nuestros destinos y el revanchismo de los nostálgicos del batistato.

De aquella especie inmoral y antipatriótica que saqueó al país provienen los reclamantes actuales de las posesiones que hace 60 años pasaron, por fin, a manos del pueblo.

Incapaces de hacerlo por sí mismos, los ladronzuelos de esta época, se amparan hoy en una ley sin poder alguno sobre Cuba, para recuperar bienes confiscados por ser fruto de malversación o bienes abandonados por temor a la justicia popular.

Me permito advertirles que los descendientes de aquella caballería mambisa y campesina que tomó la Plaza en 1959 para saludar a la Revolución victoriosa heredó la tierra y los machetes de sus antepasados y no dudarían en blandirlos bien afilados contra quienes intenten arrebatarles la tierra que esa Revolución les entregó (Aplausos).

«No, no nos entendemos» ni nos entenderemos jamás con los que pretendan devolver a Cuba al estado de cosas que en 1953 llevó a lo mejor de la juventud cubana a asaltar dos cuarteles militares con más moral que armas.

El Programa del Moncada, brillantemente expuesto por el joven Fidel Castro en su alegato de defensa, habla claramente de las razones que los llevaron al combate aquel 26 de Julio:

«El problema de la tierra, el problema de la industrialización, el problema de la vivienda, el problema del desempleo, el problema de la educación y el problema de la salud del pueblo; he ahí concretados los seis puntos a cuya solución se hubieran encaminado resueltamente nuestros esfuerzos, junto con la conquista de las libertades públicas y la democracia política.

«Quizás luzca fría y teórica esta exposición, si no se conoce la espantosa tragedia que está viviendo el país en estos seis órdenes, sumada a la más humillante opresión política».

Solo una Revolución podía cambiar ese panorama, que cuatro años después del asalto se había agravado tanto que, en 1957, una organización religiosa como la que mencioné terminaba su encuesta con el reclamo de un cambio radical y definitivo en el país.

Cambió Cuba, pero no cambiaron los afanes de poseerla del vecino poderoso, con la entusiasta colaboración de los halcones y los apátridas serviles del sur de la Florida.

No pueden apropiarse de Cuba, como advirtió Maceo, y deciden perseguirla, acorralarla, asfixiarla. El asedio que sufren todas nuestras operaciones comerciales y financieras ha escalado en los últimos años y meses a niveles extraterritoriales, ilegales y criminales.

Voy a dar una cifra fresca para que juzgue el mundo: solo en el último año, de marzo de 2018 hasta abril de 2019, el bloqueo nos provocó pérdidas por valor de 4 343 millones de dólares.

Advierto que el dato no refleja las afectaciones provocadas por las últimas medidas de la actual administración que limitan las licencias de viajes, prohíben el atraque de cruceros y refuerzan las restricciones financieras al impactar directamente al turismo y a las actividades asociadas que benefician al creciente sector no estatal de la economía.

Son esas restricciones y la persecución financiera contra Cuba las causas principales del desabastecimiento de alimentos y combustibles y de la dificultad para adquirir piezas de repuesto indispensables para sostener la vitalidad del Sistema Electroenergético Nacional, que nos han afectado en las últimas semanas y meses y que estamos enfrentando creativamente con la férrea voluntad de resistir y vencer.

Tras seis décadas de acoso a la más simple transacción cubana, las pérdidas acumuladas ahora alcanzan 922 630 millones de dólares, considerando la depreciación del papel verde frente al oro.

El cerco se cierra cada vez más sobre nuestro país como en torno a Venezuela, Nicaragua y cualquier otra nación que se niegue a aceptar el plan imperial para su destino.

Hoy denuncio ante el pueblo de Cuba y el mundo que la administración de los Estados Unidos ha comenzado a actuar con mayor agresividad para impedir la llegada de combustible a Cuba.

Con crueles acciones extraterritoriales de bloqueo hoy se trata de impedir por todos los medios el arribo a puertos cubanos de los tanqueros, amenazando brutalmente a las compañías navieras, a los gobiernos de los países donde están registrados los buques y a las empresas de seguro.

El plan genocida es afectar, aún más, la calidad de vida de la población, su progreso y hasta sus esperanzas, con el objetivo de herir a la familia cubana en su cotidianidad, en sus necesidades básicas, y paralelamente acusar al Gobierno cubano de ineficacia. Buscan el estallido social.

¡Qué poco nos conocen! ¿Cuándo acabarán de entender que la heroica familia cubana es capaz de enfrentar y resistir con dignidad los peores asedios y seguirse amando, aun en la distancia, porque nada ni nadie puede dividirla? (Aplausos).

Nos quieren cortar la luz, el agua y hasta el aire para arrancarnos concesiones políticas. No se esconden para hacerlo. Declaran públicamente los fondos destinados a la subversión dentro de Cuba, inventan pretextos falsos e hipócritas para reincorporarnos a sus listas espurias y justificar el recrudecimiento del bloqueo.

En el colmo del cinismo, apelan al chantaje.

Ignorantes de la historia y los principios de la política exterior de la Revolución Cubana nos proponen negociar una posible reconciliación a cambio de que abandonemos el curso escogido y defendido por nuestro pueblo, ahora como antes.  Nos sugieren traicionar a los amigos, echar al cesto de la basura 60 años de dignidad.

¡No, señores imperialistas, no nos entendemos! (Aplausos).  Cuba, que conoce las distancias éticas y políticas entre esta administración estadounidense y los más nobles ciudadanos de ese país, no ha renunciado a su declarada voluntad de construir una relación civilizada con Estados Unidos, pero tiene que basarse en el respeto mutuo a nuestras profundas diferencias.

Cualquier propuesta que se aparte del respeto entre iguales, ¡no nos interesa! (Aplausos).

Y en cuanto al pueblo norteamericano, está invitado permanentemente a Cuba.  Nuestras puertas están abiertas. Vengan, vean y conozcan la realidad del país que les niegan visitar en nombre de la libertad, derecho humano esencial que, según dicen, falta en Cuba y abunda allí.

Por nuestra parte, no nos dejaremos distraer con presiones y amenazas. Hay demasiados desafíos que vencer y vamos a concentrarnos en ellos: en primerísimo lugar, la invulnerabilidad económica y militar del país, el ordenamiento jurídico, la derrota de cuanto obstáculo interno o externo persista: sea el burocratismo, la insensibilidad o la corrupción, que no pueden aceptarse en el socialismo.

Y al imperialismo, «ni tantito así», frase del Che y enseñanza permanente de la Revolución (Aplausos).

Estos mensajes de la Cuba de principios políticos invariables, los llevaremos al Foro de Sao Paulo reunido en Caracas esta semana, para fortalecer la integración de las fuerzas de izquierda y su movilización frente a la ofensiva imperial que se ha propuesto quebrarnos, dividirnos y enfrentarnos.

Queridos compatriotas:

Lo que hemos encontrado en nuestros recorridos por esta provincia y escuchamos en el discurso de su primer secretario, Federico Hernández, son resultados económicos y sociales importantes. El territorio mereció la sede por sus avances innegables (Aplausos).

Destaco principalmente el 80 % de explotación de las tierras cultivables y el impulso a los polos productivos para el autoabastecimiento municipal, por la contribución que pueden hacer a la sustitución de importaciones en renglones como el arroz, alimento básico en la dieta de la familia cubana.  Pero –siempre hay peros– las autoridades del territorio reconocen que, aun con récords productivos importantes, están lejos de sus potencialidades.

Es una realidad común a todo el país, donde la batalla por el desarrollo es una intensa y fatigosa carrera de obstáculos de todo tipo.  El primero y determinante, el bloqueo norteamericano; el segundo, las prácticas incompatibles con el socialismo, que ya hemos señalado en las intervenciones ante los economistas, los intelectuales y artistas y en la Asamblea Nacional.

No me cansaré de insistir en el deber de pensar como país, de espantar el egoísmo, la vanidad, la desidia, la chapucería, el «no se puede».

Dejemos de creer y afirmar que la culpa es del otro sin mirar antes qué estamos haciendo, creando, aportando cada uno de nosotros.

Considerando el panorama de asedio brutal a nuestras operaciones financieras que he descrito antes, todos tenemos el deber de cuidar como «niñas de nuestros ojos» las costosas inversiones emprendidas en el transporte, la industria, las comunicaciones y otras áreas que estamos acometiendo.

Pretender que de repente la mentalidad se transforme a la velocidad máxima que pueden alcanzar nuestros trenes, podría sonar a utopía si no creyéramos en el pueblo y en sus reservas de moral y sus aspiraciones a un crecimiento con belleza.

Pero esos cambios no salen de un sombrero.  No somos magos.

Nuestro Consejo de Ministros no opera con ilusiones.  Nos corresponde dirigir y dirigir bien los escasos recursos disponibles para garantizar la distribución equitativa y justa de los bienes creados.

Estamos impulsando la producción nacional con eficiencia y competitividad, las exportaciones y la sustitución de importaciones, la inversión extranjera, los encadenamientos productivos, el empleo de la ciencia, la técnica y el talento de nuestras universidades para innovar, el Gobierno Electrónico y la comunicación como elemento fundamental en la pelea por destrabar y arrancarles un pedazo, lo más grande que se pueda, a los problemas de cada día.

Se aprecia un nivel de respuesta que entusiasma, pero no basta. Las circunstancias nos obligan hoy, como nos han obligado siempre, a imponerles un ritmo de avance superior a nuestras metas, a exigir, a controlar, a desterrar la rutina y a verificar en los hechos si la fórmula que empleamos ayer es efectiva o hay que renovarla.

Debemos sancionar fuerte y oportunamente a los que no entiendan que hoy defender la Patria pasa por cuidar y proteger sus escasos bienes materiales.

Si el Gobierno se consagra a mejorar la vida de nuestros ciudadanos, Gobierno y ciudadanos deben impedir que se maltrate, ensucie o descuide lo que tanto costó adquirir.

Puestos frente a la vieja disyuntiva de subir salarios ya o esperar resultados productivos para respaldar esas erogaciones decidimos elevarlos.  No una, sino varias veces el valor de lo que se estaba pagando.

Tampoco esperamos terminar el año para empezar a aplicar esta medida tan popular como dependiente de lo que seamos capaces de hacer todos para que se traduzca en crecimiento.

Pero, para sostener esa y todas las medidas de beneficio social que sean posibles, es preciso producir más y elevar la calidad de los servicios.

Nuevas medidas, propuestas por el pueblo, deberán aprobarse en las próximas semanas y meses.

Vamos por más no es una consigna. Es la traducción al lenguaje de gobierno de la respuesta política al enemigo: con quienes quieren robarnos la tierra, la casa, las escuelas, los hospitales, los círculos infantiles, las fábricas, las playas, los puertos y aeropuertos… ¡No nos entendemos!

Es la concreción en la práctica de nuestra voluntad de no dejarnos distraer por las presiones y amenazas y resistir creativamente sin renunciar al desarrollo.

«Los años duros impuestos por el asedio del imperialismo no pueden ocultar verdades como puños bajo el manto de la desmemoria», ha escrito la querida intelectual Graziella Pogolotti en su más reciente artículo, donde también nos recuerda que: «Porque la lucha no ha concluido, siempre es 26». (Aplausos).

Sí, el 26 de Julio será siempre una gran inspiración. Y pensando como país, quiero retomar una consigna de los años de trabajo en provincias, cuando convocábamos al pueblo motivados por la significación de esta fecha:

¡Trabajemos todos por hacer de cada día del almanaque un 26, de cada mes del calendario un julio, de cada compromiso un Moncada victorioso!

El mundo verá lo que somos capaces de hacer y el mundo nos acompañará en nuestra resistencia.  Es hora de hacer un nuevo y urgente llamado a su conciencia.

Podemos empezar o terminar esa convocatoria, con unos versos de quien siempre dijo Sí a la Revolución: Roberto Fernández Retamar, ensayista y poeta, intelectual enorme que se nos ha ido apenas. Expliquemos con sus bellas palabras qué somos y qué estamos haciendo, a pesar de los fuegos y los cercos.

En su poema A quien pueda interesar, escribió Roberto:

A lo largo de toda la Isla, somos menos que los que diariamente

deambulan por una gran ciudad.

Somos menos: un puñado de hombres sobre una cinta de tierra

Batida por el mar.  Pero

Hemos construido una alegría olvidada.

Por esa alegría que seguimos construyendo: ¡Vamos por más! Porque todos ¡Somos Cuba!  ¡Somos Continuidad!

¡Patria o Muerte!

¡Venceremos!


Il 26 nel petto di Cuba

Fidel ce l’ha insegnato. E ogni anno andò sulla tribuna in qualsiasi angolo di Cuba per dirci le ragioni del nuovo 26.

29 luglio – È l’alba de 26 di luglio ed è anche naturalmente l’aurora delle idee, non di una qualunque, ma l’idea vittoriosa.

Gli uomini marcano il tempo con le date, ma ci sono date che marcano gli uomini, ma se diventano leggendarie nella guerra per ciò che è giusto, emancipatore, equo e decoroso, per la crescita in piena libertà, allora marcano i popoli.

Quella del 26 di luglio Cuba la porta nel petto, come nascita, perché comincia  a nascere chi si libera dal giogo e dell’ignominia con la convinzione prima che nel campo di battaglia.

La solidità di un principio è la più forte corazza del convinto, la polvere migliore dei suoi cannoni. Ricordiamo: «Non c’è prua che tagli una nube d’idee».

Cosa furono gli attacchi alla Moncada e a Bayamo se non gli annunci dell’uomo nuovo proclamando la Patria nuova?

E i proiettili nei muri che non si possono cancellare, come stigmi, ricordando che c’è tutto un popolo sollevato?

Quanto dicono le vite dei morti, restituite  loro nella memoria di un paese che è libero, che li onora, che li ringrazia.

Quando sorge il sole, il 26 suona con il clamore delle  trombe per il combattimento.

È un clarinetto, una carica al machete, una marcia miliziana verso Girón.

È il Giorno della Ribellione Nazionale perchè è bandiera, perchè sostiene tutte le cause giuste.

Fidel ce l’ha insegnato. Per questo ogni anno andò sulla tribuna in qualsiasi angolo di Cuba, per dirci le ragioni del nuovo 26.

Dall’epica Bayamo, nella stessa piazza che oggi s’emoziona, parlò per i cubani un paio di volte della guerra d’allora, di quelle di resistenza, quelle della pace e de bene che sono le guerre costanti delle rivoluzioni.

Oggi il capo guerrigliero torna nello steso luogo dal quale parlò l’ultimo 26 di Luglio, confermando che è sempre vivo nelle generazioni nuove, come allora la sua, quella del Centenario che con l’offerta di piombo e di sangue onorò l’Apostolo e risvegliò la libertà di tutta la Patria.


Offerta a Raúl la Replica della Campana de La Demajagua

 

29 luglio – Bayamo, Granma – Con la partecipazione del Presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri, Miguel Díaz-Canel Bermúdez, e il Secondo Segretario del Comitato Centrale del Partito, José Ramón Machado Ventura, l’Assemblea Provinciale del Potere Popolare di Granma, ­riunita in sessione solenne- ha assegnato al Generale d’Esercito Raúl Castro Ruz, la Replica della Campana de La Demajagua.

Consegnata in occasione del Giorno della Ribellione Nazionale, la copia in bronzo, la massima distinzione dell’organo locale, è stata ricevuta dal compagno Machado Ventura, come conferma che Raúl è «artefice dell’indipendenza nazionale  e maestro dell’opera  nella costruzione della società socialista, e che ha dedicato totalmente la sua vita, senza condizioni, all’emancipazione della Patria».

Inoltre è stata concessa la condizione di Figlio Illustre al Comandante della Rivoluzione Guillermo García Frías; al viceammiraglio  Julio César Gandarilla, ministro degli Interni e a Wilfredo ­«Pachy» Naranjo, ­Premio Nazionale di Musica, ed è stato nominato Figlio Adottivo  il generale di corpo d’Esercito Ramón Espinosa Martín.

Infine è stata concessa la distinzione «Dallo sforzo, la vittoria» al prestigioso scienziato  Jorge Berlanga; al generale di corpo d’Esercito Leopoldo Cintra Frías, ministro delle FAR; alla generalessa di brigata Delsa Esther «Teté» Puebla; al “pelotero” ( giocatore di baseball) Lázaro Blanco, così come al nuotatore Lorenzo Pérez.

Hanno assistito alla sessione solenne anche i membri del Burò Politico del Partito, Salvador Valdés Mesa, primo vicepresidente dei  Consigli di Stato e dei Ministri; Esteban Lazo Hernández, presidente dell’ Assemblea Nazionale del Potere Popolare; Teresa Amarelle Boué, segretaria generale della Federazione delle Donne Cubane,  Ulises Guilarte de Nacimiento, segretario generale della Centrale dei Lavoratori di Cuba e Federico Hernández Hernández, primo segretario del Partito in Granma.

Al termine della cerimonia, il mandatario cubano ha visitato a Bayamo alcune installazioni sportive ristrutturate e il complesso gastronomico Tuxpan, ha constatato la modernizzazione del cinema-teatro Céspedes, ha aperto  un Palazzo di Computazione ed ha paralto con la popolazione.

Díaz-Canel ha anche partecipato a un «affettuoso e caldo incontro con la famiglia del Dr. Assel Herrera Correa, uno dei nostri due medici sequestrati», ed ha scritto nel suo account di Twitter che è «una bella e genuina famiglia cubana».

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